benedetta gente

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    Memorie d’altri tempi, altri luoghi, altre persone. Memorie di cose e persone perse, memorie che si perdono, memorie che ritornano impetuose, nostalgiche, consolanti, dolorose, gente che se n’è andata fin troppo presto e allora a noi già sembravano vecchi, e adesso che li abbiamo sorpassati nel conteggio ci pare impossibile siano morti “così giovani”. Gente che abbiamo odiato e amato,“odi et amo quare id faciam fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio ed excrucior”(Catullo), gente da cui siamo stati odiati e per fortuna riamati.

    Oasi nel deserto di vite perdute solo per noi, consumate in fretta, intense per sentimenti, ideali, valori forti che un tempo valevano la vita intera, valevano addirittura la morte. La morte? La frase più forte, addirittura cattiva, che Gesù ha pronunciato è la risposta a un aspirante discepolo che sì, accetta di seguirlo, ma chiede soltanto di lasciarlo tornare a casa a seppellire suo padre che è morto. E Gesù: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”. A cercare di “giustificare” questa risposta ci hanno provato in molti, teologi e parroci, ma resta lì, nuda e cruda, inutile cercare di edulcorarla, Gesù sapeva essere netto nei giudizi e perfino negli insulti, “razza di vipere… sepolcri imbiancati” e nei gesti (quando scaccia i mercanti dal tempio). Giudica “morti” i vivi che sono ciechi, che non vedono (e nemmeno vogliono farlo) aldilà del muro di casa loro.

    I “nostri” morti sono il nostro passato. A volte pensiamo abbiano vissuto inutilmente, non si siano goduti la vita, l’abbiano sacrificata… per cosa poi? Non ci viene in mente l’abbiano sacrificata per noi? La nostra è una generazione che sa coniugare solo l’indicativo presente (sui congiuntivi siamo deboli), nemmeno si avventura nel futuro semplice, rinnega già il passato prossimo. Questa è una generazione che vorrebbe cancellare, negare la morte, come i “negazionisti” degli orrori della storia. Sono sparite, con le “credenze” (da cucina e di fede), anche le “memorie”, quelle immaginette con i nostri morti che ci guardavano sfaccendare per casa, no, adesso “rovinano” l’insieme del salotto buono. Lo spazio per il ricordo si è ridotto, è quasi azzerato, la nostra “memoria” è piena di appuntamenti, scadenze, di “bisogna che mi ricordi”, via di fretta e molta furia, corriamo, ci sbattiamo, ci arrabbiamo e ci sentiamo sempre più soli sul cuore della terra, nemmeno trafitti da quel raggio di sole della poesia. Nel bisogno fino a qualche decennio fa si ricorreva all’invocazione “póer mórcc ardé zóe ricambiavamo con i requiem per sollevare loro le pene del purgatorio, caso mai non fossero andati dritti in paradiso e ci avessero nascosto peccati veniali commessi chissà quando e chissà dove.

    Adesso abbiamo la presunzione che i nostri morti non sarebbero comunque in grado di capire, figurarsi di risolvere i problemi, tutti inediti, di questa civiltà impietosa con chi rallenta, con chi non sa usare la tecnologia. Per una sorta di legge compensativa abbiamo “gonfiato” le tombe per una sorta di immagine di ritorno, la nostra, come quando sfoggiamo l’auto di lusso per far sapere a chi ci guarda che siamo più di quel che siamo.

    Nei cimiteri, archivi di memoria, spazzati dal vento, andiamo a ripassare la storia piccola di paesi squassati dalle miserie umane. Provate a fermarvi davanti alla tomba che vi è cara, non occupatevi dei fiori e della “bella figura” da fare con i compaesani, come se dai fiori si misurasse l’amore e il rimpianto. E guardiamo al simbolo che abbiamo messo sulla lapide o lì accanto, perlopiù una croce. Che evoca la memoria di una condanna a morte infamante, oggi lo si direbbe un perdente, un fallito. Eppure le croci le troviamo ancora dappertutto, sul petto di prelati e perfino tra i seni prosperosi di signorine abbastanza disponibili, i segni di croce accennati, arruffati, dei calciatori quando entrano in campo che richiamano senza volerlo il “Dio è con noi” di altre vere battaglie che sembrava arrivato il tempo della tolleranza, ognuno crede in ciò che può, “uomo bianco va col tuo Dio”. No che ti vogliono imporre il loro Dio, costruito a loro immagine e somiglianza (e non viceversa come sta scritto). Le croci oggi sembrano bandiere senza vento.

    Un tempo le nostre mamme dicevano che ognuno aveva la sua croce da portare. E la nostra spesso se la caricavano in spalla loro, per lasciarci leggeri, sacrificando la loro vita per la nostra.

    Chiediamoci se sarebbero contenti di quello che siamo diventati. Possiamo chiederglielo sul far della sera dove troviamo ancora, se ci fermiamo, un’oasi dove si può ancora piangere. E rimpiangere.