Entrano nelle docce ed escono cadaveri

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    Ne potevamo scegliere ovunque, ma abbiamo scelto queste. Raccontate da una donna, che forse in questo caso è diverso, che forse, per una volta passatemela, le donne le tragedie le sanno raccontare con l’anima e io quando ho letto quello che scrive Adriana Lotto è come se fossi fnita davvero lì dentro, nei campi di concentramento, anche solo un attimo, anche solo un secondo e ho pensato a mio fglio e a tutti quelli a cui voglio bene, ho pensato di vederli lì e di vedermi lì ed è stato come inflare la testa in un buco nero e spegnere la luce del cuore del mondo. Black out che spero arrivi dritto anche a voi dopo aver letto quello che state per leggere, perché solo stando male si può arrivare ad evitare di stare male ancora. Altrimenti è tutto inutile. Anche la Giornata della Memoria. Adriana Lotto è una docente di liceo e ricercatrice, vive e lavora a Belluno. Dirige con Bruna Bianchi la rivista ‘DEP Deportate, esuli, profughe’, rivista telematica di studi sulla storia e la memoria della deportazione femminile (www.unive.it/dep). Da anni collabora con l’Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea e presiede l’ Associazione culturale Tina Merlin. È autrice di libri, saggi e articoli su riviste e giornali, in particolare su guerra e resistenza, emigrazione e deportazione ed è lei che ha raccolto queste storie. * * * ADRIANA LOTTO “L’inferno sulla terra. La testimonianza di una dottoressa deportata ad Auschwitz” di Sima Vaisman è l’ultimo libro edito da Giuntina sulla memoria della Shoah. L’autrice, originaria della Bessarabia (Moldavia), si trasferì negli anni ’30 in Francia dove, rimasta vedova, continuò a esercitare la professione di dentista. Nel 1942 fu arrestata nei pressi di Lione e deportata ad Auschwitz. Scrisse di quell’orrore subito dopo la liberazione, ma, come spesso avvenne in questi casi, il manoscritto fu scoperto da una cugina soltanto nel 1983 e affdato alla pubblica lettura soltanto nel 1999, due anni dopo la morte dell’autrice. Righe possenti, penetranti tanto sono scarne, e ossessive nel riproporre immagini e odori altrettanto ossessivi. Colpisce, infatti, come la descrizione, senza pathos ma rigorosa, quasi estraniata, si appunti inevitabilmente sulla desolazione dei luoghi e dei corpi, e sul loro fetore. Fin da subito. Fin da quando, cioè, ha inizio il lungo viaggio su pagliericci sporchi, escrementi che fuoriescono dal bugliolo. Poi il fango del campo, la nudità dei corpi ancora più nudi dopo la rasatura e quella delle baracche dal pavimento di mattoni rossi su cui si ergono su due lati letti a castello o meglio tante ‘gabbie per conigli’. E ancora escrementi, che si perdono per strada o dentro ‘stracci luridi e puzzolenti’ che chiamano coperte. Alcune non sopportano e si gettano sul flo spinato elettrifcato che circonda il campo. Scoppia una epidemia di tifo, molti medici muoiono e Sima viene chiamata al Revier. Qui tutto è nero e sporco, di sangue, di pus. Odore di escrementi, odore di corpi in putrefazione, divorati da scabbia, foruncoli, pidocchi che si annidano persino sotto le fasciature. I casi di follia si moltiplicano. E le morti pure. E chi non ce la fa da sola, diventa buona per la selezione. Sima fa quello che può, ma le medicine non bastano e comunque molto spesso non servono. Il 16 maggio ’44, viene mandata al campo di Brezinski. Qui vede arrivare vagoni stipati di uomini, donne, vecchi e bambini. Sono i primi degli 800.000 ebrei ungheresi che verranno a morire da lì a settembre nelle camere a gas. Ma loro non lo sanno. Meglio se non lo sanno. Entrano nelle docce ed escono cadaveri per i forni crematori. E il commando di Sima smista le loro cose, mangia il loro cibo. Perché la fame è fame. Poi tocca agli zingari: 500 ragazzi tra i dieci e i quattordici anni. I loro giocattoli faranno brillare gli occhi dei fgli delle SS. Intanto i russi avanzano e i campi vengono evacuati. Lunghe colonne si muovono lente in mezzo alla neve. Si raggiunge Ravensbrueck, poi Neustadt. Ovunque fame, punizioni, decessi, appelli. Fino al 3 maggio ’45, quando i nazisti si danno alla fuga e i prigionieri si gettano selvaggiamente sul magazzino viveri. Tutto questo Sima descrive senza mai parlare di lei. Mai una volta compare «io», sempre si ripete il «noi». A segnare non solo una comunanza di destino, ma una solidarietà che sola permise la sopravvivenza seppur di poche. Sei donne nel Lager Il fumo di Birkenau di Liana Millu, uscito la prima volta nel 1947, è stato costantemente riproposto negli anni successivi sempre da Giuntina. Si tratta di sei storie di donne, storie disperate di donne piene di speranza. Già Primo Levi, nella sua introduzione, collocava quella di Liana Millu «fra le più intense testimonianze europee sul Lager femminile di AuschwitzBirkenau» e riconosceva come la condizione delle prigioniere fosse peggiore di quella degli uomini, per vari motivi. Oggi diciamo che non era né peggiore, né migliore, semplicemente diversa perché offendeva la donna in quanto donna. Anche in questo caso, l’autrice si eclissa, o meglio diviene un occhio attento che annota e riporta con parole mai ridondanti talune vicende, compresa la loro conclusione più spesso sottesa che narrata. E le vicende sono quella di Lily, oggetto di attenzione da parte dell’amante della Kapò e da questa condannata a morire. Lily è una giovane ragazza che nella sua pervicace volontà di restare donna custodisce il sogno d’amore, «come unica cosa sua che poteva coltivare gentilmente nel suo intimo; una minuscola famma protetta con cura contro la bruta violenza delle tenebre che la circondano». Il sogno l’aiuta a vivere, il gesto dell’uomo la farà morire. Maria, invece, è entrata nel campo incinta. Ha nascosto a lungo, sotto le fasce strette sul ventre, la gravidanza, decisa a portarla a termine, assolutamente. Denunciata da una anziana prigioniera che la morte della fglia ha reso ostile di qualsiasi altra giovane che sia ancora in vita, morirà dissanguata assieme al bimbo, venuto alla luce in una notte infernale, nel lurido di una baracca gremita di donne vocianti, senza né acqua né luce, aiutata dalla vecchia cui la miracolosa nascita ha restituito d’un colpo la sua umanità. Bruna ha perduto il fglio. Le è stato strappato all’entrata nel Lager e ora svuota i grossi bidoni di immondizie e si indebolisce sempre di più. Qualcuna lo vede e avverte la madre che si premura di raccattare quel poco di cibo, privandosene ella stessa, che lo tenga in vita. Anche le compagne metteranno da parte un boccone di pane per Pinin, «tanto la fame sarebbe stata sempre la stessa». Ma Pinin viene messo nel blocco della quarantena e Bruna presa dall’ansia di non poterlo vedere e sfamare smania sempre di più fno a che quel crescendo di angoscia e tormento si stempera d’un tratto sul reticolato ad alta tensione dove le dita di madre e fglio si intrecciano per l’ultima volta nell’ultimo istante di vita. Zina, la russa, si intestardisce a voler aiutare nella fuga Ivan, che tanto assomiglia al marito ucciso. Morirà di botte, che tanto senza di lui la vita non ha senso. La scelta di sopravvivere, prostituendosi, costa a Lotti la perdita affettiva della sorella che pur giacendo sfnita nel Rivier non accetta i suoi doni. Anche Lise è posta di fronte al medesimo dilemma: salvarsi tradendo il marito o morire, abbandonarlo, per rimanergli fedele? Alla fne sulla promessa di fedeltà prevale l’amore per l’uomo e la speranza di tornare insieme. Così quella sera, ‘Lise tornò abbastanza tardi e, oltre al fazzoletto, aveva trovato pane e un’armonica’. Il bambino ebreo Anni d’infanzia. Un bambino nei lager dell’olandese Jona Oberski, edito sempre da Giuntina, racconta la tragica vicenda di un bambino ebreo deportato con i genitori in un campo di concentramento. Lo sguardo con cui egli si muove a ritroso nel tempo trascinandoci con sé è oramai estraniato così che la scrittura è secca, senza orpelli. Il racconto, senza tempo, comincia con la convinzione che si tratti di uno sbaglio. Jona si trova con la madre e molti altri non si sa dove né quando. Si sa che è buio, che le pareti sono di legno e che c’è un odore sconosciuto. Dopo una settimana tornano a casa, ma non torna la normalità. I negozianti chiudono agli ebrei, i loro fgli prendono a insultarli, la stella gialla li segna. Poi la retata. Nel ricordo di Jona c’è un uomo col fucile che grida «sbrigarsi». Tanti cappotti salgono sul camion, poi sul treno, infne si dirigono a piedi verso le baracche. Questa volta non si tratta di uno sbaglio. Non torneranno a casa, ma forse potranno proseguire per la Palestina. L’appello nel buio e poi su, di nuovo su un treno, a fatica, perché è già stipato. L’ingresso nel campo vede la separazione dal padre e gli sforzi della madre per assicurare cibo al fglio e al marito che vede di nascosto e che morirà poco dopo. La descrizione di quella morte sembra la registrazione impassibile di un evento ineluttabile, in realtà trasuda disperazione fno al compimento, poi subentra la rimozione: «Gli diedi in fretta un bacio sulla mano. Poi corsi fuori. Quando fui all’aperto mi ripulii svelto le labbra con la manica». Ma la pietas non tarda a venire. Spinto dagli altri bambini e chiuso dentro l’obitorio, dove i cadaveri giacciono gli uni sopra gli altri, Jona crede di vedere il padre senza un lenzuolo che lo avvolga e della cui mancanza accusa la madre, quasi che coperto il morto fosse meno morto. Poi l’evacuazione del campo. Di nuovo sul treno. Si scende soltanto per raccogliere acqua e bollirvi dentro le ortiche. Arrivano i russi. A Troeblitz si mangia e fa caldo. Ma non per la madre. che muore nell’infermeria. Curato da Trude, Jona torna ad Amsterdam, nella casa di una zia. Il fotto di vomito fnale è quasi una liberazione, ma la normalità tarda, forse non è mai venuta se Jona conclude: «per i miei genitori adottivi, che con me hanno dovuto patire non poco».

    “Non partire! Resta a casa, c’è qualcosa che non va. Circolano strane notizie!”. Potevi salvarti, nonno. Ma tu eri già partito Vostro figlio prigioniero probabilmente parte per la Germania. Pregate per lui. Si raccomanda la sua bambina. E sei diventato un numero: prigioniero 12566

    22 dicembre 2011, ore 22 e 12 minuti. Una donna naviga in internet, apre il sito del Ministero della Difesa – Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra. Sullo schermo del PC compare un nome, quel nome che si cercava da anni, quel nome rapito dalla guerra, sospeso nella ftta nebbia dei dispersi, uomini a cui è stato negato anche il riposo nell’abbraccio dei propri cari. Cillo Gino, nato a S. Margherita d’Adige il 3 novembre 1916, morto il 27 giugno 1945 e deposto nel cimitero civile di Dablice – Praga – il giorno successivo. Sessantasei anni per trovarti, novecento chilometri per raggiungerti, per portarti un fore, per farti rivedere tua fglia ormai diventata nonna. Non giorni ma anni scanditi da interrogativi: dove, quando, come, perché. Quante domande senza una risposta! Ti sei sposato il 22 dicembre 1941 e forse non a caso sei ritornato da tua moglie, da tua fglia, dalla tua famiglia esattamente settant’anni dopo, a festeggiare un anniversario indimenticabile. Non cambia niente, le vite hanno vissuto accompagnate dalla tua assenza, ma nell’anima cambia tutto. Questa cosa può capirla soltanto chi sa di avere un’anima. Sei stato chiamato alle armi per il servizio di leva obbligatoria il 21.05.1938, Matricola 4016 del Distretto di Padova, e assegnato alla Guardia alla Frontiera 5° Corpo di Armata 151° Reggimento Fanteria. In seguito assegnato al XXVII Settore di Copertura – II Compagnia Mitraglieri P.M. 41 – a Fiume il 7 gennaio 1940. Mobilitato il 4 giugno 1940, sei passato dal servizio militare alla guerra, quella vera, quella delle pallottole che bruciano, delle bombe che uccidono, degli uomini che odiano. Dal 6 al 18 giugno hai partecipato alle operazioni di guerra sulla frontiera italo – jugoslava e dal 18 novembre 1942 all’8 settembre 1943 hai partecipato alle operazioni di guerra nei territori di Gorizia, Trieste e Fiume. L’ultima licenza nell’estate del 1943, appena prima della capitolazione di Mussolini, prima dell’armistizio frmato dal Generale Badoglio, prima del caos e dello smarrimento che hanno travolto le truppe italiane e la Patria per cui combattevano. Ti immagino mentre ti allontani dalla tua casa, in bicicletta percorri una strada sterrata, nel cortile la tua bambina gioca e ti saluta “Ciao, papà!” senza sapere che non ti avrebbe rivisto più. Era mezzogiorno, alle sei della sera la tua famiglia ha ricevuto una lettera spedita da tuo fratello arruolato in aeronautica a Ghedi. Voleva avvisarti: “Non partire! Resta a casa, c’è qualcosa che non va. Circolano strane notizie!”. Potevi salvarti. Ma tu eri già partito, eri già salito su quel treno che ti riportava al fronte… E invece il treno si ferma, i tedeschi fanno scendere tutti, sono armati e ora sono i nemici. Capisci che ti portano via, riesci a dare a qualcuno un biglietto con un indirizzo e poche parole, il tuo ultimo messaggio: Vostro fglio prigioniero probabilmente parte per la Germania. Pregate per lui. Si raccomanda la sua bambina. Prigioniero delle truppe tedesche dall’8 settembre 1943 e trasferito in Germania due giorni dopo, hai smesso di essere una persona e sei diventato un numero: numero del prigioniero 12566, come si pronuncia 12566 in tedesco? Parli il dialetto veneto tu, e conosci quello milanese perché a Milano facevi il cuoco in una trattoria con il tuo amico Bepino. Non comprendi il tedesco, ma certo avverti perfettamente il disprezzo nazista ancora più marcato da una lingua tanto dura. Mentre il governo italiano, macchinoso e incerto, lasciava privo di indicazioni chiare il proprio esercito, le truppe tedesche erano già pronte ad attuare le dettagliate direttive del piano “Achse” che prevedeva il disarmo e l’arresto dei soldati italiani e il loro trasferimento nei campi di prigionia. La tua destinazione: Stalag VIIIA Gorlitz – nome polacco Zgorzelec – Voivodato della Bassa Slesia, situato al confne tra Germania, Polonia e Repubblica Ceca, distante 100 km da Dresda e 170 km da Praga, numero del campo 16354. “Badoglien” è l’appellativo usato per indicare il forte disprezzo per i traditori italiani, destinati a essere schiavi, non prigionieri di guerra come gli altri, ma Internati Militari Italiani esclusi dai benefci stabiliti dalla Convenzione di Ginevra e utilizzati nel lavoro coatto nell’industria bellica, nelle miniere, nelle fabbriche, nelle fattorie, ovunque fosse possibile sfruttare manodopera senza sostenere spese. La maggior parte dei prigionieri veniva impiegata nelle miniere di carbone, ai tedeschi servivano tecnici, tu eri cuoco. Quanto è diffcile, nonno, ricomporre il puzzle dei tuoi ultimi anni di vita. Lentamente si delineano immagini in bianco e nero, perché la prigionia toglie i colori a tutto. Le ultime notizie alla famiglia risalgono all’aprile del 1944. Lo stalag VIIIA è stato liberato dai russi nel febbraio del 1945, la guerra è fnita! Si torna a casa. Probabilmente sei stato trasferito a Stalag IVB Zeithain, lager adibito a lazzaretto dove venivano raccolti i prigionieri malati e poi ti sei diretto verso Praga, terra di nessuno, linea di confne fra l’occupazione russa e americana, dove era stato predisposto un campo di raccolta per soldati e civili italiani gestito dagli americani. Sei sopravvissuto ai campi di lavoro, hai percorso 170 km a piedi, con mezzi di fortuna, forse sei riuscito a salire su un treno… hai sentito la libertà così vicina, il profumo di casa, negli occhi della memoria il colore della tua terra. Ma qualcosa ti ha fermato lì a Praga, a 28 anni, denutrito, sfnito, malato, probabilmente di tifo o tubercolosi. Un amico, Medici Luigi di Brescia, ritornato a casa ti ha cercato convinto che anche tu ce l’avessi fatta: Gino, mi avevi promesso che ci saremmo rivisti, mi parlavi sempre di tua moglie e di tua fglia, perché non mi hai più scritto?… Dopo 68 anni la tua famiglia e l’Italia che crede nei valori per cui sei morto ti dedicano la Medaglia d’onore ai cittadini italiani, militari e civili, deportati ed internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra. Quante volte avrai opposto consapevolmente il tuo rifuto ad aderire alla Repubblica di Salò e a combattere al fanco dei tedeschi, contro la tua stessa patria, nonostante le promesse di cibo e di libertà? La tua non è stata prigionia passiva, ma resistenza attiva ed è per noi sinonimo di eroismo. Vorrei tanto, nonno, vorrei che quelli che se ne stanno seduti su comode poltrone istituzionali avessero un briciolo del coraggio e dell’onestà che avevi tu. E invece, omuncoli dallo spessore di carta velina, non hanno nemmeno un pallido sentore del signifcato di Onore e Giustizia.