benedetta gente

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    (p.b.) Noi, della generazione reduce da guerre dichiarate e mai combattute, di quando in quando ci ritroviamo ai funerali di icone di tempi andati e archiviati dalla storia. Resistono le nostre piccole storie che si incrociano in questi raduni di circostanza, portandoci i nostri ricordi datati, ritrovandoci su rive che un tempo erano rosse, bianche o nere e adesso sono solo grigie di nebbie dove si indovinano a fatica sagome dai contorni incerti accumunate solo dalla nostalgia di giovinezze perdute senza collari. E nel marasma dei populismi vocianti, ci inventiamo nuove divisioni scimmiottando quelle storiche tra guelfi e ghibellini, coppiani e bartaliani, destra e sinistra. Ha ragione Crozza, mentre noi stiamo qui a insultarci su un Sì e un No su una riforma di un parlamento asfittico, arrivano venti di guerre che a loro volta scimmiottano quelle storiche, la “guerra fredda”, la paura della bomba definitiva, quella che fece dire ad Einstein: “Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza guerra mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e le pietre”. Putin ha invitato la popolazione russa ad “ammassare grano”, ammassando (bastano due zeta al posto delle due esse e torna a fagiolo Bertolt Brecht: “Quando chi sta in alto parla di pace la gente comune sa che ci sarà la guerra (…) Riparlano di vincere (Anna non piangere) ma, loro, non mi avranno”) truppe alle frontiere tra oriente e occidente, a fronte della risposta della Nato che invia truppe, tra cui quelle italiane, ai confini del nuovo impero del nuovo Zar, in… Lettonia, che sembra una nazione cuscinetto spostata più in là e capace che ci tocchi affrontare il dilemma se morire o no per Riga invece che per Danzica. Ma che Putin inviti ad “ammassare grano” sembra una boutade: se lo dicesse Renzi agli italiani sarebbe il panico, non sappiamo più come si macina la farina figurarsi se saremmo poi capaci di farci il pane, meglio l’invito a saccheggiare i supermercati e far riserva di merendine confezionate.

    E Dario Fo, se ci fosse ancora, ci racconterebbe ancora con il suo grammelot la fame dello Zanni che arriva a mangiare le proprie budella, che è stata la fame vera dei nostri nonni. Il Nobel a Bob Dylan è un riconoscimento alla sua poesia rafforzata dalla musica, ma è poesia anche senza musica, che non è un limite, al punto che quando ci sono serate con letture di poesie c’è sempre un sottofondo musicale. Fabrizio De André ad es. meriterebbe il Nobel postumo, ma a differenza di Dario Fo il cui “Mistero buffo” è stato tradotto (si fa per dire, perché il grammelot va oltre le lingue) e rappresentato nel nord Europa, la sua poesia-canzone non si è allineata alla moda dell’inglese come lingua dominante (che poi con la Brexit ci si dovrebbe ripensare…).

    C’è una brutta aria che va oltre i confini fittizi e convenzionali tracciati sui territori, in nome dei quali si minacciano nuove guerre. I giovani sono sempre più non solo “ragazzi dell’Europa” come cantava Gianna Nannini, ma “ragazzi del mondo”. Anche questa è un’ondata che nemmeno i populismi nazionalisti alla lunga riusciranno a fermare con i loro ditoni inanellati (come il piccolo Hendrick della leggenda olandese che con un dito tappò la falla della diga che stava per scoppiare) dentro i buchi delle dighe artificiali erette tra nazione e nazione. Quei buchi diventeranno voragini e le dighe crolleranno (scriverlo e sperarlo costa niente).