GLI SLUM DI BERGAMO “NOI RACCOGLIAMO I COCCI DELLA SOCIETÀ

0
234

 Oggi è la NORMALITÀ che produce il DISAGIO La Chiesa non poteva non essere là dove l’uomo vive l’estrema sofferenza, l’abbandono. Le persone non hanno bisogno solo di mangiare, hanno bisogno di essere ascoltate”.

Angoli che sembrano ingoiati da spazi di buio senza fondo, pozzi di anime immersi in brandelli di buio, vicoli che si infilano come se la città fosse una cartina geografica senza punti di arrivo. Don Fausto Resmini si muove lì, in quel fazzoletto di terra che va dalla stazione autolinee di Bergamo e si perde nei buchi neri di tutto il resto della città, in quei buchi si infilano i tossici, immigrati, senza tetto, nuovi barboni da crisi economica, per consumare un pasto caldo che Don Fausto allunga a chiunque si avvicina al suo ‘Posto Caldo’, una media di 150 pasti caldi e un rifugio per 35 posti letto dove passare la notte. In mezzo una comunità con 85-90 ragazzi, donne, uomini alloggiati a Sorisole per cercare di accendere sprazzi nei buchi neri, 17 gli educatori che cercano di trovare il filo di Arianna di un labirinto di anime e corpi. Mica è fnita qui. Don Fausto è anche il cappellano del carcere di Bergamo, dal 1992, sono passati 17 anni e davanti a lui centinaia, migliaia di carcerati, un via vai di anime e corpi da nascondere dietro sbarre di ferro. Via Gleno. Bergamo, altro anfratto di vicoli bui che scoppiano di persone, adesso in Via Gleno c’è un nuovo padiglione, ultimato già da quasi due anni, tutto nuovo, piastrelle, bagni, telecamere a circuito chiuso, una trentina di celle, c’è tutto, mancano i detenuti, ancora chiuso, per mancanza di agenti. E nel frattempo il carcere scoppia, 525 detenuti contro i 340 posti disponibili. La strada è l’opposto. Scoppia anche lei. Ma di solitudine. Strade lunghe che sembrano non finire mai. Qui a mancare non sono gli agenti. Qui a mancare è la gente che ascolta, che allunga una mano, che ti abbraccia o ti accoglie. Don Fausto Resmini è in tutti questi posti, a fare da mano, da orecchie che ascoltano, da anima che ospita, da piatto che sfama. Nato a Lurano nel 1952, prete del Patronato San Vincenzo, ordinato sacerdote nel 1978. Perché il Patronato? “Sono uno degli ultimi figli di Don Bepo, sono entrato al Patronato per ragioni di studio nel 1960 e da allora sono sempre rimasto al Patronato. Prima a San Paolo d’Argon, poi sono tornato a Sorisole, poi ancora a San Paolo come educatore e poi ancora a Sorisole. Infanzia e adolescenza passate al Patronato, prima come ragazzo che in quel momento aveva bisogno di essere tutelato e aiutato e poi mi sono assunto le responsabilità come educatore, seminarista, chierico e prete”. Perché dice che è stato aiutato quando era ragazzo? “Perché bisogna tenere conto che in quegli anni nei paesi non c’era la possibilità di frequentare la scuola media e in prospettiva di questo ero andato al Patronato già dalle elementari per avere la possibilità di proseguire gli studi. Lì poi ho conosciuto tanti ragazzi con problemi e difficoltà, con situazioni familiari problematiche e da lì man mano dall’evoluzione dell’adolescenza in poi mi sono posto moti problemi, non ultimo quello che potevo fare io per gli altri. Io non ho mai pensato che il mio rimanere al Patronato fosse legato a un progetto personale

ma sentivo che era legato a un progetto legato all’attenzione degli altri. Eravamo in un gruppo di 15, buona parte diventati sacerdoti, Don Bepo a questo gruppo teneva molto, ci ascoltava, ci convocava”. Quindici seminaristi del Patronato: “Frequentavamo il seminario ma c’era la possibilità di passare i momenti forti della settimana al patronato”. Avvertiva una diversità con i seminaristi del seminario? “Non negli studi, i seminaristi avevano attività legate alla parrocchia, legate agli incontri per le giornate vocazionali per il seminario, a noi invece era concesso di tornare al Patronato per vivere una relazione con i bisognosi, i giovani e i ragazzi, un tirocinio di vita”. Una scelta diversa: “Quando sono diventato sacerdote era il periodo in cui erano sorti problemi ai quali bisognava dare una risposta. Come farsi carico dei ragazzi provenienti dal Beccaria, da situazioni di tipo penale, allora c’erano i riformatori giudiziari ma si stava già profilando un cambiamento nel nostro diritto penale. La nostra struttura di Sorisole era già stata interpellata, avevamo allora ragazzi con problemi ma non così gravi, di fronte a questa domanda abbiamo dato una risposta affermativa e ci siamo preparati ad accoglierli”. Don Fausto fa un passo indietro: “Ripenso a Don Bepo che diceva che l’esigenza educativa si modifica con il cambiamento dei tempi, i ragazzi del Beccaria erano quindi i nuovi poveri, l’alternativa al carcere era la comunità ma se le comunità avessero risposto ‘è troppo impegnativo’, il carcere diventava l’ultima parola. Sono arrivato in strada proprio grazie ai ragazzi, negli anni ‘90 seguendo i ragazzi che scappavano dalla comunità, perché non con tutti finisce bene, non è che una comunità cambia una persona, l’aspetto educativo è un’arte di pazienza, dedizione, anche di intervento duro, non tutti questi ragazzi ce la facevano, così seguendoli ho conosciuto la strada dove si rifugiavano. Li abbiamo cercati e li abbiamo trovati in stazione e lì abbiamo scoperto che nasceva una situazione di gravità assurda. Solitudine, abbandono, esclusione. Erano gli inizi degli anni ’90, non c’era ancora il fenomeno immigratorio di oggi e cominciavamo a muoverci in questo mondo delle stazioni e della strada. Di gente che viveva e dormiva fuori, un malessere della città legato al fatto di non essere di nessuno. Un intervento che si è strutturato col tempo, i camper, la distribuzione dei pasti, dei vestiari, dell’accoglienza notturna, andare nella città a incontrare dove vivevano questi poveri”. L’anno prossimo sono 20 anni che don Fausto è sulla strada e in stazione: “Vent’anni caratterizzati dalla presenza non solo del patronato ma dell’intera chiesa di Bergamo in un luogo dove nessun’altra realtà c’era, né lo stato, né l’attività pubblica, né nessun altro”. Ma non è che siete solo voi e non la Chiesa? “No, è limitante dirlo. Noi siamo andati lì con un preciso intento, la Chiesa non poteva non essere là dove l’uomo vive l’estrema sofferenza, l’abbandono, il vescovo Roberto ha sempre fatto suo questo pensiero, non ha mai mancato di incoraggiarmi, di sostenermi, di difendermi a livello politico, è vero che c’era un sacerdote ma non a titolo personale. Sarebbe limitante dire che sono lì a titolo personale, siamo lì con impegno e servizio sapendo che la chiesa ha un ruolo importante, altrimenti saremmo assunti dal Comune”. Strada, stazione, giovani. Un quadro della situazione: “Sulla strada arriviamo a provvedere a una mensa con 150 pasti, dalle 22 alle 24 possono usufruire della mensa, un pasto caldo, consumarlo seduti dentro questo luogo di accoglienza. Noi non chiediamo i documenti e questa è un’altra di quelle sensibilità di cui la chiesa si fa partecipe, se fossimo lì a titolo pubblico lo chiederemmo, ma essere presenti a nome del vangelo non fa richiedere nulla, in quel momento qualcuno ha bussato e io gli apro e quello che ho glielo metto a disposizione ma proprio per non rischiare che arrivi qualcuno a controllarli molti prendono il sacchetto e se ne vanno nei luoghi più bui della nostra città, luoghi che non hanno niente di meno degli slum che si vedono in India, dove vediamo queste grandi periferie abbandonate a se stesse, luoghi fatiscenti che diventano rifugio della notte. Ma poi c’è il servizio collaterale di ascolto, le persone non hanno bisogno solo di mangiare, hanno bisogno di essere ascoltate ed è la cosa più diffcile, non si deve andare prevenuti, con l’idea di avere in tasca la soluzione di grossi problemi che non risolveremo. Per incontrare i poveri bisogna abbassarsi, mettersi a disposizione”. Ma la gente che arriva in stazione è figlia di chi? “Quando abbiamo iniziato erano italiani, adesso i tempi sono cambiati, il 55-60% sono stranieri, molti in Italia da anni, qualcuno lavorava e causa crisi è rimasto senza lavoro, poi senza casa e alla fine si è trovato lì, di tornare al proprio paese da sconfitti neanche a parlarne, non se la sentono. E poi ci sono i ragazzi di colore che sono la nuova immigrazione, sono venuti a lavorare in nero, avevano trovato alloggio presso i datori di lavoro magari in un garage, poi è arrivata la legge che dice che chi ospita i clandestini è perseguibile penalmente e poi è arrivata anche la crisi economica che ha fatto il resto. Non erano portatori di disagio, la legislazione li ha obbligati all’esclusione e hanno bisogno di tutto, dal pasto al vestito, alla doccia, all’accoglienza notturna. Le persone non possono e non devono essere abbandonate, mai”. Centocinquanta pasti e il centro di ascolto, chi vi cerca dove vi trova? “Al mattino c’è il camper in fondo alla stazione delle autolinee, ben visibile, vicino alle panchine che sono diventate la casa di tanti emarginati, il camper fa un po’ di tutto, da un lavoro di ascolto al farsi carico delle situazioni di salute, dall’accompagnamento al Sert, a portarli all’ospedale, alla Caritas, ai colloqui con le comunità. Da soli non andrebbero mai. Sulla strada poi abbiamo 3 educatori che fanno servizio mattino e pomeriggio, la notte ci sono 60 volontari sulla strada, ogni volontario fa una notte e noi sacerdoti siamo in due, con me il vescovo ha mandato Don Marco Perucchini. Il turno di notte finisce all’1,30. Siamo in stazione fino a mezzanotte, poi ci vuole tempo per portare le persone che vengono a dormire in Comunità a Sorisole, sistemarle, insomma, all’1,30 si chiude perché alle 7 del mattino si torna in strada”. Sorisole, una comunità-paese: “C’è un dormitorio, un reparto di degenza per i malati e un container per fare dormire altra gente”. Spazio anche e soprattutto per i minorenni: “Un ragazzo che compie un reato a diciassette anni e mezzo, diventa maggiorenne durante il suo iter penale, intanto che sconta la pena detentiva, sa che per rientrare in società ha bisogno di un lavoro, di una casa, c’è tutto un cammino che è la scommessa futura. Abbiamo 15 ragazzi provenienti dal carcere minorile, 25 con situazioni di grave marginalità, poi ci sono gli stranieri portati dalla Questura, la gente che arriva dalla stazione, in tutto 85-90 persone. Gli educatori sono 17, laici e regolarmente assunti. Insomma una comunità che diventa un piccolo paese attorno a chi deve provare a ritrovare un pezzo di vita”. Sta succedendo qualcosa ai ragazzi o è normale che il disagio nei minorenni sia in costante aumento? “Se una volta i problemi, il disagio e la devianza caratterizzavano coloro che avevano situazioni gravi a livello famigliare e sociale, oggi il disagio è legato alla normalità. Un mondo quello degli adolescenti che non solo è in fermento ma è in cambiamento, se pensiamo a cosa porta l’uso delle sostanze stupefacenti, ai luoghi dove si spaccia, dove vivono le loro trasgressioni, ci sono reati che non esistevano anni fa, penso alla violenza negli stadi, ai reati a sfondo sessuale, alla violenza di bande, non vuol dire che tutti sono così. C’è un cambiamento con un mondo che ha fatto un salto di qualità, che non è più legato solo al disagio sociale ma alla normalità”. Famiglie cosiddette normali che occupano un grado sociale secondo loro importante con figli coinvolti in una situazione di devianza. Come fa un genitore ad accorgersene? “Prevenzione. Il problema è che i genitori dovrebbero essere molto più attenti al mondo dei fgli, non sottovalutarlo, i genitori dedicano poco tempo ai loro figli, non dobbiamo aspettare le scuole superiori, si deve cominciare dalla 5ª elementare. Pensiamo a cosa noi diamo ai nostri figli in termini di beni economici ma a quanto poco instauriamo delle relazioni affettive, c’è una povertà affettiva che fa paura. Ci sono genitori che lavorano giorno e notte ma non hanno una relazione con i figli”. Un mondo che cambia: “La scuola, la chiesa stessa, gli oratori percepiscono un cambiamento radicale rispetto a vent’anni fa, già dalla scuola elementare adesso c’è un’inquietudine fortissima, è un trapasso non solo culturale ma esistenziale, alla base c’è la trasformazione della famiglia”. E arriva il gruppo: “E nel gruppo fai tutto, così capita che il sabato sera solo per fare qualcosa di diverso o forse solo per un momento di esaltazione per il gruppo, vanno in qualche posto, bevono, fumano qualche canna e cominciano a prendere di mira qualcuno, picchiano, rapinano ma per fare una serata diversa, non c’è motivazione. Poi li prendi da soli e non li riconosci più, nel contesto del gruppo fanno cose impensabili ma il gruppo non deve essere il luogo dove si cresce”. Differenza tra i ragazzi di città e quelli di provincia? “Nessuna, dai 16 anni in poi si assomigliano tutti”. Per lei niente parrocchia: “Nelle parrocchie il lavoro dei sacerdoti è nell’ottica della prevenzione, il mio servizio è invece quello di raccogliere i cocci. Sono due cose diverse. Fare prevenzione è importantissimo, se non ci fossero gli oratori non so come faremmo, impedire di arrivare al limite è importantissimo, anche se nella società il mio servizio è visto come più attuale, l’oratorio avvicinando i giovani e i bambini compie un’opera preziosissima”. Non le è mai capitato che quando vengono da lei la sera, qualcuno al posto di un posto caldo cercasse Dio? “Il problema è che non si cerca mai Dio in astratto, lo si cerca passando attraverso dei gesti, delle accoglienze, dei silenzi, degli sguardi, delle attenzioni, non si cerca mai un Dio astratto, Dio è sempre concreto, mi creda, mi creda davvero”. Lei è cappellano del carcere dal ’92: “Sono entrato come volontario nell’88, adesso il carcere aprirà una nuova struttura, preti e cappellani hanno un ruolo importante perché il cappellano è cercato quotidianamente dai detenuti, non solo cristiani, ma anche musulmani, in carcere avere altre fedi non è discriminante, il cappellano deve rendere presente l’azione di Dio e della chiesa, c’è un’azione della chiesa quotidiana, anche per chi non è nella nostra fede. Ciò che colpisce quotidianamente lo straniero è il gesto di carità, di amore, il fermarsi e l’ascoltare. Non sempre nel paese da dove venivano avevano questa cura, anche se devo dire che dal paese da dove venivano non dormivano per strada, c’era poco ma c’era per tutti, c’era molta più dignità”. La Chiesa vicina a Don Fausto e Don Fausto ci tiene a dirlo e racconta un episodio particolare: “Il vescovo Francesco Beschi appena nominato mi ha detto subito ‘voglio rendermi conto e toccare con mano la strada’, è rimasto una notte per strada, è salito sul camper, ha fatto il giro di tutti quei luoghi, di prostituzione, di disagio e di rifiuto della città, e questo gesto è stato come porre un punto, come dire ‘noi vogliamo continuare ad esserci’. Io capisco che sfugga a molti, perché tante volte il servizio si giudica come si giudica la politica, il ruolo della Chiesa magari si vede poco dal fuori ma è molto forte e io la Chiesa l’ho sentita sempre molto vicina”. A forza di maneggiare cocci non si è mai tagliato? “Sì ma non siamo lì a titolo personale, siamo lì a titolo del vangelo, quando succede mi dico ‘domani riparto’”. Per Don Fausto non è il cibo quello che la gente cerca da lui. “No, nella città potrebbero recuperare sempre qualcosa, ogni mattina bussano ai monasteri di clausura, potrebbero benissimo recuperare qualcosa, il problema è la relazione, attraverso la nostra presenza sentono di appartenere a qualcuno. Senza relazione l’uomo muore tutti i giorni. D’accordo cercare il pasto ma quello di cui davvero sentono bisogno è qualcuno con cui parlare”. C’è qualcuno di loro che ha scelto di fare questa vita? “Nel passato sì, oggi no, si sono trovati dentro e può capitare a tutti”. Una storia a lieto fine: “Renato che adesso lavora, era un alcolizzato sulla strada, agli ultimi sgoccioli, con il nostro aiuto e la sua volontà si è tirato fuori, è venuto a Sorisole, si è recuperato, ha il suo appartamento, lavora per il Comune, ma ogni domenica, ogni minuto libero lo passa qui da noi come educatore anziano. Per il resto il nostro lavoro non è legato al recupero immediato, i risultati non li vediamo noi ma le comunità di accoglienza dove inviamo i ragazzi”. Non sogna mai un calice intatto, una parrocchia? “Io non è che sogno la parrocchia, sento che la mia parrocchia è la strada e il carcere, non mi sento diverso dagli altri, anzi, mi sento e sono pienamente inserito. Nella Chiesa ognuno ha la sua ministerialità e ci sosteniamo a vicenda, gli altri parroci non mancano di aiutarmi e sostenermi”. Don Bepo sarebbe contento? “E’ contento. Quello che secondo i suoi tempi ha realizzato cercando di andare incontro ai bisogni dei poveri e degli emarginati, oggi continua”. Don Fausto deve tornare fra i suoi ragazzi, comincia a far buio e la stazione chiama: “Prima però fatemelo dire, se c’è qualcuno che vuole mettersi in cammino noi siamo qui. Li aspettiamo. Lo scriva”. Lo scriviamo.