Riportiamo il capitolo dedicato a “La gallina e il gallo” del volume “Piante e animali del mondo contadino bergamasco” di Giampiero Valoti.
* * *
A mangiare la gallina bisogna essere in due: tu e la gallina! Dicevano così i vecchi con ironia per sottolineare che la gallina bollita, piatto tradizionale della cucina bergamasca, era eccellente e gustosa ma di scarsa giovata sulla tavola povera della famiglia contadina, tanto che un uomo dal robusto appetito, mantenuto sempre vivo dalla fatica quotidiana, avrebbe potuto comodamente consumarla tutta intera da solo. La gallina lessata compariva sulle tavole delle famiglie rurali quando la regiura, la padrona di casa, riteneva che la bestia avesse raggiunto una considerevole anzianità nella sua carriera di onorata produttrice di uova e dovesse essere sacrificata: quella era la maniera migliore per cucinarla e per renderla tenera e appetitosa. Quel piatto ricco e speciale poteva essere approntato anche nella ricorrenza del Santo patrono o in occasione di una festa di famiglia, un battesimo o un matrimonio.
Si preferiva comunque scegliere il periodo di pausa nella produzione delle uova, in genere la tarda estate o l’autunno quando la gallina la sa repula-a cambiava la penna e interrompeva per qualche mese la produzione. Per accertarsi della cosa la massaia esperta non esitava a procedere ad una rapida e decisa ispezione rettale dell’animale. Se il risultato era negativo e la condizione della gallina era tale che per alcuni mesi essa si sarebbe nutrita del becchime comune senza offrire in cambio nessuna prestazione utile, la sua sorte era segnata.
Tenendola per le zampe la massaia le assestava un colpo netto con la costa del palmo della mano tra capo e collo quindi, apertole il becco, le tagliava le vene del collo per far defluire convenientemente il sangue. In pochi secondi la bestia moriva dissanguata. La si spennava poi immediatamente e le sue piume più morbide levate dal petto, in particolare dalla parte di questo situata sotto le ali, finivano nei guanciali dei letti di casa. In questo caso la spennatura era effettuata a freddo, ma in caso di necessità si poteva procedere più rapidamente, immergendo per breve tempo l’animale in acqua bollente: ciò facilitava l’operazione che poteva essere compiuta in pochi minuti, ma rendeva inutilizzabile il piumaggio.
Dopo un breve passaggio sulla fiamma viva onde eliminare ogni minima traccia di piumaggio si procedeva all’apertura dell’animale ed alla pulizia interna. Le interiora erano tutte accuratamente nettate e consumate: il fegato, il cuore e lo stomaco (préda) si cucinavano in guazzetto o nelle minestre, le budella, aperte con le forbici e lavate a lungo con acqua e aceto subivano la stessa sorte dopo essere state tagliate a piccoli segmenti.
In generale la gallina lessata era preventivamente farcita: ciò avveniva dopo un paio di giorni di frollatura, e l’operazione era realizzata con un ripieno i cui componenti erano pangrattato, formaggio (parcamente), spezie, cotechino, prezzemolo e aglio. Il classico ripieno che serve anche alla preparazione di un altro piatto caratteristico dei giorni di festa e delle solennità famigliari, i casoncelli alla bergamasca. Era quindi bollita a lungo in abbondante acqua nella quale si aggiungevano una manciata di sale e le abituali verdure e il mazzetto di odori che accompagnavano il bollito. Il brodo di gallina era considerato eccellente, nutriente e delicato, adatto ai malati, agli anziani, alle puerpere. Una preparazione semplice, di poca spesa, un piatto prelibato gradito ed apprezzato da tutti.
Del resto Guy de Maupassant in un racconto in cui descrive la vicenda del buon Toine costretto dalla terribile moglie a covare le uova nel suo letto di malato, giudicava la gallina un cibo eccellente anche per i rappresentanti della haute société.
Effettivamente la famiglia mezzadrile bergamasca che poteva allevare un numero limitato di volatili nel pollaio di casa poteva permetterselo raramente e un proverbio diffuso nel Veneto esprime chiaramente questa contraddizione. Recita così: «La gallina è del povero, ed il ricco se la mangia».
L’Abate mangione di S. Paolo D’Argon
È significativo anche questo episodio che indica come la gallina bollita fosse cibo prelibato e ricercato, così come il pane bianco di frumento, già nel medioevo: nel 1279 il priore di Pontida rende visita al monastero benedettino cluniacense di San Paolo d’Argon e scopre che i pochi monaci che vi si trovano non si dedicano a nessuna opera di misericordia, non celebrano uffici divini, non esplicano alcuna pratica di pietà e di religione.
Il priore stende una relazione assai critica sulla vita nel monastero e scrive tra l’altro che l’abate di San Paolo «abitava nel suo appartamento e colà celebrava il divino ufficio, se lo cellebrava; mangiava con pane bianchissimo di frumento e cibarie squisite e svariate, e quattro volte la settimana due o tre galline in brodo».
Il pollaio, insieme all’orto, era la piccola risorsa integrativa delle famiglie contadine mezzadrili o piccole proprietarie della montagna, della collina e della pianura bergamasca. I vecchi patti di colonia prevedevano sotto diverse forme l’obbligo della regalia al proprietario di polli o di capponi in determinati periodi dell’anno e interdivano al colono di allevare più di un certo numero di capi di pollame: si temeva infatti che egli sottraesse tempo ai suoi doveri contrattuali di coltivatore del fondo quale «buon padre di famiglia» per dedicarlo all’allevamento; gli si raccomandava inoltre di aver la massima cura affinché il pollame allevato non danneggiasse in alcun modo i coltivi. Nel dialetto bergamasco il termine capunéra è rimasto a indicare una gabbia di legno e rete metallica nella quale si allevavano i galli che, ancora giovani, erano sottoposti alla castrazione dalla massaia esperta affinchè crescessero più rapidamente e avessero carni più tenere e abbondanti.
La capunéra per estensione è oggi anche la gabbia per i conigli. Non appena avevano raggiunto un peso che li rendesse commerciabili i pollastri o i capponi venivano venduti alle famiglie benestanti del paese e la regiura ne ricavava di che pagare il bottegaio per l’olio, il sale, la pasta o il riso, il pane… Nelle valli era conosciuta la figura del polaröl o della polaröla un venditore e compratore ambulante che passava di contrada in contrada, di cascina in cascina a raccogliere polli, uova che poi rivendeva alle famiglie borghesi dei paesi o della città e che in cambio vendeva o barattava con i contadini delle vallate filo, aghi, tela, fettuccia, bottoni, il ditale, il filo di refe bombàs per fare la soletta dei calzini. Viaggiava su e giù per sentieri e strade di campagna con un capiente gerlo in spalla e una cesta appesa al braccio. Dal gerlo facevano capolino le pollastre e i galletti ai quali erano state legate le zampe per impedir loro di fuggire.
Il pollaio
La cura del pollaio in genere era riservata alla massaia che provvedeva all’alimentazione quotidiana dei volatili, alla raccolta delle uova, alla pulizia, al controllo delle covate, alle prime cure delle nuova nidiata.
Del resto il vecchio Catone enumerava tra i doveri della massaia, questo: «che tenga molte galline e abbia abbondanza di uova». La pulizia settimanale dava un altro prodotto non trascurabile: concime per l’orto o per il campo. Lo sterco di gallina è considerato molto caldo ed efficace, ma deve essere usato con precauzione perché può “bruciare” le verdure, le piante o i fiori a cui è somministrato.
Il pollaio era composto in genere da un locale coperto a volte assai angusto, posto presso il fienile o la stalla, ad una parete del quale era appoggiato il ballatoio o posatoio, una specie di larga scala sui cui pioli le galline si posavano la notte, attratte dal loro naturale istinto di volatili di sistemarsi in alto per dormire.
Appese alle pareti erano pure alcune cassette o ceste sul cui fondo veniva posto del fieno o della paglia: costituivano i nidi per la deposizione delle uova. Sul pavimento l’abbeveratoio e la mangiatoia costituita in genere da una cassettina con traversine che impedivano alle galline di entrarvi e sporcare il becchime. Questo locale coperto era immediatamente contiguo ad un’area a cielo aperto, recintata, sterrata, nella quale le galline razzolavano di giorno alla ricerca di lombrichi e insetti vari oltre che di sassolini e sabbia indispensabili per la formazione del guscio delle uova. Molti contadini di giorno le lasciavano razzolare anche sull’aia, avendo però l’orto ben chiuso da una siepe.
La poiana, la volpe, la faina
A volte nel cielo sopra il pollaio dove razzolava la chioccia coi nuovi nati la poiana disegnava i cerchi concentrici del suo volo minaccioso: allora i bambini, chiamati dalla nonna che sferruzzava sull’uscio di casa ed era attenta a tutto, gridavano a gran voce col naso all’insù gesticolando e saltando per scacciarla.
Di notte erano la volpe e la faina i nemici da temere. Era considerato utile rimuovere con la vanga di tanto in tanto un piccolo settore del terreno del pollaio; qualcuno vi spargeva anche cenere: le galline avevano così a disposizione sabbia e terra in cui voltolarsi per eliminare dall’epidermide e dal piumaggio i pidocchi pollini che le tormentano soprattutto d’estate.
Questi «da agosto a ottobre si trovano a milioni nascosti nelle fessure dei muri, nelle screpolature del legno, nei fori dei tarli. Escono di notte e dissanguano gli animali. […] Sono dannosissimi alle covatrici che sono obbligate a lasciare il nido, talvolta le costringono a morire; fanno scemare ed anche cessare la produzione delle uova, impediscono lo sviluppo dei giovani che rendono magri e linfatici». ..
SUL NUMERO IN EDICOLA DA VENERDI’ 20 NOVEMBRE