di Aristea Canini

Da un po’ di tempo ho il rigetto per i social. Tuttologi che sputano parole e sentenze su tutto e tutti. Ma sul fronte guerra per fortuna che ci sono i social, altrimenti quello che sta succedendo in Ucraina diventerebbe il solito racconto di chi le guerre le vince, un po’ come è successo in Cecenia. Allora i social erano alle prime armi. E io quella guerra me la sono vista e vissuta grazie a Giorgio Fornoni che ha rischiato la pelle e ha visto e raccontato cose che troppi non sanno, perché per capire Putin forse bisognerebbe partire da lì e da una giornalista, Anna Politkovskaja, ecco, prendetevi un paio di minuti e leggete.

 

“Li perseguiteremo dappertutto e quando li troveremo, li butteremo dritti nella tazza del cesso” così dichiara Vladimir Putin, appena preso il potere. È il 1999. Nel mirino, quella volta, ha la Cecenia, repubblica del sud, con capitale Grozny. Piccola, periferica, poco popolata. Ma non poco importante. Anzi. Incastonata fra le montagne del Caucaso è ricca di petrolio e si trova in una posizione strategica. La seconda guerra cecena scoppia nel 1999. È un susseguirsi di atrocità, violenze gratuite su vecchi e bambini, stupri, torture. Con l’aggravante che, rispetto ai tempi di Eltsin, la stampa non è più libera di documentare il conflitto. I giornalisti non allineati vengono uccisi. O emarginati. O corrotti.

A documentare il conflitto, fra gli altri, c’è Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta e “reporter per caso”. “Il mio direttore ha deciso di mandarmi sul campo perché ero solo una “civile”, con l’idea che questo mi avrebbe permesso di comprendere l’esperienza della guerra più a fondo di chi, vivendo nelle città e nei villaggi ceceni, la subiva giorno dopo giorno. Ho viaggiato per tutto il Paese e visto tanta sofferenza. La cosa peggiore è che molte delle persone di cui ho scritto negli anni adesso sono morte”. Anna, da quel momento alla sua uccisione nel 2006, va oltre 40 volte in Cecenia, soffrendo fame, sete, freddo, subendo imboscate e rischiando la vita. Nel 2001 viene arrestata e lasciata per tre giorni in una buca sotto terra. “E’ stato un arresto prezioso perché sono riuscita a vedere le fosse. Tanti ne parlavano, ma nessuno era mai riuscito a vederle”. I suoi reportage sono spaventosi.

“È una guerra terribile; medievale, letteralmente, anche se la si combatte mentre il Ventesimo secolo scivola nel Ventunesimo, per giunta in Europa. Immaginate uomini assetati di sangue e ubriachi di vodka che perseguitano anche civili innocenti. Quello che dovete capire è che essere una persona in Cecenia non ha lo stesso significato che in Occidente. Una persona in Cecenia è un soggetto biologico privo di qualsiasi diritto e della possibilità di contare sullo Stato”. Una guerra che non risparmia nessuno, neanche i bambini. Una guerra in cui l’esercito federale commette atti brutali e di una violenza inimmaginabile. Atti contrari a tutte le norme del diritto internazionale, a un basilare quoziente di umanità, persino al buon senso comune. Stermini di civili, violenze carnali, omicidi gratuiti di vecchi e bambini, torture, persecuzioni omofobe, rapine. Per dieci anni la Cecenia è una terra senza leggi e senza Dio.
Lo scempio è tale che, dopo il passaggio dei soldati russi, le Nazioni Unite nel 2003 definiscono Grozny, la capitale della Cecenia, come “la città più devastata del mondo”.
Su Putin Anna Politkovskaja è molto chiara: “Mi chiedo spesso se sia un essere umano. O se è solo una gelida statua di ferro. Se è un essere umano, non lo dà certo a vedere. È il tipico tenente colonnello del Kgb sovietico con la forma mentis, angusta, e l’aspetto, scialbo, di chi non è riuscito a diventare colonnello. È sinceramente convinto che l’epoca sovietica sia stata la migliore e che bisognerebbe restaurarla. Era l’epoca in cui il Kgb era al massimo della sua potenza e tutti ne avevano paura, senza neanche sapere bene perché. L’epoca in cui si aveva una doppia vita e una tripla morale. L’epoca in cui il capo aveva una faccia per l’Occidente e una per il suo popolo”.

All’estero, Anna è amata. Riceve premi e inviti per parlare a conferenze. In Russia riceve 15 minacce di morte alla settimana. Viene emarginata. La chiamano “la pazza di Mosca”.
Racconta il suo caporedattore Dmitry Muratov (Premio Nobel per la pace nel 2021, riconoscimento dedicato ad Anna): “Le sue inchieste provocano un calo della tiratura e innumerevoli disdette dell’abbonamento. E il direttore, in riunione, ogni tanto, le dice di lasciar perdere gli orrori della Cecenia e scrivere qualcosa di un po’ più leggero, per esempio… sul suo cane! Allora lei risponde: “In un’altra vita, anch’io farei volentieri articoli sui panini””. Nel 2004 Londra le offrì asilo politico. La sua risposta fu lapidaria: “Mai, neanche per sogno. Io ho il diritto di restare nella mia patria. E non me ne andrò”».
E così Anna è rimasta (“Lo faccio per i miei figli. Perché imparino a credere in una Russia migliore, in cui le persone non mettano le testa sotto la sabbia, ma abbiano il coraggio di fissare il potere negli occhi”) e affrontato il suo destino già scritto. Il 7 ottobre del 2006 un sicario le ha scaricato contro 5 colpi di pistola. Lo stesso giorno in cui Vladimir Putin compie gli anni. Dell’assassinio di Anna nessun organo di stampa russo dà la notizia. Nessun politico partecipa al funerale. Giorgio Fornoni era amico di Anna e l’ultima intervista ad Anna l’ha fatta lui, poi è riuscito a fuggire ed evitare i sicari, che altrimenti avrebbero ucciso anche lui. Giorgio continua a raccontare quello che succede in Russia, e ora in Ucraina, ma qualcosa stavolta è cambiato, stavolta i ragazzi, la gente, riprende con i cellulari, condivide e fa conoscere quello che pochi conoscono. E’ un’arma potente la conoscenza, più forte forse anche delle bombe. E Putin forse non se l’aspettava. Proviamo anche noi a utilizzarla. E grazie a Giorgio, ad alcuni colleghi che sono in Ucraina e a gente che manda foto cercheremo di fare la nostra parte. Il mirino è diverso, è quello delle foto, non dei fucili.

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