Da un’indagine di Jetcost che si occupa di turismo si viene e sapere che il 19% degli abitanti degli Stati Uniti pensa che il capo dello Stato italiano sia il Papa. Magari. Anche se Mattarella fa quel che può, sarebbe divertente vedere Salvini al cospetto di Papa Francesco; magari tenterebbe di accreditarsi come defensor fidei, il che indurrebbe magari il Papa a rispolverare la frase di Paolo VI a quella signora petulante che voleva spiegargli come secondo lei doveva cambiare la Chiesa e la bloccò: “Guardi che sono cattolico anch’io”. Venti di guerra soffiano impetuosi. E a soffiare non è un dio Eolo, ma gli homini novi, formalmente eletti, che si credono Dio. Il Papa si affaccia alla finestra del palazzone vaticano (dove non abita e non è un caso) e lancia accorati appelli alla pace. La sua voce non pesa più come un tempo, quello della crisi dei missili di Cuba con Giovanni XXIII che svolse un ruolo di mediazione tra i due potenti della terra, Kennedy e Krusciov. Ma già all’ironia di Stalin a Yalta (“quante divisioni ha il Papa?”) avrebbe risposto Pio XII alla notizia della sua morte nel 1953: “Adesso Stalin vedrà quante divisioni abbiamo in cielo”.
Siamo stati sull’orlo di una crisi epocale. Ma questo è un tempo (fortunatamente, per certi versi) in cui tutto non sembra reale, solo spettacolo; è come la boxe che è sostituita dal wrestling (Trump viene da quel mondo) dove è tutto finto, si mostrano i muscoli e si fa a gara a chi li ha più vistosi. I morti (veri) sembrano comparse, in questi moderni giochi di potere. Muoiono a frotte, ma lo spettacolo deve andare avanti (The show must go on), ci sono milioni di spettatori che, come al colosseo, allo stadio, parteggiano, pronti a fare il pollice verso contro i “nemici”. La Grande guerra, di cui quest’anno si celebra il secolo, con finale, una tantum, di vittoria per l’esercito italiano, fu una strage di popolo, i soldati erano i nostri nonni e bisnonni, mandati all’assalto (e al massacro) per uno sperone di roccia. Questo è un tempo in cui i massacri li vediamo in Tv, dal divano ci scappa un risicato “poverini”, ma poi passiamo ai “soliti ignoti” (parodia dell’identità presunta nella nostra reale crisi identitaria) e ci rilassiamo, non arriverà in casa nessuna cartolina precetto, noi no che non siamo coinvolti. Eppure “se credete ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti” (De André).
C’è un nuovo maggio alle porte, ma non è quello di mezzo secolo fa, la rivolta giovanile mondiale che tentò la scalata al mondo della felicità e della libertà. Non c’è più un sogno condiviso, glieli spegniamo nella cuna, caso mai poi si mettano in testa di cambiare il mondo che noi ci siamo rassegnati a tenere così com’è, adesso che ognuno di noi si è ritagliato il suo orticello, ben difeso dalle siepi e dalle ringhiere, barriere-confine dal resto dell’umanità. In Tv c’è una giornalista che ci avverte, “le immagini che stiamo mandando non le ha mostrate nessuno, eccole” e si vedono i bambini siriani che vengono lavati sotto una fontana per levargli dalla pelle il gas urticante. ”Poverini”. E poi via con quello che fa davvero audience, gli insulti di giornata tra Di Maio e Salvini. E noi che (perdenti come il Pd) stiamo a guardare. Riservandoci (come una parte del Pd) di tentare di salire sul carro del vincitore.