Suor Veronica: “Ha ragione Papa Francesco, siamo nella globalizzazione dell’indifferenza, siamo bestie, dobbiamo fermarci, cambiare, come Francesco d’Assisi e cambiare si può, sì, il mondo è nella sua Pentecoste”
sereno, vento, pioggerellina, nebbie che si alzano e si abbassano quasi a danzare per accogliere ottobre. Cammino verso il convento delle clarisse di Lovere, 8,30 del mattino, lungo la strada auto di mamme che portano bimbi a scuola, gente che va verso l’ospedale, io che mi fermo prima, davanti a quel portone. Sono passati 10 anni da quando mi sono inflata qui dentro la prima volta, sempre per questioni di… penna, allora ero diversa, mica meglio o peggio, semplicemente diversa. Anche il mondo era diverso, anche suor Veronica, che devo incontrare adesso, era diversa. Ottobre, mese di San Francesco, patrono d’Italia, e quel nome, Francesco, che è diventato comune a tutti in questi mesi, quel nome che Papa Bergoglio si è scelto per camminare dentro la Chiesa e fuori dalla Chiesa, dentro la gente e in mezzo alla gente. E adesso che si respira l’entusiasmo e la voglia di un francescanesimo, di una povertà, va beh dai, non sempre per scelta, la crisi ci ha messo del suo, andiamo a fare un viaggio nel cuore del francescanesimo visto dal punto di vista femminile, di quelle donne che si chiudono per tutta la vita dentro a un monastero, ma la chiusura è solo di facciata, dentro invece, loro, le clarisse sono in mezzo al mondo ogni giorno, ogni attimo. Io storco il naso quando sento queste cose, anche adesso che le scrivo, ma ci provo e suono il campanello, dieci anni dopo sono ancora qui, a parlare con te, a parlare con Suor Veronica, che allora era badessa, adesso è semplicemente suora, perché qui dentro tutto torna sempre all’origine, come del resto dovremmo fare noi quando ce ne andremo da questo pezzo di mondo. LA SPERANZA È LA VIRTÙ PIÙ URGENTE E NECESSARIA VIVIAMO UNA SVOLTA EPOCALE ANCHE PER LA CHIESA Entro e dalla piccola grata della portineria una suora mi dice di accomodarmi al parlatorio numero 2. Mi siedo e aspetto, arriva suor Veronica, apre lo sportello della grata e cominciamo. Senza fltri e senza barriere. Almeno lei, io i miei fltri e le mie barriere ce le ho ancora. C’è una voglia di francescanesimo, perché? “E’ il risollevarsi della speranza nel cuore della gente; si chiama speranza – comincia suor Veronica –la virtù propria e più necessaria per i nostri giorni. E’ necessaria e urgente perché c’è carenza di speranza. Stiamo vivendo una svolta epocale anche per la Chiesa che nell’umanità vive e cammina ed è essa stessa umanità. Una svolta nella quale non si vede ancora l’orizzonte nuovo che può aprirsi; un tempo di sofferenza, di buio, dove c’è tanta violenza, smarrimento, confusione. La speranza è la virtù per i nostri giorni: noi qui dentro la teniamo accesa alla luce di Dio e del Suo mistero, e ad essa invitiamo chiunque venga a parlare con noi. C’è una bella immagine della speranza, in una delle opere di Charles Péguy; è rappresentata come una piccola bimba che dà fduciosamente la mano alla fede, che è invece, una grande signora… Ecco, per sperare occorre essere un po’ fanciulli. Ci vuole semplicità, capacità di credere e di affdarsi; occorre farsi piccoli, come del resto tutti noi siamo… Chi può dire in verità, “Sono grande”? L’uomo, ogni uomo in quanto tale è un ‘essere di bisogno’. Abbiamo bisogno di vita, abbiamo bisogno di pane, abbiamo bisogno di accoglienza, di comprensione, di benevolenza, abbiamo bisogno di salvezza, abbiamo bisogno di ‘senso’ cioè di comprendere perché e per chi si vive… L’uomo, ogni uomo, senza un riferimento fuori di sé, si smarrisce, perde la sua vera identità. E questo Altro che costituisce per l’uomo la possibilità di essere se stesso, questo Altro è Dio. Dio è la vita dell’uomo –che lo si sappia o no, che lo si creda o no, che lo si voglia o no. Se Egli togliesse da noi il suo Spirito, come dice il salmo, noi ritorneremmo alla polvere”.
PAPA FRANCESCO È IL FRUTTO MATURO DEL CONCILIO VATICANO II Per te è semplice, per me molto meno: “Abbiamo un Papa che probabilmente non ci aspettavamo: un dono di Dio in un momento difficile della storia della Chiesa e dell’umanità. Un papa che risolleva la speranza, che ha in cuore, e a cuore, i poveri, quelli che vivono ai margini, quelli dimenticati nelle periferie geografiche ed esistenziali. Un Papa che fin da subito ha ricordato agli uomini la tenerezza di Dio e di questa tenerezza si fa strumento concreto, tangibile, immediatamente percepibile… papa Francesco che ricordando il santo di Assisi, dice e ripete all’uomo dell’era digitale che è necessario reimparare l’abbraccio… ‘Dobbiamo reimparare ad abbracciare!’. Papa Francesco l’hanno votato i cardinali con la quasi unanimità dei voti. Questo signifca che volevano una Chiesa che fosse vicina all’uomo, serva dell’uomo, capace di portare all’uomo di oggi la bella notizia dell’amore di Dio. E hanno pensato che l’arcivescovo di Buenos Aires, avrebbe potuto esprimere una Chiesa così. Quindi, anche la gerarchia nei suoi vertici più alti (i cardinali) ha voluto che la Chiesa ridiventasse quel sacramento che avvicina Dio all’uomo e l’uomo a Dio. La Chiesa comunione, la Chiesa, popolo che Dio ama, la Chiesa che il Concilio aveva auspicato, su cui aveva rifettuto e di cui aveva parlato nei suoi documenti. Papa Francesco è un frutto maturo del Concilio Vaticano II. Ci son volute due generazioni (cinquant’anni) ed ora, ecco… il popolo di Dio ha riconosciuto immediatamente, nella voce di questo Pastore, la verità del Vangelo, la possibilità della speranza. A me, pare di vedere l’umanità che solleva il capo, che si riscuote dalla paura e prova a ricominciare a sperare”. CONOSCIAMO IL MONDO (ANCHE POLITICO) LA SUA ANGOSCIA E IL SUO SMARRIMENTO Ma voi qui dentro avete il polso della mancanza di speranza che c’è fuori? “Certo che lo abbiamo, a me pare che davvero riusciamo a tastare il polso dell’umanità… Forse può sembrar strano, eppure è così.”. Ma non è che qui da voi c’è il rischio che viene gente solo perché ha problemi? Come fai a capire l’esatta consistenza di quello che c’è fuori? “Non è propriamente così; qui arrivano tante voci, voci diverse, anche tramite terzi, qui – suona strano – si impara a conoscere la vita, in tutti i suoi ‘colori’, perché si impara, a poco a poco a conoscere il cuore dell’uomo, i suoi aneliti e le sue miserie, le sue più profonde speranze e le sue impotenze. E’ la Parola di Dio che ce ne parla, ed è la vita fraterna in comunità che ce ne offre la consistenza. Così, noi donne povere, rinchiuse in poco spazio, siamo rese capaci di comprendere un po’ di più il cuore umano. Ciò costituisce parte integrante della missione della Chiesa che, proprio a questo uomo concreto, storico, è chiamata ad annunciare l’eterno amore di Dio, Padre di tutti. Ed è quanto vediamo fare da papa Francesco”. DA 35 ANNI SONO IN MONASTERO NON ANDIAMO A FARE UNA PASSEGGIATA Sentire e vivere la fede dal punto di vista femminile, com’è? “Io ho speranza, ho speranza in Gesù. Ricordavo a mia madre qualche giorno fa, le Sue parole: ‘Abbiate ifducia, io ho vinto il mondo’. Gesù è vivo, è la mia speranza, è Lui che sostiene e fa bella la mia vita in fraternità, pur con le sue fatiche di ogni giorno. Teste diverse, sensibilità diverse, età diverse possono, a volte, appesantire le relazioni tra noi, il camminare insieme. Ma la relazione prima e preferenziale che ciascuna di noi vive col Signore Gesù, non solo spiana la strada, ma addirittura rende le difficoltà un’opportunità di crescita… E’ una palestra e le regole del gioco sono tratte dal santo Vangelo e allora, succede il miracolo: ciò che sembrava amaro, diffcile, diventa dolce, leggero, possibile”. Da quanti anni sei qui dentro? “Da 35 anni e qui dentro ho imparato a cogliere i segni della sua presenza, li colgo ogni giorno. E questo mi ha fatto crescere ed ha accresciuto in me l’amore alla vita”. Quando sei entrata avevi ventitre anni, non avevi paura? “No, ero molto gioiosa. Era il 1978, tempi diversi, rispetto ad oggi… Oggi ci appare più oscuro l’orizzonte e, per questo, oggi è il tempo della speranza: Viviamo un’opportunità di fede più matura, di fede purifcata, di speranza che non è un vago sentimento in cui si mescolano incertezza e paura, ma è la forza spirituale che ci viene dall’affdarsi a Gesù e alla Sua parola. Non dobbiamo dimenticare che Gesù ci ha salvati con la morte in croce; il punto culmine della nostra salvezza e della nostra vita è la croce del Signore. Da quella croce, da quel fallimento, da quel buio, è scaturita la resurrezione Sua e nostra; è scaturita la gioia, la luce. Per questo noi, pur nei travagli a volte terribili, della storia, continuiamo a custodire la speranza”. LA GENTE CHE VIENE DA NOI CERCA ASCOLTO E CONSOLAZIONE Quindi mettiamoci il cuore in pace che sperare non vuol dire vivere bene, ma soffrire? “Direi così: la sofferenza fa parte della vita, anzi, di più: la morte fa parte della vita. Vediamo in tutta la creazione questa alternanza, morte-vita. Il seme marcisce nella terra e spunta una piantina viva, nuova; dal travaglio, dal parto, dal sangue del dolore, spunta un bimbo, un uomo nuovo… Anche l’alternanza delle stagioni racconta questo: dall’apparente morte dell’inverno, scoppia, a suo tempo, la primavera con una esplosione di fori e di colori… Dal buio della notte fuoriesce il sole di un altro giorno… E’ così. E così il nostro dolore di oggi nasconde in sé una possibilità di vita più alta; la nostra morte corporale ci aprirà alla vita eterna, la vita dei fgli di Dio, per sempre”. Cosa cerca la gente quando viene qui, quando suona e chiede di parlare con voi? “Cerca in noi l’ascolto, l’accoglienza, la consolazione, E noi offriamo la consolazione che riceviamo da Dio, da Gesù, dalla Sua parola. E la gente la coglie, la riconosce, e ne è consolata. Sì, generalmente si fa questa esperienza: accogliere fraternamente e annunciare Dio, dà consolazione, conforta, allevia anche il dolore più forte. Dio è la prima e l’ultima parola, una parola di gioia, di pienezza di vita, di pace. Dio non toglie il dolore, no, anzi, è venuto ad assumerselo, non lo toglie ma lo consola e questa consolazione è una grande graziCOSA SI DEVE FARE PER CREDERE? LOTTARE CON SE STESSI E COLTIVARE LA FEDE Già, ma io come faccio a credere? “Credere è una dimensione essenziale della vita. Senza affidamento non si vive. L’uomo è un essere relazionale ed è un essere di bisogno. Per vivere abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di molte cose, abbiamo bisogno di Dio. Affidarsi è accettare consapevolmente (e intelligentemente) di non bastare a se stessi. La fede che abbiamo ricevuto come un piccolo seme vitale, nel battesimo, è un dono vivo e, se rimane vivo, deve crescere. E se deve poter crescere deve essere alimentato, nutrito. Altrimenti muore”. Come si fa a nutrirla? “La fede è una relazione, un affidarsi a Dio, alla Sua parola. E questa relazione si alimenta con la preghiera, con i sacramenti, con la conoscenza, con la frequentazione della famiglia di Dio che è la Chiesa. Oggi, capita spesso che si raggiungano livelli culturali medio alti, mentre la formazione cristiana, cioè le conoscenze riguardanti la fede, rimangono al livello di quanto abbiamo imparato al tempo della cresima. Cosicchè, la nostra fede infantile, non è in grado di ‘dialogare’ con le altre conoscenze che abbiamo e noi finiamo per pensare che la fede sia… roba da bambini. Certo non è così, ma la fede non alimentata, si atrofizza, diventa rachitica… La fede è relazione col Dio vivente, col Dio che è Persona. Bisogna alimentare questa relazione, bisogna incontrarsi con questo Dio vivo che è Amore”. LA GENIALITÀ DELLA FEDE E da cosa parte una come me che arriva alla mia età ed è al livello delle… scuole medie? “Comincia dal livello in cui ti senti, di’: ‘Signore aiutami a credere’, oppure ‘Signore soccorrimi’ o … quello che ti viene. Parti dal punto in cui sei”. Suor Veronica è entusiasta. “Penso a un gigante della fede, a Santa Teresa di Gesù Bambino, che oggi 1 ottobre, festeggiamo. E’ morta di tisi a 24 anni tra pesanti sofferenze in un anonimo Carmelo di provincia, a Lisieux in Francia. Un Carmelo – era anche lei una suora di clausura – che non splendeva per particolari carismi. Teresa è stata proclamata dottore della Chiesa da Giovanni Paolo II, cioè è stata riconosciuta capace di trasmettere un insegnamento che può essere d’aiuto a tutta la Chiesa. Per me, Teresa è maestra di fede; fu geniale nel cercare e riconoscere i segni dell’amore di Dio, della Sua tenerezza, anche là dove le vicende concrete della sua vita le portarono sofferenza e frustrazione. Ho letto più volte i suoi scritti: sono di una forza non comune e di una bellezza travolgente. Teresa che soffrì molto, anche a motivo della sua sensibilità effettivamente eccessiva, non dubitò mai dell’amore di Dio. E la sua fede conobbe anche la dura prova di un periodo in cui le sembrava che non esistesse né Dio né il Cielo. Nulla. Le sembrava di essere in un tunnel oscuro, senza via d’uscita; quello in cui aveva creduto con gioia, le appariva una menzogna, un’illusione. Ebbene; proprio in questo periodo, fece più atti di fede che non per tutto il resto della sua vita. Poi il Cielo si rischiarò ancora e Teresa morì, quasi gridando, nel dolore di una tremenda agonia: Mio Dio, io ti amo!”. HO VISSUTO UN PERIODO DIFFICILE LA FEDE NON È UN VESTITO E tu il tuo tunnel qui dentro l’hai mai vissuto? “Ho vissuto un periodo difficoltoso, un tempo di grande sconforto. Ero qui da 8 anni… Vedi, la fede in Dio non è un vestito che ti metti, qualcosa di cui ti rivesti dall’esterno. La fede è relazione e necessariamente passa attraverso tutta la tua persona e cresce con te. Per me quello è stato un momento di crescita, di maturazione, e anche la mia fede doveva crescere passando attraverso la consapevolezza di me, delle mie reali fragilità, dei miei più veri desideri, delle mie possibilità e delle mie lacune… E’ stato un vero travaglio”. Volevi uscire? “No, non ho pensato questo. Continuavo a credere in Dio, anzi, mi sembrava che mi fosse rimasto solo Lui. E’ stato un anno e mezzo di desolazione, di sconforto, durante il quale però ho continuato a fare quello che avevo fatto, fino ad allora, tutti i giorni, fidandomi ciecamente… Ho pianto molto. Lo sa Dio”. Poi? “Poi è passato, un percorso necessario, sì, è stato un percorso davvero necessario”. NON SAPPIAMO PIÙ PIANGERE E STAR MALE PER GLI ALTRI Quante siete qui dentro? “Adesso in 26, quando sono arrivata io eravamo 38, poi parecchie anziane sono morte, alcune sorelle sono andate ad aiutare un monastero in Liguria, altre sono partite per Bienno per la nuova fondazione che ci è stata chiesta dalla diocesi”. Anche voi siete in calo di vocazioni: “Sì, non c’è il ricambio generazionale, come del resto un po’ in tutta la società occidentale. Non c’è ricambio sia per la denatalità che ha segnato gli ultimi decenni, sia per il raffreddarsi della fede, nell’Europa secolarizzata, fortemente scristianizzata. Io sono convinta però che i giovani oggi sono pronti ad accogliere il Vangelo. Ci vuole qualcuno che glielo sappia annunciare. Questo è tempo propizio per una nuova, promettente evangelizzazione. Questo tempo di papa Francesco, di papa Ratzinger è un tempo di… Pentecoste, sì, sono convinta che stiamo vivendo una Pentecoste, un momento di grande grazia. Gesù è vivo e sta guidando la sua Chiesa. Dio misericordioso ci sta aspettando; ci aspetta sempre, come dice papa Francesco. Da parte nostra dobbiamo recuperare in umanità; non sappiamo più piangere per chi soffre spesso così atrocemente e ingiustamente. Papa Francesco parla di globalizzazione dell’indifferenza… E’ una cosa grave, inumana. Dobbiamo lasciarci trasformare il cuore di pietra in un cuore di carne. Sì, con il Signore Gesù si può cambiare. E’ tempo”. Qui dentro non potete possedere nulla? “Non possiamo possedere nulla, secondo la regola di Santa Chiara, ma tuttavia non ci manca nulla: abbiamo da mangiare e da vestire, abbiamo anche più del necessario”. Dimmi la verità, dai che ogni tanto ti viene voglia di uscire di qui. “No, l’uscire o il non uscire è, in fondo, abbastanza irrisorio. C’è gente, fuori che vive una vita ritirata come la nostra e anche più della nostra. Forse la povertà più grande per chi vive in monastero è la limitatezza delle relazioni interpersonali. O forse non è neppure così… Forse è proprio il vivere sempre con le medesime poche persone che rende possibile relazioni più profonde, più belle, che si costruiscono non sulle affinità o sulle simpatie –che pure non mancano, perché siamo gente normale- ma sulle realtà evangeliche dell’accoglienza benevola, del perdono, della fiducia, della fede. Sarebbe difficile e forse impossibile perseverare in relazioni basate sulle sintonie solo umane; è solo il Vangelo che dà solidità al nostro essere qui” LA NOSTRA “MATERNITÀ” IN MONASTERO La vostra giornata tipo: “Sveglia alle 5,15 tutte le mattine, la domenica alle 6; preghiera dalle 5,35 sino alle 8, poi colazione e lavoro”. Lavoro? “Ci dividiamo ogni settimana su più turni per cucina, infermeria, portineria, orto e altri lavori; così fino a mezzogiorno, preghiera fino alle 12,30, pranzo e dalle 13,30 alle 15,30 silenzio, lettura o studio o preghiera personale ognuna nella propria cella. Alle 15,30 un altro momento di preghiera assieme, poi ripresa del lavoro o incontri comunitari o lezioni. Alle 17,30 il rosario, con partecipazione libera e alle 18 il vespro tutte insieme, poi un’ora di meditazione e alle 19,30 la cena. Dopo cena un momento di ricreazione, tre quarti d’ora circa, e alle 21 compieta e, a giornata fiinita, ognuna nella sua stanza”. Vacanze? “Una volta all’anno restando qui, adottiamo un orario diverso, (il primo momento comunitario, per il quale occorre essere tutte pronte è alle 6,30) un orario più rilassato, che rende possibile per ciascuna sorella, il necessario riposo: meno lavoro, a volte, la ricreazione, qualche proposta di gioco, o la visione di film”. Cosa vorresti dare a chi ogni giorno chiede di parlare con te? “Vorrei davvero che ciascuno potesse conoscere Dio e trovare in Lui conforto, speranza e gioia, lo vorrei davvero”. Se potessi uscire cosa vorresti fare? “Forse farei volentieri un bel giro in montagna. Non so”. Lo senti davvero vicino il mondo? “Vicinissimo e lo amo”. Quando sei entrata avevi 23 anni, eri fidanzata? “Ho avuto il fidanzato, ma poi ogni scelta implica necessariamente qualche rinuncia. Mi sono messa su questa strada perché l’ho voluto e ho dovuto abbandonare altre strade; non si può fare tutto, non siamo onnipotenti”. E di conseguenza anche la scelta di non diventare madre, di non avere figli, non ti manca la maternità? “In un certo senso sì; quando ero più giovane di più, la maternità è l’esperienza del miracolo della vita, e io non conosco fisicamente questo miracolo. So però e ne ho l’esperienza, che posso anche qui essere madre, dando la vita a un altro. Non mi è negata qui in monastero la capacità di amare come donna e come madre. Ti sembrerà strano ma si può essere madre anche di una persona anziana… Qualche giorno fa mentre imboccavo una sorella di 90 anni ero un po’ la sua mamma; potevo esprimerle tenerezza e sostegno come si fa con i bimbi… Vedi, è la bellezza e il paradosso di questa vita rinchiusa: ti dà la possibilità di esprimere la tua capacità di amare in tante direzioni”. NIENTE TV, MA ABBIAMO INTERNET, A CHI CHIEDE DIAMO DA MANGIARE Beh, tu sei avvantaggiata, se hai fede hai tutto, io no. “Ma la fede è anche per te, Dio per primo, crede in te, spera per te, per la tua vita… è più facile di quello che pensi”. Sarà. Qui dentro niente tv. “No, non l’abbiamo, però abbiamo internet e leggiamo i giornali e ci guardiamo qualche film”. L’ultimo visto? “Habemus Papam di Nanni Moretti, bello. Abbiamo avuto lezioni, per tre giorni con un professore di liturgia che ce l’ha proposto e poi abbiamo dibattuto insieme. Ma c’è anche chi sta rivedendosi Il Signore degli Anelli”. Suor Veronica sorride: “Ieri sera è stato da noi, per una veglia di preghiera, un prete missionario che è in Benin da due anni, ex professore universitario. Ha detto una cosa che mi è piaciuta moltissimo: secondo la Scrittura davanti a Dio mille anni sono come un solo giorno. Dunque Dio ha il senso del tempo diverso dal nostro. Sono passati duemila anni dall’inizio del cristianesimo; per Dio due giorni soli; beh, diamogli e diamoci almeno una settimana di tempo, siamo solo agli inizi, c’è ancora molto da fare, recuperiamo l’energia, la grinta degli inizi, non è tutto perduto. A volte ci vien da pensare: guarda a che punto siamo dopo 2000 anni… No, siamo agli inizi, abbiamo tempo e modo per fare ancora il molto che ci attende… Non è bello?”. Sì, è bello. Ogni giorno al campanello suona gente che ha fame non solo di Dio ma anche di cibo. “E noi diamo da mangiare, sono per la maggior parte giovani, extracomunitari, ma da qualche tempo viene anche gente nostra, delle nostre parti; noi non chiediamo nulla, benediciamo e diamo cibo. Se sono musulmani stiamo attente a non dare carne di maiale o cibi che non possono mangiare”. IL SECONDO GIORNO DEL MONDO Devo tornare in redazione, suor Veronica ai suoi turni di lavoro, quel mucchio di parole mi resta addosso, lo lascio lì, depositato nell’anima aspettando che prenda consistenza, chissà, il tempo, se siamo solo al secondo giorno del mondo, è dalla mia parte. Apro il portone e torno nel mondo, o forse il vero mondo era lì dentro, non lo so e non importa, lascio che il vento di ottobre mi venga addosso e mi soff dentro i dubbi, senza quelli non vado da nessuna parte.