(p.b.) “Il paese è in festa e saluta i soldati tornati, mentre mandrie di nuvole pigre dormono sul campanile e ognuno ritorna alla vita come i fiori dei prati, come il vento di aprile” (Guccini). Chissà com’era quell’aprile del ‘45, quella primavera del ritorno alla vita. E’ finita la guerra, una guerra civile, le peggiori, “i fratelli hanno ucciso i fratelli”, odi, rancori, vendette che si trascinano per anni. Un risveglio di primavera che dovette dare sensazioni di libertà ma
anche di smarrimento, vent’anni di parole d’ordine, credere, obbedire e poi combattere “marce, svastiche e federali, sotto i fanali l’oscurità” (Rino Gaetano), riti, camicie nere e alalà, le adunate oceaniche, il Duce che ti guardava dai sussidiari “e i cavalli a Salò sono morti di noia, a giocare col nero perdi sempre” (De Gregori) e
dettava le regole di vita e poi le tragedie di guerre perdute, la disastrosa ritirata degli “italiani brava gente”, l’epopea di un popolo che non è mai stato guerriero e aveva in dotazione giusto milioni di baionette, scarpe di cartone che si sfaldavano, aerei antiquati, sottomarini mignon. Poi i tedeschi con quella lingua dura, minacciosa, da druidi che uccidevano e bruciavano i paesi. E le “memorie” dei parenti morti che si aggiungevano sui vetri delle credenze della cucina. Il risveglio di quell’aprile, col sospetto che fosse un altro settembre, quello del ’43, quando ci si era illusi che la guerra fosse finita con il “tutti a casa”, col cavolo, che invece partirono i treni blindati dei prigionieri, da alleati a nemici, il Duce che fonda una Repubblichina, e i “ribelli” sulle montagne, i rastrellamenti, gli attentati, le ritorsioni, le fucilazioni, gli agguati, le requisizioni, le spie, i sospetti, i tradimenti.
Nella storia ci sono risvegli che segnano una fine e un nuovo inizio. “E l’Italia cantando ormai libera allaga le strade sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce”. Una favola da raccontare, ma la realtà erano le ferite di guerra, mio padre che non voleva raccontare l’Albania e la Grecia, un carnaio di morti, mio zio che ogni sera doveva fare un bagno caldo alla sua gamba nera, ancora piena di schegge di granata. E le schegge della memoria, la voglia di dimenticare e non riuscire a togliersi la morte dai sogni e quelli che erano scappati dal paese e non si sono più fatti vedere perché li avrebbero ammazzati anche dopo anni. Un’ebbrezza primaverile di libertà ma intrisa di odio e sorda rivalsa. “E la Russia è una favola bianca che conosci a memoria e che sogni ogni notte stringendo la sua lettera breve, le cicogne sospese nell’aria, il suo viso bagnato di neve” (sempre Guccini). C’era una vedova che ha tenuto accesa la lucetta della porta di casa ogni notte, per anni, perché “se lui torna almeno sa che lo abbiamo aspettato”. Quanto si è aspettato, ma quel giorno di aprile si sono ripresi la vita. E solo noi (quorum ego) siamo nati senza rancore, in quel lontano 1945.
* * *
Al popolo ebraico in fuga dall’Egitto Dio risparmiò, per il passaggio del Mar Rosso, la piaga degli scafisti, aprendo il mare e richiudendolo a comando sugli inseguitori. Furono gli egiziani ad annegare in massa. Oggi il “mare nostrum”, rosso di sangue umano, si richiude quasi ogni giorno sui disperati. Al popolo dei nuovi disperati non c’è più un Dio che gli apra il Mar Mediterraneo in due. E vai con la discussione sugli “scafisti” da catturare, le loro barcacce da bombardare. Ma quelli sfruttano l’esodo, non ne sono la causa. Fermare l’esodo, eliminando la sua genesi (i titoli dei primi due libri della Bibbia), dovrebbe essere il problema.“Oltre un miliardo di persone vive in estrema povertà”. Nell’annuncio il “vive” dovrebbe essere sostituito da “sopravvive”. L’uomo cerca felicità, spesso si deve accontentare dei surrogati, il nostro spreco di cibo (e di acqua e di medicine…) sbattuto in faccia a chi non ha niente, equivale a dargli le coordinate per scappare dalla miseria per approdare a un vero o presunto paradiso terrestre che le tv diffondono in tutto il mondo come uno spot pubblicitario. Noi siamo più scafati, non ci caschiamo, non sempre almeno, non è come ce lo fanno vedere, ci sono miserie morali che portano alla morte, c’è sempre qualche paradiso migliore che rincorriamo. I barconi della morte sono la prosecuzione dell’antico “cammino della speranza” (il film di Pietro Germi del 1950 che descrive l’odissea di un gruppo di siciliani che salgono al nord, disperati dopo la chiusura di una zolfara e che finisce con le ultime immagini, girate al Passo della Presolana, che nella finzione era il confine con la libera… Francia). E se qualcuno in facebook arriva (senza umanità e vergogna) a fare macabra ironia sugli ultimi morti nel “mare nostrum” dicendo che “fanno festa i pesci”, bisognerebbe riportare la memoria ai nostri nonni e padri che hanno fatto i loro “cammini delle speranza”. Ricordo un vecchio che quando gli si chiedeva, incontrandolo, dove stava andando, rispondeva: ’n Francia. Altri sognavano l’America, del nord e del sud, ricordate i “bastimenti” delle canzoni popolari, “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar”? I sogni finivano al Passo, oltre il quale cominciava un mondo immaginato più giusto e soprattutto più generoso. Il pianeta è rotondo ma pieno di frontiere. La fame porterà sempre più masse di disperati ai confini e non ci saranno barriere che ne potranno reggere l’urto. Perché il filo spinato può fermare un gregge svogliato, ma non una carica di bisonti terrorizzati e affamati. (p.b.)