Sono convinto del mio operato, come tanti colleghi che si son trovati a lottare in campi nuovi assumendo forme professionali inaspettate, inaudibili sino a un mese fa. Stiamo facendo il meglio possibile, stiamo cercando le soluzioni migliori, anche se a volte drammatiche, e la gratitudine della popolazione ci aiuta, ci fortifica, ci rende anche fieri di ciò che facciamo. In qualche modo ci solleva, alleggerisce il peso della responsabilità. Ma non basta, tutte queste scelte, queste esperienze, queste emozioni le stiamo accantonando in qualche parte del cervello. Non c’è tempo per elaborarle o metabolizzarle. Comprimi e archivia, comprimi e archivia. È quando arriva il sonno che ci si rende conto: si perde il controllo e i cardini delle porte della memoria si allentano, si inizia a rimuginare senza sosta, ruminare senza fine immagini, parole, atti, respiri… Avrò fatto bene? Avrò valutato correttamente? Avrò agito sensatamente? Avrò sbagliato? Avrò fatto del male? Una belva si sta nutrendo nella mente. Certezze o meno, gratitudine o meno, verrà il giorno in cui quelle porte si spalancheranno e ogni infermiere dovrà fare i conti con la propria coscienza. . . . Un’altra. Un’altra ancora. «Ho chiamato la centrale, ho detto di non mandarci più ambulanze…» «Ehm… dottoressa, ne sono appena arrivate due.» Esco a vedere prima che scarichino il loro bottino umano «Hei, amici di Ceriale! Belàn ‘sti liguri!» Chi l’avrebbe mai detto che dei marinai avrebbero risalito le valli sino ad una delle più serrate enclavi bergamasche. A dare una mano. Ai bergamaschi: quelli coniati in crogiuoli di solidale alpinitudine, quelli che si fregiano di aver costruito il mondo e averlo riparato già più volte, quelli che masticano un dialetto arcigno con cadenza neolitica, “madre di tutte le lingue” diceva Dario Fo. «Ci avete portato un’appendicite?» Ditemi che ci avete portato un’appendicite. Acuta, flemmonosa, gangrenosa, putrefatta, esplosa… Va bene tutto. Niente, anche questo è COVID, solo e sempre COVID. Persone che annaspano, artigliano aria coi denti, mantici mai sazi. Fino a un mese fa eravamo invasi da coprostasi e ci lamentavamo. Ora dove sono finiti tutti gli stitici dell’universo-mondo? Cristo Santo… DATEMI UNA LUSSAZIONE DI SPALLA! Qualcosa che si tratti veloce con una manovra strabiliante e il paziente se ne va contento. No, COVID e solo COVID, che il paziente spesso se ne va… ma col suo ultimo flebile respiro. * * * Raccolgo due dati e faccio scaricare: «Vediamo di trovare un giaciglio anche al signore. Pòta ma come va giù da voi in Liguria? V’è andata bene che hanno blindato la Lombardia, se fossero arrivati giù tutti i nonni bergamaschi infetti a svernare….» «Belàn, comunque 4000 ce li abbiamo giù bloccati…» Bell’accento anche il loro. Ma non li sto più ascoltando, la mia mente sta incrociando i dati del paziente, valutando le percentuali di chance e in base a quelle in quale girone del Pronto Soccorso trovargli posto. Non si dice, ma è un triage di guerra; valuti le possibilità della vittima e le incroci con le risorse disponibili sul campo. Quello che ne esce è spesso una sentenza. Di speranza o di morte. Le risorse sono risicate, quello che c’è deve bastare. Medici, infermieri e operatori sanitari: corriamo come dannati, in soccorso a ogni caduto sul campo di battaglia, e in fretta dobbiamo decidere se vale la pena provarci o saltare al successivo. E’ la logica del salvare il maggior numero di persone sacrificando quelle senza possibilità. L’alternativa è perderle tutte. E ogni tanto, in questa battaglia, anche qualcuno di noi salta su una mina e non è facile rimpiazzare. Ventilatori, ventilatori, ventilatori. Posti letto, posti letto, posti letto. Tutti ne richiedono a gran voce ma non sono quelle le carenze, le esigenze. Posti letti per morire ne possiamo approntare migliaia in un giorno, posti letto per guarire han bisogno di tanto personale sanitario preparato, tanta dedizione e tanta pazienza. E’ questa la spietata forza del COVID. * * * Dentro è follia: carrelli ovunque mischiati a box dei rifiuti e sacchi della biancheria, letti qua e là in spazi ristretti e appoggi di fortuna. Pappagalli appoggiati accanto al vasetto dello yogurt aperto e a fazzoletti imbrattati, cellulari che suonano senza che nessuno riesca a rispondere, chi non ha indumenti per cambiarsi quelli sporchi, chi si è portato addirittura due valigie che te le ritrovi sempre in mezzo ai “maroni”. Per un maniaco dell’ordine come me già questo sarebbe troppo. «Dai Giovanni, cosa fai li in fondo al letto? Dov’è la mascherina dell’ossigeno? Ma ce l’hai in mezzo alle gambe! Pòta ma se l’ossigeno lo usi per rinfrescarti i gioielli di famiglia…». Il paziente a fianco è più giovane ma ha lo sguardo vacuo, sta masticando gli occhialini dell’ossigeno. Entrambi hanno aperto il pannolone e espongono la personalissima mercanzia. Sembra un vezzo maschile, forse atavico: quando l’ora ultima sta per approssimarsi alcuni rivolgono le loro attenzioni alla propria virilità. Nella camera delle ambulanze, ora diventata stanza di degenza, un paziente in piedi, al guinzaglio del suo ossigeno, gesticola richiamando la mia attenzione, prova a dire qualcosa ma è tracheotomizzato. Capisco ugualmente. «Ivan puoi andare a vedere il nonno al 6? Credo stia tentando ancora di scavalcare le spondine… Bisognerà sedarlo un po’ altrimenti si sfracellerà…» «Rudy, la nonna con l’Alzheimer nel pediatrico non vuole aprire la bocca per prendere le pastiglie…» «Eh… quella ha la corteccia cerebrale infarcita di calcestruzzo, non ce la farà mai.» «Ragazzi chi mi da una mano qui in OBI 2 che si è rovesciato il pappagallo addosso?» «Infermiera devo andare in bagno…» «Ma di nuovo?» «Ari dove sei?» «Qua!» * * * «Acqua!» è un sussurro da cogliere in mezzo a un vortice di aria sparata a pressione. «Acqua…» ora è una frustata in mezzo alla schiena. L’angoscia la devi nascondere quando a richiamare l’attenzione è il paziente giovane che annaspa dentro il casco della CPAP, quello su cui si è deciso di investire. E’ irrequieto, scivolato in fondo al letto, come tutti d’altronde. Gli occhi strabuzzano e sgranano mentre il torace e l’addome lo sfiancano per tirare aria, per dare ossigeno al sangue che il suo cuore deve pompare in ogni parte del corpo. Al cervello soprattutto. Ripenso a quando da bambino guardavo i cartoni animati “Siamo fatti così”, com’era tutto rassicurante; arrivavano sempre quelli vestiti da poliziotto, i Linfociti che chiamavano stormi di simpatici Anticorpi e poi quegli scagnozzi dei Macrofagi, ci pensavano loro a sistemare quei subdoli vermicelli col naso a forma di cetriolo e melanzana… Niente di tutto questo: sono davanti all’immagine della sofferenza respiratoria di un giovane. Sono davanti a una Passione di Cristo. Mi fissa e con pollice e mignolo mi fa segno “bere”. Apro la zip del casco, per un attimo annusa aria di libertà ma dura poco, senza pressione positiva lo sforzo per riempire i polmoni si fa subito sentire. Porgo sulle labbra screpolate la bottiglietta d’acqua e beve con avidità. Continua a guardarmi, probabilmente sta cercando di “leggermi” dietro il riparo delle pesanti mascherine, degli occhiali e del copricapo. Spero non ci riesca. Mi affretto a richiudere il casco, lo risistemo nel letto e lo rassicuro sul buon andamento dei parametri al monitor. Mi ringrazia. Ringraziano tutti, tutti dicono “OK”. Ok un cazzo. Il peggio deve ancora venire. Si convive con la morte ogni giorno e, di quelli che se ne vanno, alcuni più fortunati ricevono la grazia in un lampo: li troviamo nel letto che han fatto le valige e se ne sono andati senza manco salutare. Bye bye. Altri vengono accompagnati, sedati farmacologicamente fin da subito, giungono già perdenti all’ultimo giro con nessuna briscola in mano. Abbiamo la speranza che se ne vadano senza soffrire, col recente ricordo dei cari lasciati a casa, sereni, senza accorgersi che nessuno di loro sia lì accanto. Altri muoiono allo stesso modo ma dopo che hanno lottato giorni o, forse, dopo che il virus ha giocato con loro come il gatto col topo. Li accompagniamo, se possiamo gli stiamo accanto sino all’ultimo respiro. Poi il rito della liberazione dai nostri “strumenti di tortura”. Ieri l’ho fatto canticchiando “Signore delle Cime”. Non sapevo se l’uomo fosse un alpino ma aveva solo settant’anni. Mi piace pensare che abbia gradito. Quando il Corona Virus ti si aggrappa ai polmoni bisogna avere determinate carte in mano e saperle giocare bene: la carta dell’età, quella del sesso femminile, quella della salute, quella del non fumatore, quella del peso corporeo, quella della lucidità e della caparbietà. E “last but not least” la carta della fortuna, una bella “Gold Lucky Card”. Per fortuna la maggior parte di quelli che giocano a carte con questa maledetta polmonite “a vetro smerigliato” riesce a vincere. Sono quelli che riescono a cavarsela a casa da soli e i soggetti migliori che arrivano in Pronto Soccorso a cui diamo la priorità di ricovero ai piani superiori o in altri ospedali dove si liberano posti. Il Pronto Soccorso è un contesto stremante per noi che ci lavoriamo ma non è facile nemmeno per loro lottare in un campo così alienante. Vedere i vicini di letto portati via col volto coperto non dà morale alla truppa. * * * «Ivan, vieni un attimo, ho bisogno di una mano». Lo accompagno in una zona più o meno «pulita», sempre che un ospedale al 100% COVID possa avercela una zona «pulita». Abbasso la mascherina, tolgo i guanti e mi sparo di disinfettante. Recupero dal frigo una lattina di birra dozzinale portata da casa, un genere di conforto: sputaci sopra. Ce la dividiamo in tre, a turno ci prendiamo qualche minuto, un sorso che rinfresca la gola arsa e un pezzo di pizza della Forneria Minuscoli che da settimane sta inondando l’ospedale di focacce e brioches, una realtà locale che sta facendo qualcosa di grandissimo e di concreto nell’assoluto silenzio. La pizza fredda vien voglia di condirla con lacrime di commozione. Quando finirà tutto qualcuno dovrà rendere onore anche a tutte le persone che hanno adottato e curato a loro modo questo ospedale. * * * Torniamo in campo che c’è già un’altra ambulanza pronta a scaricare. Prelievo arterioso, prelievo venoso, tamponi, TAC e via; ossigeno e troviamo un posto anche a questo povero diavolo. Inferno, Purgatorio o Paradiso? Vivo, morto o X? «Marti, scendiamo in camera mortuaria a portare questo povero diavolo, mi sa che avremo un po’ di barelle da recuperare.» La camera mortuaria è un altro girone: salme e bare ovunque. Dicono che persino le bare comincino a scarseggiare, ma almeno questo non è problema nostro. Io qui invece son diventato proprio bravo: riesco a trovare al primo colpo la chiave giusta nel grande mazzo, riesco a spostare un corpo dalla barella al lettino da solo, senza fare troppa fatica… Soddisfazioni. Mettiamo in ordine i cadaveri, i loro effetti personali, recuperiamo un po’ di barelle. Le barelle servono ai vivi. Dai che il turno sta per finire… * * * «Rudy, devi uscire!» No, anche il 118. Per fortuna un paese vicino. Caso COVID naturalmente. Entro in casa accompagnato dalla figlia. Il padre è nel letto, annaspa attaccato a un bombolone d’ossigeno, è in una posizione poco consona, a occhio avrà 100-130 anni. No, ne ha solo 75. Ho già capito. Lo chiamo, apre gli occhi ma è soporoso. Annaspa. Mi faccio raccontare le sue malattie precedenti, come si è arrivati a questa situazione. I “se”, i “ma”, i “però”… Che senso ha. Ho capito. Tutto. Annaspa. Mi sposto in sala per parlare con la figlia senza essere sentito dal padre e mi ritrovo sul divano la madre, anche lei non sta benissimo. È una situazione difficilissima da affrontare dovendo tenere conto dei diversi punti di vista: quello di una figlia e quello di una moglie. Come vorrei potermi togliere mascherina e guanti e stringere loro le mani. «È una situazione troppo critica… non ce la può fare, mi dispiace tantissimo.» Dolore, pianto, ancora la lotta con i “se”, i “ma” i “però”. Riesco a calmarli riportandoli alla realtà. A ciò che bisogna decidere, a ciò che bisogna fare. Se lo porto in ospedale morirà in breve tempo e non lo rivedranno più. È così, funziona così. L’alternativa è lasciare che muoia a casa, nel suo letto, tra i suoi cari. «Fosse mio padre farei così, non ci penserei un attimo» dico loro. Condividono e accettano ma mi chiedono che non soffra. Penso e spero di poter fare qualcosa: chiamo la centrale e parlo con un medico che fortunatamente capisce la situazione e condivide il mio punto di vista. «Pensi di farcela?» mi chiede. Intende professionalmente ed eticamente. Certo che me la sento. È l’unica cosa sensata da fare, l’unico gesto di carità possibile. «Alcuni tuoi colleghi non ce la fanno.» Togliere dolore, togliere angoscia, abbassare il livello di coscienza. Morire nel sonno. Film già visti, gli infermieri sui campi di battaglia nella Seconda Guerra Mondiale, morfina a chi soffriva, morfina a chi moriva. Oggi gli infermieri in prima linea contro il COVID gli si avvicinano molto. Pratico quanto prescritto sotto cute e innesto una flebo in vena a goccia lenta. Ne spiego la gestione. «Quanto durerà il papà?» Un’ora? Tre? Mezz’ora? Non lo so, spero il meno possibile. Redigo puntigliosamente la mia scheda d’intervento; allungo i tempi, non voglio abbandonarli frettolosamente. Ricontrollo il paziente. Annaspa ma più lentamente, non risponde allo stimolo doloroso, i polsi periferici non si percepiscono più. Bene. Visito anche la moglie, di certo positiva, e le do alcune indicazioni per il giorno successivo, consiglio che la bombola del marito questa notte la usi lei. Terribile. Siamo ai saluti. Non voglio dare l’impressione di scappare. Mi soffermo sui loro silenzi. «Non abbiate sensi di colpa, nessuno ne deve avere in questa situazione, stategli vicino in questi ultimi attimi. È quello che vorrebbe.» Non ho ancora trovato il modo giusto per salutare in questa situazione: condoglianze è prematuro, buon giorno o buona sera è una presa per i fondelli, arrivederci suona molto ipocrita, auguri… Ma auguri di cosa? Allora resta un’incertezza, un silenzio, un vuoto sospeso, e forse è la cosa migliore da lasciare insieme a uno sguardo di sincera comprensione. Loro invece ti spiazzano sempre trovando la formula giusta: «Grazie.»