Un calvario lungo tre mesi. Una battaglia che l’ha messo a dura prova ma non è riuscita a stenderlo. Giorni difficili. Sulla soglia della vita. Dove manca il respiro e gli equilibri si ribaltano. Ma Giampaolo Pasini ha vinto questa battaglia. Dopo aver girato tre ospedali diversi è tornato a casa. E l’intero paese di Gromo venerdì 12 giugno ha fatto festa per accoglierlo nuovamente. Quella comunità in cui Giampaolo è sempre stato attivissimo: dall’AVIS agli Alpini, alla compagnia di teatro, tanti momenti in cui il suo cuore grande ha battuto insieme ai suoi amici. Quel cuore che l’ha sempre portato verso l’alto: in sella alla propria bici, sugli sci d’alpinismo o con gli scarponi ai piedi. Giampaolo è sempre stato un uragano di vita. Finché il Coronavirus l’ha travolto. Ma Giampa anche se messo al tappeto si è rialzato. A piccoli passi. Carichi di fatica ma densi di speranza. “Ho iniziato a non stare bene il 10 marzo – inizia a raccontare il cinquantaseienne con la voce ancora intrisa di commozione -. Nel tardo pomeriggio, mentre ero al lavoro, ho avuto un picco di febbre, con dolori articolari mai provati prima. È stata una sensazione bruttissima, ho iniziato ad avere dolori anche a livello polmonare, soprattutto al polmone sinistro: sembravano delle pugnalate”. Giampaolo lavora all’ospedale di Piario, come operatore sociosanitario nel reparto di Chirurgia. Nei giorni successivi resta a casa dal lavoro e la malattia segna un tragico crescendo. “Erano ancora i giorni dei primi casi, si parlava di COVID, avevamo dei sospetti su parecchi pazienti. In ospedale c’era la divisione tra settore A e settore B ma si sapeva ancora poco. Affrontare oggi il COVID è un’altra cosa, all’epoca era tutto nuovo, una malattia senza precedenti, anche per i medici. Io ci sono caduto in pieno e ho avuto la cosa peggiore: una polmonite bilaterale interstiziale”. Dal giorno della forte febbre Giampaolo resta a casa dal lavoro. “La temperatura è stata stazionaria per alcuni giorni, non altissima. Poi ho iniziato ad avere la tosse, ma nel frattempo erano scomparsi i dolori articolari”. Ma dopo non molto, il crollo. “Un pomeriggio mi sono reso conto che iniziavo a desaturare. Lavorando in ospedale conoscevo i valori da tenere sotto controllo. Ho cominciato ad avere difficoltà nella respirazione. Io non avevo nessuna patologia, sono uno sportivo, pratico attività di alta montagna: trovarmi con fame d’aria a quel livello è stato incredibile. Sono comparsi dei dolori nella parte posteriore della spalla. La mia dottoressa a quel punto mi ha indicato di andare subito in ospedale e sono stato ricoverato a Piario”. Se nei primi giorni la situazione era ancora abbastanza tranquilla, nel tracollo della malattia inizia a farsi sentire la paura. “A quel punto mi sono detto: siamo di fronte ad una cosa seria. Il giorno prima di andare in ospedale ho iniziato a preoccuparmi, ho capito la gravità. Ai miei famigliari l’ho detto subito: sarà molto lunga, ma non si pensava ad una gravità del genere”. A Piario Giampaolo viene intubato. E lì la sua memoria si ferma. “Non ricordo più nulla, mi sono risvegliato a Esine un paio di settimane dopo. Lì sono stato nel reparto di rianimazione: se ti trovi lì è perché corri sul filo del rasoio e infatti ho visto molti compagni di stanza che non ce l’hanno fatta. Arrivavano a Esine malati da ogni luogo, è stato un fulcro e devo dire che ho trovato del personale molto preparato. Non sapevano dove sbattere la testa, eppure ho visto una grandissima professionalità”. Tante persone che muoiono al suo fianco, ma lui piano piano ce la fa. “Io mi ritengo miracolato. Non so cosa mi abbia aiutato, forse per il fisico, sono sempre stato un amante della montagna, seguo sempre un’alimentazione corretta e uno stile di vita non indifferente. Penso che se avessi avuto uno stile più disordinato l’avrei pagata ancor di più”. A Esine comincia la lunga fase di ripresa. “Non è facile raccontarlo, ogni volta si riapre una ferita – riprende a raccontare con gli occhi ancora lucidi -. Lì ho cominciato a svegliarmi, ho notato che non avevo più nessuna forza muscolare. Questo maledetto virus colpisce anche il sistema nervoso: non muovevo più un dito, ripartivo da zero, come i primi anni di vita. Ma ho trovato un gran supporto da parte di medici e infermieri: non li ringrazierò mai abbastanza, come anche i miei colleghi a Piario che mi hanno raccontato della prima fase, quando mi hanno intubato e salvato la vita”. A Esine Giampaolo resterà fino al 16 aprile. Settimane in cui i miglioramenti si intrecciano a nuove cadute. “Verso l’8 aprile ho iniziato la prima fase di fisioterapia: ero ancora in terapia intensiva, facevo pochi minuti di movimento ma da star male. Poi sono stato trasferito in pneumologia: è un salto di qualità, vuol dire che stai andando bene, ma dopo 3 giorni stavo ancora male. Ho riscontrato, infatti, un batterio. Probabilmente la mia debolezza ha portato a questo, sono stato portato nuovamente in rianimazione e lì il primario mi ha detto: adesso stai qui fin quando lo dico io. E così è stato”. Da metà aprile il trasferimento all’ospedale di Gazzaniga. “Ho iniziato il 16 aprile la vera fisioterapia che non ho più interrotto. Uscivo da una rianimazione, dove l’ambiente è abbastanza tosto: non vedi niente esternamente, c’è solo una piccola parete dove filtra la luce, il resto sono stanze con monitor, sonde e drenaggi. È un’area molto delicata: è settica, sterile. All’ospedale di Gazzaniga già mi sentivo rinato. Anche lì ho trovato fisioterapisti e medici molto scrupolosi, come dimostra il fatto che avevano già ipotizzato una prima volta le mie dimissioni ma hanno poi voluto fare ulteriori accertamenti. Non mi hanno dimesso finché tutti i parametri erano a posto”. Per una persona abituato a raggiungere grandi vette, ricominciare dai movimenti elementari è stato arduo da accettare. “Un dramma: se dobbiamo ammetterlo, per me è stato un vero dramma non essere più in grado di usare i miei arti. Al livello che ero io, mi sono detto: ahimè, è dura. Ma non ho mai perso lo stato d’animo che una luce l’avrei vista prima o poi”. Alle difficoltà legate alla malattia se ne aggiungono altre. “Da un giorno all’altro non vedere più nessuno dei tuoi famigliari è stato un dramma. Era giusto così ma noi degenti l’abbiamo sentito: il personale è stato straordinario, è vero, ma i tuoi sono i tuoi”. Solo nelle ultime settimana a Gazzaniga, infatti, Giampaolo ricomincia a poter vedere sua moglie. “La vedevo a distanza di 5 metri quando mi portava gli indumenti puliti. Li depositava in un cesto, c’era sempre bisogno di un soggetto che facesse da tramite”. Il ritorno a casa non segna la fine della battaglia, ma una nuova tappa da percorrere. “Adesso ho davanti una bella convalescenza, che sarà molto lunga. Ho diversi controlli in programma per i prossimi mesi: un polmone ha ripreso bene, l’altro si spera che migliori… Nessuno pneumologo si sbilancia ma posso dire che sto bene: ho appetito; oltre ai farmaci, prendo tantissimi integratori e vitamine. A livello muscolare sarà molto lunga, sto cominciando a fare delle piccole camminate nei tratti pianeggianti”. Passi lenti e faticosi ma carichi di voglia di ricominciare a camminare. “Mi muovo con il saturimetro sempre in tasca. Ogni tot metri provo la temperatura, mi siedo, poi riparto. Non mi dimentico da dove provengo, quindi posso dire che la respirazione e l’equilibrio vanno bene”. Adesso guarda avanti, ancora con un po’ di paura. “Pensare al pieno recupero è tanto lontano che non so di preciso in cosa sperare. Mi piacerebbe arrivare al 90% di ciò che facevo prima: sarei strafelice, sarebbe il mio sogno. So che la guarigione completa sarà un miraggio ma speriamo…”. Nemmeno il virus ha cancellato dai suoi occhi la bellezza delle montagne tanto amate. “Mi piacerebbe l’anno prossimo tornare alle belle camminate cui ero abitato, non dico in quota, ma almeno nei miei boschi. Speriamo che non intercorrano altri problemi, perché sono ancora debole”. Intanto venerdì 12 giugno si è goduto una festa inaspettata. “È stata un’emozione incredibile. Mai avrei pensato a una cosa del genere, io non sapevo nulla. Quando mi hanno consegnato la lettera di dimissioni ho detto a mia moglie: voglio andare al bar a bere un caffè dopo tre mesi di ospedale, ma lei mi diceva: ‘no, dobbiamo andare’. Insisteva e io non capivo il perché. Poi ho scoperto che c’erano tutti ad aspettarmi, le autorità, gli amici, i membri dei vari gruppi di cui faccio parte. Ringrazio davvero di cuore tutta la comunità che mi è stata vicina in questi mesi e mi ha voluto bene: come mi ha detto la mia famiglia, vedevi in paese che aspettavano, volevano notizie, chiamavano di continuo”. Giampaolo sorride. La strada che ha davanti a sé da percorrere sarà ancora lunga. Ma lui non molla. Abituato ai sentieri di montagna. Accompagnato da una cordata di affetto che gli si è stretta vicino. “È stata una battaglia e abbiamo lottato: io l’ho fatta prima come operatore sanitario, poi come paziente. Adesso mi auguro che ci sia attenzione alle regole contro gli assembramenti: non servono eccessi, ma è necessario rispettare le regole, non possiamo pensare che il virus non ci sia più”.