LO STORICO MIMMO FRANZINELLI RACCONTA /2 – La vera storia della Marcia su Roma dell’ottobre 1922

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Proseguiamo per gentile e gradita concessione dell’autore la pubblicazione di un capitolo dell’ultimo volume dello storico camuno Mimmo Franzinelli dedicato alla “Insurrezione fascista . Storia e mito della Marcia su Roma” edito da Mondadori. La prima puntata è stata pubblicata sul numero 18 del 23 settembre scorso di Araberara.

 

 

 

 

 

Mimmo Franzinelli

 

Il re e i poteri forti,

al momento decisivo

 

Il presidente del Consiglio non dispone delle effettive leve di comando: galleggia, oscilla, invoca l’unità nazionale e lascia le cose come stanno.

Vorrebbe guadagnare tempo, ma il tempo lavora contro di lui e i fascisti si rafforzano progressivamente.

Nemmeno controlla l’apparato statale, eccezion fatta per i burocrati della capitale, autori di decreti, circolari e norme interpretative che troveranno scarsa o nessuna attuazione.

Il 28 ottobre, cade anche il sogno della grande manifestazione di pacificazione nazionale prevista per il 7 novembre (inizialmente, con la partecipazione di D’Annunzio), travolta dall’avvio dell’insurrezione.

Carabinieri e guardie regie – da sempre benevoli con gli squadristi – difficilmente spareranno alle camicie nere, ora che il fascismo è il perno della politica nazionale.

Nella prolungata paralisi delle Camere, i notabili liberali diffidano gli uni degli altri, e – come si ricorderà – negoziano ognuno per suo conto con Mussolini. Nessuno, insomma, vuol mettersi di traverso alla principale forza del Paese. Nel 1921 massimalismo socialista e settarismo comunista misero fuori gioco le sinistre, nel 1922 si consuma il fallimento dei capi-corrente liberali.

La decisione finale se opporsi ai fascisti o accettarne imposizioni, spetta al re.

Vittorio Emanuele ha una visione politico-esistenziale arida, senza slanci né visioni ideali. Soffre, nel suo entourage, la presenza di personaggi più di lui energici: dalla regina madre al duca d’Aosta, notori filofascisti.

Vede la debolezza congenita di Facta, sull’orlo della crisi per la sua irresolutezza e le divergenze tra i ministri.

Sa bene che mancano maggioranze politiche per contrastare la mobilitazione fascista e Mussolini è comunque destinato al governo, come leader o quantomeno da ministro. E conosce l’orientamento di vertici delle Forze Armate e Confindustria.

I generali Diaz, Baistrocchi, Canevari, Giardino, Grazioli, Pecori Giraldi e Sanna, l’ammiraglio Thaon di Revel e schiere di alti ufficiali costituiscono una forte lobby filofascista; essi ambiscono a posti di potere in scenari imperniati sul duce.

Alle propensioni mussoliniane di vertice corrispondono diffuse complicità dei responsabili militari regionali e provinciali. Complicità che nell’ottobre 1922 si concretizzano in gravissimi reati, inclusa la consegna clandestina di armi per le spedizioni punitive.

Il governo ne è al corrente, ma non riesce nemmeno in questi casi a punirne i responsabili, poiché il ministro della Guerra, Soleri, copre le scorrettezze, che il ministro dell’Interno, Taddei, vorrebbe sanzionare.

Rimangono senza seguito le denunzie del prefetto di Brescia sugli ammanchi di armamenti prodotti nelle fabbriche della Val Trompia e assegnati all’Esercito, col risultato di rifornire i fascisti di fucili e proiettili.

Taddei contesta a Soleri – per il quale, tutto sarebbe regolare – anche «il noto episodio di Firenze», coperto dal Comando di Corpo d’Armata: «le armi vengono prelevate dai fascisti dai depositi militari per compiere le azioni delittuose, e immediatamente dopo la fine delle spedizioni restituite alle caserme».

Il prefetto di Bologna segnala che le camicie nere possiedono «un gran numero di moschetti modello 1891 nuovi, con la cassa di legno chiaro e di alcune mitragliatrici FIAT».

Le connivenze si estendono al Meridione: il Comando militare di Palermo passa alle camicie nere elmetti ed equipaggiamenti bellici, ma la segnalazione del prefetto alla Direzione della PS viene insabbiata.

 

Tra re e duce, intercorrono sospetti reciproci. Ma le circostanze li costringono alla collaborazione

Il leader fascista sa che l’Esercito rimarrà agli ordini del monarca, e – se costretto a fermare le colonne nere – eseguirà. Senza considerare che tra i fascisti vi è una componente monarchica. Per il re, contrastare Mussolini comporterebbe forti rischi. A suo modo, il sovrano ammira e teme l’uomo nuovo della politica italiana.

Il 26 ottobre, sintetizza il proprio pensiero in un telegramma a Facta: «Il solo efficace mezzo per evitare scosse pericolose è quello di associare il fascismo al Governo nelle vie legali».

Dapprima il sovrano è propenso allo Stato d’assedio, ma al momento decisivo si ritrae e rifiuta di firmarlo.

Al voltafaccia contribuiscono stretti interlocutori (sia clerico-moderati che massoni), come pure la constatazione della desolante debolezza di Facta, sempre sul punto di dimettersi.

Senza trascurare i messaggi di Devecchi su estensione e irreversibilità dell’insurrezione fascista, che richiederebbe soluzioni politiche (cooptazione al governo) e non militari.

Lo Stato d’assedio esporrebbe la monarchia a incerti e conseguenze della guerra civile, senza il conforto di un governo «forte» sul quale fare affidamento.

La difesa di Roma, sarebbe sicuramente possibile, ma a qual prezzo? Meglio, dunque, aprire a Mussolini, «compromettendolo» con un notabile di destra come Salandra, che nella primavera 1915 portò l’Italia in guerra, gestì il potere dal marzo 1914 al giugno 1916, e nell’estate 1922 è vicino al fascismo.

Disgustato da «sei anni di governo fiacco ed assente, qualche volta traditore», egli ripone «la speranza della salvezza del paese in una forza armata e organizzata fuori del potere dello Stato», sebbene lo turbi il carattere «profondamente anarchico, nel senso rigoroso della parola» dello squadrismo, insofferente di ogni regola…

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