La vera storia della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922

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La vera storia della Marcia su Roma dell’ottobre 1922

LO STORICO MIMMO FRANZINELLI RACCONTA /1

La vera storia della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922

(p.b.) Era il 28 ottobre 1922. Cento anni fa. Presidente del Consiglio era Luigi Facta. Nel settembre di tre anni prima, proprio nel 1919, c’era stata la spedizione guidata da Gabriele D’Annunzio sulla città di Fiume, occupata di forza proclamando la “Reggenza Italiana del Carnaro” per forzare la mano alle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, impegnate nella Conferenza di pace di Parigi. Fiume era città contesa tra il Regno d’Italia e il Regno di Serbia, Croazia e Slovenia. L’azione di D’Annunzio era appoggiata da movimenti eterogenei, futuristi, nazionalisti, mazziniani, sindacalisti rivoluzionari e dal direttore del quotidiano “Il Popolo d’Italia”, Benito Mussolini. La “vittoria tradita” aveva lasciato strascichi di malcontento. L’occupazione di Fiume finì però a Natale 1920 in seguito al Trattato di Rapallo con il quale l’Italia ottenne Trento, Trieste a l’Istria. La Dalmazia e Fiume restavano fuori. 

L’Italia era percorsa da turbolenze, le voci di un “colpo di Stato” imminente erano sempre più avvalorate dal clima di scontri, scioperi, occupazioni delle terre, che provocavano poi violenze, incendi di sedi del partito socialista da parte di squadre dei fascisti, sostenute economicamente da proprietari terrieri e industriali. Le elezioni amministrative del 1920 videro il partito socialista e il partito repubblicano vincere quasi ovunque. Al che la reazione degli squadristi fu ancora più violenta. Nel 1921 alle elezioni politiche i fascisti riuscirono a far entrare in parlamento una trentina di loro candidati. Il 1922 fu caratterizzato dall’aumento delle violenze. E’ in questo clima che si prepara la famosa “Marcia su Roma”.

Lo storico Mimmo Franzinelli ci concede gentilmente la pubblicazione di un capitolo del suo ultimo volume “L’insurrezione fascista – Storia e mito della marcia su Roma” edizione Mondadori. Lo pubblichiamo in tre puntate.   

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Mimmo Franzinelli

La Marcia su Roma non è un evento a sé stante, ma il momento culminante di una strategia di lungo respiro, avviata sin dall’autunno 1920 e imperniata sulla mobilitazione della periferia fascista per la distruzione degli avversari e l’occupazione delle città, attraverso un’offensiva possente in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Toscana, Marche… 

Quegli assalti scardinarono le rappresentanze democratiche di comuni e province, e furono approvati – in quanto colpivano le sinistre – da intellettuali quali Luigi Albertini, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Vilfredo Pareto… 

La novità dell’ottobre 1922, sta nel fatto che il nemico è mutato: non più il «bolscevismo», ma lo Stato liberale (legato peraltro agli squadristi dalle decisive complicità di tanti suoi funzionari).

Chi ha via via minimizzato o persino liquidato la Marcia su Roma come folcloristica passeggiata per la capitale, sottovaluta significati simbolici e conseguenze concrete di quell’imponente corteo, che alla sfilata nei luoghi canonici (Altare della Patria e Quirinale) affiancò l’invasione dei quartieri popolari con intenti punitivi. 

Le persecuzioni nei confronti dei dissidenti, praticate il 31 ottobre 1922 con manganelli e revolver, verranno poi istituzionalizzate, così come dal gennaio 1923 le camicie nere saranno inquadrate nella neocostituita Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, al soldo dello Stato.

Altra rilevante sottovalutazione riguarda le motivazioni e il senso della partecipazione di decine e decine di migliaia di giovani a quella straordinaria mobilitazione, per una passione patriottica inculcata e incanalata dal duce con ambizioni di potere. 

Passione dovuta a vari fattori – dalla rivalutazione dei sacrifici bellici a fronte di chi li rifiutava, alla delusione per l’inconcludenza del ceto politico – e che costituì il detonatore di un esperimento di conquista violenta dello Stato, destinato a mutare in profondità la storia europea del Novecento. 

La comprensione di quel travagliato periodo storico passa anche attraverso l’esame della soggettività, peraltro variegata, delle camicie nere.

Quei fatidici ultimi giorni di ottobre mostrano – anche visivamente – la rivendicazione del monopolio politico da parte dei fascisti. 

Che monarchia, esercito e industriali abbiano favorito e addirittura finanziato l’avvento al potere delle camicie nere, accresce ulteriormente la valenza della Marcia su Roma e contribuirà in modo decisivo alla stabilizzazione del potere mussoliniano. 

La consacrazione del potere fascista, prima da parte di Vittorio Emanuele e poi da Camera e Senato (col voto di nazionalisti, democratici, liberali e del PPI), regolarizza formalmente la leadership di Mussolini. 

C’è ancora chi vorrebbe «costituzionalizzare» il fascismo. Ma che non si fosse passati da un governo all’altro, lo chiarirà – se ce ne fosse bisogno – lo stesso Mussolini nel primo discorso da presidente del Consiglio, il 16 novembre, con pesantissime minacce sia al Parlamento sia agli oppositori. 

“Qualora i dissidenti rialzassero la testa – ammonisce l’aspirante dittatore – ci saranno ulteriori marce, e ancora più violente”. 

Affermazioni inaudite, in sede parlamentare, risolutive nel testimoniare la fine dell’epoca liberale e il tramonto dello Statuto Albertino. 

Le promesse saranno mantenute: in quattro anni verrà abrogata la libertà di stampa, dichiarata la decadenza dei deputati antifascisti, sciolti tutti i partiti tranne quello al potere, generalizzata l’assegnazione al confino, creato il Tribunale speciale e ripristinata la pena di morte…

L’insurrezione avviata il 28 ottobre, insomma, ha distrutto definitivamente il regime liberal-democratico.

Le conseguenze della Marcia su Roma, furono enormi. E l’elaborazione mitica poi sviluppata dall’apparato propagandistico del regime conferirà ad essa valenze e caratteri che per generazioni condizioneranno gli italiani (e non solo), allignando ancora oggi nell’immaginario non solo dei nostalgici. 

Questo libro ricostruisce – anche con documenti inediti e/o pochi noti – retroterra e protostoria della Marcia su Roma, complicità e responsabilità, protagonismi e avversari… 

Per la prima volta, inoltre, si analizzano le modalità con cui la dittatura «strumentalizzò» quell’evento, servito da pietra angolare nella costruzione del regime, in una visione proteiforme che per un ventennio troverà ogni 28 ottobre una differente riproposizione della Marcia stessa. 

Sino alla sua riesumazione, nella Repubblica sociale, quando i vecchi squadristi riprenderanno le armi e il duce rimpiangerà, di quel 31 ottobre 1922, il fatto di non avere effettuato una vera rivoluzione, rovesciando l’infida monarchia. 

Strategie per la Rivoluzione fascista 

A fine estate, stride la contraddizione tra la frenesia movimentista degli squadristi e la cauta prudenza del duce, che non vuol farsi prendere la mano dai gregari. 

Vuole evitare passi falsi, come due anni prima non li aveva compiuti su Fiume, assecondando propagandisticamente D’Annunzio mentre lo lasciava esposto all’offensiva giolittiana (culminata nel «Natale di sangue»). 

Il duce compiace le camicie nere con discorsi infuocati, ma rinvia il tempo dell’azione al momento propizio. 

La prova di forza fissata da Mussolini per il 28 ottobre è lo sbocco della politica concepita quale lotta feroce, senza esclusione di colpi. 

Il capo fascista non è il personaggio impulsivo e umorale accreditato da tanti storici. Al contrario, calibra le mosse sulla psicologia degli avversari e sui mutamenti del Paese, sensibile alle variabili internazionali (in particolare, l’evolversi della situazione in Germania e Russia). 

Alterna dinamismi a temporeggiamenti, in una combinazione di azzardi e cautele. Sagace manipolatore, prospetta ai notabili liberali intese compromissorie, mentre riadatta alla situazione italiana uno slogan leninista: Tutto il potere ai fascisti. In lui, la spregiudicatezza si coniuga con il realismo. Svincolato da ideologie e dogmi, tiene le mani libere nella marcia verso il potere. 

Pur di depotenziare il Partito popolare rinuncia all’anticlericalismo (pilastro «diciannovista»), così come abdica al repubblicanesimo per convivere con la monarchia. Persegue più strategie, tiene carte di riserva e strumentalizza lo squadrismo (di cui, peraltro, diffida): gli è servito per farsi spazio nell’arena politica e distruggere le sinistre; ora, lo rivolge contro il regime liberale. 

L’antiparlamentarismo costituisce l’essenza del mussolinismo, radicato nel substrato populista e antidemocratici del Paese. 

Nell’estate 1922, il duce parla chiaro: «Quando si chiede che cosa fa la Camera italiana, una sola risposta balza irrefrenabile alle labbra: la Camera italiana fa schifo, ma tanto schifo». 

Nella sua analisi, il gruppo parlamentare del Partito popolare concentra il «fior fiore di profittatori, topi che rosicchiano con denti sempre più aguzzi nel formaggio ministeriale»; i liberali risultano «interessanti dal punto di vista archeologico»; i democratici sono dei «truffatori»; il gruppo parlamentare socialista costituisce una «mandria». 

Il duce non confida neppure nel Paese, che «fa più schifo – ed è tutto dire – della stessa Camera», ed «offre uno spettacolo triste quanto la Camera, uno spettacolo di gare, di contrasti, di egoismi fra individui, gruppi, categorie e clientele». 

Analisi ciniche e disincantate, nelle quali il nichilismo rafforza la sete di potere assoluto. 

Il Parlamento attraversa uno tra i momenti più oscuri del sessantennio unitario, sprofondato in un’interminabile crisi. 

Alla paralisi della Camera contribuisce il gruppo socialista, che – in ossequio al massimalismo – evita di ricercare con liberali e popolari possibili accordi in difesa della democrazia. 

I comunisti si rallegrano del fatto che «la barcaccia delle istituzioni procede ondeggiando» verso il naufragio, come scrive Amadeo Bordiga sul quotidiano torinese «l’Ordine Nuovo» (organo del PCdI): «I fascisti vogliono buttare giù il baraccone parlamentare? Ma noi ne saremmo lietissimi. […] Se c’è chi vuole dare altri scossoni alla baracca del regime, non saremo certo noi a dolercene».

 

Nelle previsioni del leader del PCdI i due principali nemici della rivoluzione –  socialdemocratici e fascisti – collaboreranno per sconfiggere il proletariato. 

Il 20 luglio, dopo due mesi di frequenti (ma improduttive) sedute, la Camera chiude per le ferie estive. Riconvocata il 9 agosto per la presentazione del nuovo governo Facta, approva un programma generico, ispirato all’ordine e alla pacificazione: proclami ipocriti, considerata l’esistenza indisturbata del partito armato.

Sulla questione del giorno – il giudizio sullo sciopero legalitario e le violenze che lo contrassegnarono – il presidente del Consiglio si accoda ai fascisti nel ritenere intollerabile la protesta, che ha provocato «una violenta reazione». 

Il capo del governo, Facta, ripete spesso di voler ristabilire l’imperio della legge, ma il Consiglio dei ministri del 16 agosto respinge il disegno-legge del ministro dell’Interno, Alessio, che punirebbe con pene da due a sei anni i componenti di corpi armati illegali. 

Il governo ignora la vera emergenza democratica: l’esistenza di un partito armato, operante quotidianamente e con crescente intensità.

Il progetto della Marcia su Roma è agitato da Mussolini quale spauracchio o toccasana, a seconda degli interlocutori. L’8 marzo 1921, durante la poderosa offensiva squadrista, ne accennò al raduno dei fasci di combattimento della Lomellina, additando la meta finale: «Il grosso dell’esercito è in marcia. Quale la meta finale? La meta finale della nostra marcia impetuosa è Roma. E a Roma vogliamo consacrare il diritto e la grandezza del popolo italiano. Ora e sempre!». 

Questo progetto funge da collante del fascismo e da fattore di mobilitazione dello squadrismo, rinverdendo il ricordo della Marcia su Fiume, entrata nell’immaginario collettivo delle camicie nere (e non solo).

Il duce sente il vento nelle vele e rivela una parte dei suoi disegni, per deprimere gli avversari e galvanizzare i seguaci, che perfezionano sempre più la loro organizzazione paramilitare. 

Il 20 settembre, si svolgono raduni interprovinciali a Vicenza, Piacenza, Novara, Alessandria e Udine: «spettacolari esibizioni di forza, servirono anche a Mussolini, che vi partecipò per consolidare, di fronte a decine e decine di migliaia di fascisti convenuti da ogni parte d’Italia, la sua autorità di duce».

I venticinquemila fascisti accorsi a Udine, intuiscono che i tempi stringono: ad un dato momento bisogna che uomini e partiti abbiano il coraggio di assumere la grande responsabilità di fare la grande politica, di provare i loro muscoli. Può darsi che falliscano. Ma ci sono dei tentativi anche falliti che bastano a nobilitare e ad esaltare per tutta la vita la coscienza di un movimento politico, del Fascismo italiano.

Il ricorso alla forza è rivendicato come irrinunciabile strumento di lotta: premesso che «la violenza non è immorale, la violenza è qualche volta morale», Mussolini rileva che essa si è dimostrata «risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in 48 ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in 48 anni di prediche e di propaganda. Quindi, quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa, è moralissima, sacrosanta e necessaria». 

Un’inequivocabile indicazione di marcia, ribadita dopo quattro giorni in una nuova grande adunata, a Cremona: «É dalle rive del Piave che noi abbiamo iniziato la marcia che non può fermarsi fino a quando non abbia raggiunto la meta suprema: Roma! E non ci saranno ostacoli né di uomini né di cose, che potranno fermarci!».

Consapevoli di trovarsi sulla cresta dell’onda, i fascisti fanno credere di voler giungere al potere col voto popolare. 

In realtà le elezioni anticipate sono l’alibi per impedire la nascita di un nuovo governo, che intralcerebbe i progetti mussoliniani. 

Si vuol prolungare l’agonia del gabinetto Facta, per sostituirlo al momento opportuno col gabinetto Mussolini: un disegno che via via prende corpo.

Il Vaticano scarica il partito popolare. La Segreteria di Stato (con a capo il cardinale Pietro Gasparri) raccomanda ai vescovi l’assoluta estraneità al Partito Popolare Italiano, invitandoli ad esortare i parroci a ispirare «sempre la loro condotta a tali direttive, subordinando, se il caso, anche le loro personali preferenze agli alti doveri e alle delicate esigenze del sublime loro ministero». 

É un monito a don Sturzo e a quanti, in ambito ecclesiastico, sostengono il partito cattolico. Ma è anche un’apertura a Mussolini, in vista degli assetti politici in via di definizione: messaggio giunto a destinazione, a giudicare dai riferimenti disseminati dal duce in discorsi e scritti sulla valorizzazione del cattolicesimo, nella visione universalista di Roma che si accoppia alla missione italiana nel mondo.

Mussolini, Bianchi, Devecchi e Balbo tengono discorsi, scrivono articoli, rilasciano interviste, polemizzano su posizioni talvolta convergenti e talaltra contraddittorie, creando barriere di nebbia funzionali all’occultamento degli approntamenti militari, o – forse – per farli metabolizzare, controbilanciandoli con dichiarazioni rassicuranti

Il susseguirsi di allarmi e di smentite, nell’incombenza di un’insurrezione data per certa da alcuni e negata da altri, familiarizza, nella politica italiana, l’idea della marcia sulla capitale.

Il fascismo, nato nel capoluogo lombardo, vi mantiene il maggiore punto di forza. Mussolini, pur eletto in Parlamento, diffida dei circoli politici della capitale e mantiene il quartiere generale negli uffici de «Il Popolo d’Italia».

Egli vuole estendere la sua egemonia da Milano a Roma, la città che esercita su di lui un fascino del tutto particolare, ribadito in discorsi e scritti, in funzione identitaria: «Noi, nel segno di Roma eterna, nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza, noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine, che non è militaresco e nemmeno tedesco, ma semplicemente romano». Nell’urbe, il duce vede insomma compendiati passato e avvenire: Roma, «faro dei naviganti e degli aspettanti» e «mèta suprema», concentra a fine ottobre 1922 desideri e sforzi del fascismo proteso alla conquista del potere.

 I quadrumviri

Il 22 ottobre Balbo individua Perugia come sede del Quadrumvirato, di cui egli fa parte insieme a Bianchi, De Bono e De Vecchi, che risiederà nel confortevole Hotel Brufani (il cui proprietario è di nazionalità inglese). Una scelta incongrua, che mal si presta quale centro operativo, data la scarsità di collegamenti stradali e ferroviari.

Il giorno 24 – come si è visto – convergono a Napoli molte migliaia di camicie nere,  nel raduno preliminare all’offensiva finale. 

Dinamiche e tempistica della Marcia su Roma vengono annotate in un documento approvato all’Hotel Vesuvio la sera del 24 ottobre, nell’incontro riservato, presieduto dal duce:

1. Mobilitazione e occupazione degli edifici pubblici nelle principali città del regno;

2. Concentrazione delle camicie nere a Santa Marinella, Perugia, Tivoli, Monterotondo e Volturno;

3. Ultimatum al governo di Facta per la cessione generale dei poteri dello Stato;

4. Entrata in Roma e presa di possesso ad ogni costo dei Ministeri. In caso di sconfitta le milizie fasciste avrebbero dovuto ripiegare verso l’Italia centrale, protette dalle riserve ammassate nell’Umbria;

5. Costituzione del Governo fascista in una città dell’Italia centrale. Radunata rapida delle camicie nere nella Vallata Padana e ripresa dell’azione su Roma fino alla vittoria e al possesso.

Nel doloroso caso di un investimento bellico la Colonna Bottai (Tivoli e Valmontone) accerchierà il quartiere S. Lorenzo entrando dalla Porta Tiburtina e da Porta Maggiore, la Colonna Igliori con Fara (Monterotondo) premerà da Porta Salaria e da Porta Pia e la Colonna Perrone (Santa Marinella) da Trastevere.

Si decide che a mezzanotte del 26 ottobre i quadrumviri assumano da Perugia la guida militare dell’insurrezione, mentre Mussolini rimarrà presso la sede del «Popolo d’Italia», gestendo il lato politico della mobilitazione.

Il ritorno del duce da Napoli nella «sua» Milano non è interpretabile (come spesso si ripete) con la vicinanza alla Svizzera, potenziale via di fuga, ma piuttosto come posizionamento nella sede a lui personalmente e politicamente più congeniale.

Con apparente contraddizione rispetto ai programmi insurrezionali, s’intensificano i contatti informali per un nuovo governo che assegni ai fascisti la posizione dominante: presidenza del Consiglio e i sei principali ministeri. L’offensiva militare agisce da spauracchio, che intimorisce i notabili liberali.

Al mattino del 26 ottobre il governo informa i prefetti che, essendovi «fondati timori che sia imminente un moto rivoluzionario fascista contro uffici e organi governativi», qualora il moto si manifesti, «si faccia uso di armi».

Il ministro Taddei ordina l’arresto dei responsabili dei sommovimenti militari.

 Ma nel pomeriggio, in una riunione informale con alcuni ministri, Facta si presenta dimissionario; dopo convulsa discussione i ministri pongono i loro incarichi a disposizione del presidente del Consiglio, che dunque rimane in carica, ma che da un momento all’altro potrebbe presentarsi al re e chiudere l’esperienza di governo. 

Vi è, evidentemente, una contraddizione clamorosa sul fatto che un ministero morituro possa dichiarare e gestire un provvedimento eccezionale quale lo Stato d’assedio.

La situazione si fa sempre più tesa e il ministro dell’Interno si affida al generale di divisione Emanuele Pugliese, comandante della Divisione militare Roma, autorizzato a bloccare i treni con le camicie nere, e – come estrema misura – a fare «uso delle armi».

Pugliese è un solido militare piemontese, decorato con nove medaglie al valore; fedelissimo alla casa regnante, diffida dei fascisti ed è disposto, pur di fermarli, a impiegare cannoni e mitragliatrici.

Ha predisposto allestimenti difensivi di sicura efficacia: blocchi delle arterie ferroviarie nei punti-chiave e due linee militari (alle mura esterne della capitale e a un centinaio di chilometri). 

Ostacoli poderosi per un avversario impreparato sul terreno militare e inadatto  psicologicamente a battersi contro il Regio esercito, rinnegando con ciò stesso i presupposti patriottici del PNF.

Ad allarmare ancor più il governo, in quella tormentata notte dal 26 al 27 ottobre, giunge il telegramma del prefetto di Napoli, con le notizie ricevute «da fiduciario attendibile» sulla mobilitazione generale fascista per una «marcia convergente Roma» con «occupazione di pubblici uffici, edifici ecc.».

Il 27 ottobre i quadrumviri diramano il proclama preparato cinque giorni addietro da Mussolini: l’ora decisiva è giunta e si invita l’Esercito ad appoggiare l’offensiva contro lo Stato liberale.

Occupata Perugia, tre colonne da S. Marinella, Monterotondo e Tivoli marceranno verso Roma. 

Alle ore 18 De Bono, rivolge ai «comandanti delle colonne» un ordine del giorno, nel quale – premesso «che nessuna azione offensiva sarà tentata per parte delle forze governative» – li esorta ad inviare in ricognizione piccoli reparti, per individuare «la direzione più opportuna da prendere per giungere sotto Roma e penetrarvi».

Direttive generiche e di dubbia praticabilità. 

Tanto più che nella capitale si conoscono fin nei particolari località e direttrici dell’offensiva.

Nella notte il ministero dell’Interno è tempestato da telegrammi di prefetti che – particolarmente dall’Italia settentrionale – chiedono rinforzi, affermando di non poter altrimenti presidiare punti strategici e edifici pubblici.

Il 28 ottobre nei palazzi romani ancora si spera – pur brancolando nel buio –  in una mediazione, ovvero nell’ingresso fascista in un gabinetto Salandra.

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LO STORICO MIMMO FRANZINELLI RACCONTA /2

LA VERA STORIA DELLA MARCIA SU ROMA DELL’OTTOBRE 1922

Proseguiamo per gentile e gradita concessione dell’autore la pubblicazione di un capitolo dell’ultimo volume dello storico camuno Mimmo Franzinelli dedicato alla “Insurrezione fascista . Storia e mito della Marcia su Roma” edito da Mondadori. La prima puntata è stata pubblicata sul numero 18 del 23 settembre scorso di Araberara.

Mimmo Franzinelli

Il re e i poteri forti, al momento decisivo

Il presidente del Consiglio non dispone delle effettive leve di comando: galleggia, oscilla, invoca l’unità nazionale e lascia le cose come stanno. 

Vorrebbe guadagnare tempo, ma il tempo lavora contro di lui e i fascisti si rafforzano progressivamente.

Nemmeno controlla l’apparato statale, eccezion fatta per i burocrati della capitale, autori di decreti, circolari e norme interpretative che troveranno scarsa o nessuna attuazione.

 Il 28 ottobre, cade anche il sogno della grande manifestazione di pacificazione nazionale prevista per il 7 novembre (inizialmente, con la partecipazione di D’Annunzio), travolta dall’avvio dell’insurrezione.

 Carabinieri e guardie regie – da sempre benevoli con gli squadristi – difficilmente spareranno alle camicie nere, ora che il fascismo è il perno della politica nazionale.

 Nella prolungata paralisi delle Camere, i notabili liberali diffidano gli uni degli altri, e – come si ricorderà – negoziano ognuno per suo conto con Mussolini. Nessuno, insomma, vuol mettersi di traverso alla principale forza del Paese. Nel 1921 massimalismo socialista e settarismo comunista misero fuori gioco le sinistre, nel 1922 si consuma il fallimento dei capi-corrente liberali. 

La decisione finale se opporsi ai fascisti o accettarne imposizioni, spetta al re. 

Vittorio Emanuele ha una visione politico-esistenziale arida, senza slanci né visioni ideali. Soffre, nel suo entourage, la presenza di personaggi più di lui energici: dalla regina madre al duca d’Aosta, notori filofascisti.

 Vede la debolezza congenita di Facta, sull’orlo della crisi per la sua irresolutezza e le divergenze tra i ministri.

 Sa bene che mancano maggioranze politiche per contrastare la mobilitazione fascista e Mussolini è comunque destinato al governo, come leader o quantomeno da ministro. E conosce l’orientamento di vertici delle Forze Armate e Confindustria. 

 I generali Diaz, Baistrocchi, Canevari, Giardino, Grazioli, Pecori Giraldi e Sanna, l’ammiraglio Thaon di Revel e schiere di alti ufficiali costituiscono una forte lobby filofascista; essi ambiscono a posti di potere in scenari imperniati sul duce.

 Alle propensioni mussoliniane di vertice corrispondono diffuse complicità dei responsabili militari regionali e provinciali. Complicità che nell’ottobre 1922 si concretizzano in gravissimi reati, inclusa la consegna clandestina di armi per le spedizioni punitive.

 Il governo ne è al corrente, ma non riesce nemmeno in questi casi a punirne i responsabili, poiché il ministro della Guerra, Soleri, copre le scorrettezze, che il ministro dell’Interno, Taddei, vorrebbe sanzionare. 

 Rimangono senza seguito le denunzie del prefetto di Brescia sugli ammanchi di armamenti prodotti nelle fabbriche della Val Trompia e assegnati all’Esercito, col risultato di rifornire i fascisti di fucili e proiettili. 

Taddei contesta a Soleri – per il quale, tutto sarebbe regolare – anche «il noto episodio di Firenze», coperto dal Comando di Corpo d’Armata: «le armi vengono prelevate dai fascisti dai depositi militari per compiere le azioni delittuose, e immediatamente dopo la fine delle spedizioni restituite alle caserme».

 Il prefetto di Bologna segnala che le camicie nere possiedono «un gran numero di moschetti modello 1891 nuovi, con la cassa di legno chiaro e di alcune mitragliatrici FIAT». 

Le connivenze si estendono al Meridione: il Comando militare di Palermo passa alle camicie nere elmetti ed equipaggiamenti bellici, ma la segnalazione del prefetto alla Direzione della PS viene insabbiata. 

 Tra re e duce, intercorrono sospetti reciproci. Ma le circostanze li costringono alla collaborazione

 Il leader fascista sa che l’Esercito rimarrà agli ordini del monarca, e – se costretto a fermare le colonne nere – eseguirà. Senza considerare che tra i fascisti vi è una componente monarchica. Per il re, contrastare Mussolini comporterebbe forti rischi. A suo modo, il sovrano ammira e teme l’uomo nuovo della politica italiana.

 Il 26 ottobre, sintetizza il proprio pensiero in un telegramma a Facta: «Il solo efficace mezzo per evitare scosse pericolose è quello di associare il fascismo al Governo nelle vie legali». 

 Dapprima il sovrano è propenso allo Stato d’assedio, ma al momento decisivo si ritrae e rifiuta di firmarlo.

 Al voltafaccia contribuiscono stretti interlocutori (sia clerico-moderati che massoni), come pure la constatazione della desolante debolezza di Facta, sempre sul punto di dimettersi. 

 Senza trascurare i messaggi di Devecchi su estensione e irreversibilità dell’insurrezione fascista, che richiederebbe soluzioni politiche (cooptazione al governo) e non militari.

 Lo Stato d’assedio esporrebbe la monarchia a incerti e conseguenze della guerra civile, senza il conforto di un governo «forte» sul quale fare affidamento.

 La difesa di Roma, sarebbe sicuramente possibile, ma a qual prezzo? Meglio, dunque, aprire a Mussolini, «compromettendolo» con un notabile di destra come Salandra, che nella primavera 1915 portò l’Italia in guerra, gestì il potere dal marzo 1914 al giugno 1916, e nell’estate 1922 è vicino al fascismo.

 Disgustato da «sei anni di governo fiacco ed assente, qualche volta traditore», egli ripone «la speranza della salvezza del paese in una forza armata e organizzata fuori del potere dello Stato», sebbene lo turbi il carattere «profondamente anarchico, nel senso rigoroso della parola» dello squadrismo, insofferente di ogni regola. 

 Salandra, dunque, boccia ogni governo successivo al suo. Esattamente come lui, Orlando, Nitti, Giolitti, Bonomi e Facta rivendicano i propri meriti, rigettando i disastri del Paese sugli altri presidenti del Consiglio…

 Il presidente di Confindustria, Ettore Conti, ammira il capo fascista, col quale discute linee di politica economica e finanziaria per riassestare il bilancio statale, sburocratizzare e decentrare l’amministrazione pubblica, stabilire un’intesa governo-industriali per la proiezione sui mercati esteri… Conti è lusingato dalla presenza, in articoli e discorsi mussoliniani, dei propri punti programmatici.

 Il duce, dunque, ha con sé i poteri forti. Gli si chiede solo di trovare un’intesa con i notabili liberali e «di frenare il movimento rivoluzionario». Mussolini gioca d’astuzia, dicendosi disponibile a un esecutivo Orlando o Salandra, mentre mai accetterebbe di subordinarsi a quei ruderi.

 Anche la Massoneria sostiene il PNF. Al Grande Oriente d’Italia (con sede a Piazza del Gesù) aderiscono – tra gli altri – Giacomo Acerbo, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Sante Ceccherini, Costanzo Ciano, Dino Perrone Compagni, Cesare Rossi, Edmondo Rossoni.

 Il gran maestro Raoul Palermi ha contatti diretti con Mussolini e ne approva «l’azione, in quanto ispira da un provvidenziale principio di salvaguardia dell’assetto istituzionale e dei valori patriottici».

 L’altra obbedienza massonica, di Palazzo Giustiniani – cui appartengono Amerigo Dumini, Roberto Farinacci, il gen. Luigi Capello, Aurelio Padovani, Achille Starace (nonché il medico personale di Mussolini, Ambrogio Binda) – ha come gran maestro Domizio Torrigiani che, dopo un’iniziale neutralità appoggia l’offensiva del PNF, necessaria per l’uscita dal caos politico. 

 A ridosso della Marcia su Roma, finanziamenti di provenienza massonica lubrificano gli ingranaggi insurrezionali. Mussolini, pur contrario alla liberomuratoria, ne accetta il sostegno, rinviando a tempi migliori la ripresa delle ostilità contro un sodalizio da lui costantemente avversato (dirigente socialista, cacciò dal partito esponenti massoni).

 La Massoneria, come numerosi sodalizi borghesi, agevolò indubbiamente l’ascesa del duce, ma sono fantasiose le versioni che riducono il fascismo a un frutto della Massoneria, madre nobile della Marcia su Roma.

 Il capolavoro di Mussolini

A Milano, la base operativa di Mussolini rimane «Il Popolo d’Italia», nel centro cittadino, presso piazza Missori.

 I giornalisti sono armati e agli ingressi svettano barricate; squadristi con elmetti militari occupano balconi e postazioni sugli stabili adiacenti, proteggendosi con sacchetti di sabbia. 

 La circolazione stradale, è precauzionalmente bloccata. Le due palazzine – da ognuna delle quali sventola il tricolore – sono controllate da un’ottantina di guardie regie e pattuglie di soldati. Eppure, nessun antifascista potrebbe assaltare con successo quei fortilizi: stavolta, il potenziale nemico è costituito dallo Stato liberale.

 Il duce ha quale suo informatore il prefetto Alfredo Lusignoli, dal quale attinge notizie preziose. L’alto funzionario conferma al governo l’impressione di estrema pericolosità degli approntamenti insurrezionali, presentati come reali e più perfezionati di quanto non siano. 

 Le sue insistenze su Facta e il ministro Taddei circa la loro posizione in caso di moti armati, sono finalizzate ad aggiornare Mussolini sugli orientamenti governativi.  

 Alle ore 9,42 del 26 ottobre, Lusignoli invia al gabinetto del ministero dell’Interno un telegramma cifrato con «precedenza assoluta su tutte le precedenze»:

«Tenuta riunione con comandante Corpo armata e comandanti Corpi per preparare difesa uffici Governativi. Ipotesi che si presentano sono tre: o lasciar fare, o imporsi col numero, o sopraffare tentativo con uso armi.

Prego telegrafarmi quale via presceglie Governo, dal quale attendo invio mezzi adeguati».

 Il prefetto vuole appurare se il governo bluffi, o faccia sul serio.

 A Milano, comunque, scrive a Taddei, è impensabile fronteggiare l’offensiva fascista. La risposta è perentoria: «verificandosi tentativi contro uffici e organi governativi, si dovrà, esperito ogni altro mezzo, far uso delle armi».

 Il prefetto, in quella eventualità, passerà i poteri all’autorità militare: a reprimere l’insurrezione, penserà il gen. Giovanni Cattaneo, comandante della piazza di Milano (simpatizzante – come i suoi diretti collaboratori – delle camicie nere).

 Mussolini vive giornate intensissime, senza però rinunciare ai consueti appuntamenti mondani: trascorre le serate del 26 e del 27 dicembre a teatro, una sera con Margherita Sarfatti e l’altra con la moglie Rachele e la piccola Edda. 

 In quelle due giornate, incontra nuovamente i principali industriali milanesi, da Stefano Benni ad Alberto Pirelli, rassicurati sul fatto che gli approntamenti paramilitari puntino a ristabilire la disciplina nel Paese e particolarmente nelle fabbriche. 

 Gli imprenditori aprono i cordoni della borsa, finanziando i piani insurrezionali.

 Il capolavoro di Mussolini non sta certo nell’impossibile attuazione di piani militari (elaborati – come si è visto – da Balbo), mal coordinati e inapplicabili in caso di reazione dell’esercito. 

 Consiste piuttosto nell’avvalersi di tale minaccia per alzare continuamente la posta delle negoziazioni politiche.

 Il cuore della questione, sfuggito ai suoi interlocutori, è che il piano di azione militare e quello politico non erano separati, ma complementari

 I notabili romani concepiscono invece le trattative come antidoto all’opzione militare: fraintendimento che consegnerà le chiavi del governo al capo delle camicie nere.

 Per comprendere come il duce giochi sul tempo gli avversari, basti notare che, scegliendo il 28 ottobre per l’azione risolutiva, anticipa e spiazza gli statisti liberali che puntano sulla grande manifestazione del 7 novembre per celebrare il terzo anniversario della Vittoria e lanciare D’Annunzio in alternativa a Mussolini. 

 Prolungando l’agonia del governo Facta, il duce allunga la gestazione di un nuovo esecutivo a trazione liberale. 

 Giolitti, vecchia volpe di cinque combinazioni ministeriali, cade nel sacco. Convinto che il re lo convocherà per l’investitura governativa, il 28 ottobre si pone in viaggio, ma… fuori tempo massimo.

 Lasciata Dronero per Torino (dove ha prenotato il direttissimo per la capitale), apprende dal prefetto della mobilitazione fascista e delle conseguenti interruzioni ferroviarie; valuta un itinerario via mare, ma l’accelerazione politica rende patetiche le premure del vegliardo, collocato d’un colpo tra le anticaglie di un sistema in frantumi.

 Più lesto a cogliere la piega degli eventi, Salandra, da un mese si definisce fascista onorario, impegnandosi per «dare senza indugio forma legale l’inevitabile avvento del fascismo». 

 A Roma, Salandra conta sulla simpatia del sovrano e sul sostegno del fascista Devecchi e del nazionalista Federzoni che invano premono su Mussolini (che confiderà anni più tardi a Ciano: «Il 28 ottobre del 1922 era già pronto a tradire ed a sistemarsi in una combinazione ministeriale di concentrazione»). Sono strategie di fiancheggiamento di personaggi che non si rassegnano al ruolo di sopravvissuti o di  comparse.

 Modalità e obiettivi della mobilitazione squadrista

Il 24 ottobre 1922, all’adunata di Napoli, il duce prefigurò, dinanzi a un uditorio imponente ed entusiasta, la conquista del potere nel giro di pochi giorni. Il passaggio centrale di quell’importante intervento:

«Legalità o illegalità? Conquiste parlamentari o insurrezione? Attraverso quali strade il fascismo diventerà Stato? Perché noi vogliamo diventare Stato! […] Tutte le volte che nella storia si determinano dei forti contrasti d’interessi e d’idee, è la forza che all’ultimo decide. Ecco perché noi abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni: perché se l’urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi. Noi ne siamo degni (applausi); tocca al popolo italiano che ne ha il diritto, che ne ha il dovere, di liberare la sua vita politica e spirituale da tutte quelle incrostazioni parassitarie del passato, che non può prolungarsi perennemente nel presente perché ucciderebbe l’avvenire» (applausi).

 Trascorsi tre giorni – come si è visto – il governo dispone di ogni informazione sugli approntamenti insurrezionali, grazie alla rete dei prefetti, che redige provincia per provincia dettagliate descrizioni su quanto si prepara. 

 Dal pomeriggio del 27 ottobre, e con crescente intensità nella notte, provengono al Viminale messaggi allarmati ed allarmanti, il cui senso è raggelante: le articolazioni periferiche dello Stato, sotto attacco, non possono (o non vogliono) difendersi.

 Rivelatrice la testimonianza del capo-gabinetto dell’Interno, in ufficio in quelle ore decisive, mentre il presidente del Consiglio, dopo aver proposto al re lo Stato d’assedio, se ne è andato a dormire (ma lo risveglieranno alle 5 del 28 ottobre, per una riunione straordinaria con i ministri):

 Al Viminale i telefoni che collegavano le prefetture al Ministero non avevano tregua e dopo la mezzanotte le notizie divennero allarmanti. 

 «Assistevo nella notte, nel silenzio delle grandi sale del Viminale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato. Si infittivano, sui grandi fogli che tenevo dinnanzi a me, i nomi che andavo notando delle prefetture occupate, le indicazioni degli uffici telegrafici invasi, di presidi militari che avevano fraternizzato coi fascisti fornendoli di armi, dei treni che le milizie requisivano e che si avviavano carichi di armati verso la capitale».

 

La notte dal 27 al 28 ottobre, è chiaro a tutti che sta iniziando l’insurrezione fascista. Lo schema generale prevede, in ogni provincia, cinque fasi: 

1) mobilitazione nelle campagne, imperniata sulle sezioni del PNF; 

2) concentramento di migliaia di armati sulle città, per assicurarsene il controllo; 

3) occupazione degli uffici pubblici (prefettura, stazione ferroviaria, uffici postelegrafonici ecc.); 

4) rastrellamento di armi in caserme e depositi; 

5) mantenimento dei presidi cittadini, con partenza per Roma (in camion, o più spesso in treno) delle squadre meglio addestrate.

 Negli uffici postelegrafonici, si posizionano tecnici in camicia nera, per captare e/o interrompere le comunicazioni tra ministero dell’Interno, prefetti e forza pubblica. 

 Assalti alle redazioni di quotidiani e periodici, minacce di ritorsioni per articoli «imprudenti», roghi di giornali sgraditi silenziano la stampa. I fogli del PNF e della destra conseguono straordinari vantaggi, e rafforzano l’onda d’urto.

 L’atteggiamento verso Esercito e forze dell’ordine è collaborativo e dialogante: si ricercano, a livello locale, intese compatibili con la mobilitazione, indirizzata – spiegano i delegati del Comando supremo fascista – ad obiettivi patriottico-nazionali.

 Manifestazioni nei centri urbani inneggiano alle forze armate e al re. Tuttavia, in alcuni casi avvengono sanguinosi scontri con la forza pubblica, particolarmente a Cremona e Bologna.

 Dalla notte del 27 ottobre (tranne a Cremona, a Bologna e in poche altre città) i fascisti, insomma, dilagano in decine e decine di capoluoghi di provincia senza incontrare significative resistenze, venendo anzi agevolati – per pavidità o complicità – da molti prefetti, comandi militari e carabinieri. Ciò dà anzitutto la misura del consenso cresciuto attorno al movimento di Mussolini, con ritmi addirittura impetuosi nel mese d’ottobre (quando poi, alla vittoriosa conclusione della mobilitazione, le camicie nere torneranno alle loro sedi, compiranno ovunque – per dirla con il loro storico Chiurco – «opera di epurazione, devastando circoli, leghe, camere del lavoro, occupando municipi ecc.»).

28 ottobre a Bergamo e Brescia

A Bergamo al mattino del 28 ottobre passa senza resistenze in mano agli squadristi.che vi si trincerano e la isolano da ogni contatto con l’esterno; l’ultimo messaggio del prefetto Carassi: «Fascisti armati, vincendo facilmente resistenza forza pubblica, occuparono uffici postali e telegrafici, per modo che simultaneamente questo capoluogo trovasi completamente isolato. Rivoltosi armati tentano e talora riescono disarmare ufficiali, guardie regie e carabinieri. Appena si riuscirà a ristabilire le comunicazioni, riferirò sulla situazione, finora incerta». 

Nuclei militari vengono sopraffatti e trattenuti dagli squadristi sino al tardo pomeriggio del giorno 28. 

 La gestione dell’ordine pubblico, conferita dal prefetto all’autorità militare, è assolutamente passiva.

 A Brescia gli squadristi lottano su due fronti: contro i cattolici del PPI e contro le sinistre. 

Su ordine del futuro segretario del PNF Augusto Turati, vengono pertanto occupati la redazione del giornale popolare «Il Cittadino» e del foglio diocesano «La Voce del Popolo», nonché la Camera del lavoro (poi incendiata).

 Invano il prefetto De Martino (tra i pochi funzionari decisi ad arginare le violenze) chiede rinforzi al governo, ritenendo inadeguato l’apparato di controllo dell’ordine pubblico: «come l’esperienza insegna, i nuclei mobili al primo accenno di movimento diamante rimangono immobilizzati sul posto dove si trovano». Vengono infatti asportati fucili. Un corteo fascista per il centro-città viene preso di mira con revolverate da finestre e tetti: gli squadristi sparano all’impazzata, uccidendo una donna e ferendo una decina di civili.

«Il Popolo d’Italia» del 28 ottobre enfatizza gli eventi del giorno precedente, presentati come una rivoluzione d’ordine. Occhiello, titolo e sottotitolo sono categorici:

La storia d’Italia ad una svolta decisiva!

La mobilitazione dei fascisti è già avvenuta in Toscana

Tutte le caserme di Siena occupate dai fascisti

I grigio-verde fraternizzano con le “Camicie Nere”

 Si annunciano le dimissioni del governo come esito della mobilitazione squadrista.  Evidentemente, il direttore (Benito Mussolini) utilizza il quotidiano come una micidiale arma politica nell’attacco allo Stato liberale.

 L’edizione del 29 ottobre sviluppa gli stessi concetti, ostentando fiducia assoluta nell’imminente vittoria, secondo i tipici moduli della guerra psicologica:

L’irresistibile vittoriosa riscossa fascista

Lo Stato che noi auspichiamo va traducendosi in “fatto”

Esultante solidarietà dell’Esercito regolare con la Milizia fascista –
 Mirabile fusione di tutte le forze nazionali

L’arrendevolezza dell’apparato periferico statale (che riecheggia le titubanze del centro) incoraggia il duce alla prova di forza. 

Sebbene Roma, per la presenza di re e Parlamento, sarà un obiettivo ben altrimenti duro.

 

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LO STORICO MIMMO FRANZINELLI RACCONTA /3

LA VERA STORIA DELLA MARCIA SU ROMA DELL’OTTOBRE 1922

Mimmo Franzinelli

Il Comando di Perugia e le colonne impantanate

Perugia, sede del quadrumvirato, la notte del 27 ottobre passa sotto controllo squadrista.

 Le vie della città sono percorse, a mo’ di ronda, da due vetture delle squadre d’azione «Disperatissima» e «Satana», che sul retro della vettura hanno installato una mitragliatrice.

Con infelice tempismo, si celebra alla Corte d’Assise un processo per costituzione di bande armate, che ha come imputati non già i fascisti, bensì un centinaio di «sovversivi» accusati di complicità con il «Comitato esecutivo internazionale comunista di Milano», e imputati di «partecipazione a bande armate per far insorgere i cittadini contro i poteri dello Stato».

 A ricordare il clima politico, sono presenti in aula, con atteggiamento minaccioso, gruppi di squadristi, che intimidiscono gli avvocati difensori e i testimoni.

Intanto dal quartier generale all’Hotel Brufani (ubicato di fronte al palazzo della prefettura), sabato 28 ottobre il «Comandante generale» Balbo dirama ai responsabili delle colonne armate una quantità di messaggi, su foglietti recapitati da elementi fidati, che si spostano su motociclette, avventurandosi su strade fangose e insicure. 

Raccomanda al gen. Umberto Zamboni di rastrellare fucili nelle caserme, d’intesa con gli ufficiali: «Gli avvenimenti precipitano: la S.V. con treni e camions, immediatamente si porti, con il maggior numero di uomini possibile, a Terni, e s’impadronisca della fabbrica d’armi». 

Tuttavia, nella notte dal 28 al 29 Zamboni non ha ancora eseguito l’ordine, che gli viene pertanto reiterato. 

Il Quadrumvirato patisce il blocco della circolazione ferroviaria, disposto congiuntamente allo Stato d’assedio. Balbo mobilita i Gruppi ferrovieri fascisti di Firenze e Arezzo, affinché a Chiusi provvedano «immediatamente al ripristino della linea prima dell’arrivo dei treni con gli squadristi dell’Emilia e del Cremonese».

Altro sbarramento della linea (mediante sbullonamento e asportazione dei binari) avviene il 28 nei pressi della stazione di Civitavecchia: sospesi arrivi e partenze con Ancona, Pisa e Firenze, restano in funzione le linee per il Meridione (Sulmona e Napoli). 

A Civitavecchia, tradizionale baluardo delle sinistre, «regna viva apprensione; i negozi sono chiusi e la vita paralizzata, essendosi gli operai astenuti dal lavoro» per protesta antifascista. 

Quel giorno, vengono bloccati due convogli con duemila squadristi toscani, che ripartono a piedi verso S. Marinella, distante una decina di chilometri: per la capitale, ne mancano ancora una sessantina (nella sosta a S. Marinella, le colonne fasciste occupano Castello Odescalchi e un paio di alberghi).  

Siccome gli eventi smentiscono le previsioni, la notte dal 28 al 29 ottobre partono dal quadrumvirato ordini urgenti con richieste di soccorso. 

Si chiede ad es. a Farinacci di marciare all’istante da Cremona su Foligno. Ma l’appello rimane senza esito e ancora il 30 ottobre si invocano rinforzi… I ritardi nell’afflusso degli squadristi sono aggravati dal blocco ferroviario a Orte (di qui, la beffarda battuta «O Roma, o Orte!»).

A Monterotondo, altro obiettivo strategico da cui muovere alla volta della capitale, le camicie nere sono poche e prive addirittura del loro comandante, il gen. Fara, che le raggiungerà nel pomeriggio del 29.

Come ciò non bastasse, sulle colonne scendono raffiche di pioggia, col freddo del primo autunno.

Realtà periferiche (ad es. Udine) conseguono gli obiettivi prefissi, ma non riescono a informarne Perugia, per dissesti tecnici. 

I piani prestabiliti, saltano. Al mattino del 29 ottobre, De Bono invia un messaggio al magg. Teruzzi, ispettore generale della 5a zona, non ancora partito con i suoi uomini «per i luoghi di concentramento»: viene sollecitato a rispettare i programmi, «tanto più che per ora pare che il generale Fara non abbia potuto raggiungere Monterotondo». La tabella di marcia di Teruzzi – reduce di guerra e veterano della lotta «antisovversiva» – è problematica, poiché «la linea fra Orte e Roma è rotta in due punti».

L’Ispettorato della 7ª zona, la sera del 29 ottobre è impantanato a S. Marinella con 2.413 camicie nere. Il rapporto inviato a Perugia da Dino Perrone Compagni (comandante della colonna «Lamarmora») è deprimente: 

Mancano acqua, viveri, denari. 

Il regio Esercito ha tolto parte di ferrovia fra Civitavecchia e S. Marinella. Alcuni ferrovieri informano che tale atto è stato compiuto in altre località.

Dalle 16 ad ora [h. 21] non sono passati che due treni sul percorso S- Marinella-Roma e viceversa, completamente vuoti.

Impossibile il collegamento con codesto superiore Comando. Da Perugia a qui con macchina 510 spinta Fiat, abbiamo messo nove ore.

L’efficienza dei reparti paramilitari, le comunicazioni Perugia-comandi locali e la rispondenza alle direttive centrali sono deficitarie (si evidenziano le conseguenze della scelta di una località come Perugia, isolata dalle principali reti di comunicazione). 

Senza la resa dei liberali, le colonne mai raggiungerebbero Roma. 

Ma non per questo si può dire che abbiano fallito. Anzi: la pur deficitaria mobilitazione pesa in modo determinante nell’ottenimento della vittoria politica.

Le linee ferroviarie verranno gradualmente riattivate dopo l’annullamento dello Stato d’assedio, a partire dal pomeriggio del 29 ottobre, ovvero dopo la resa liberale a Mussolini. 

Il quadrumvirato può lasciare da trionfatore Perugia e trasferirsi a Tivoli, per meglio coordinare l’afflusso nella capitale, dove poi Balbo, Bianchi, De Bono e Devecchi entreranno da padroni.

 Verso il cambio di regime

Si avvia a ingloriosa conclusione la prolungata agonia del gabinetto Facta, assediato da una realtà che non controlla e sempre sull’orlo dell’implosione per l’inconciliabilità di ministri filofascisti (di Scalea, Schanzer, Riccio) e antifascisti (Alessio, Amendola, Taddei).

Il presidente del Consiglio alterna momenti in cui si descrive come il gregario pronto a cedere il posto a Giolitti, e momenti in cui vorrebbe avvinghiarsi al potere cooptando i fascisti…

Il 27 ottobre, il «Corriere della Sera» titola il Ministero Facta è finito: «La crisi extraparlamentare s’impone. Gli struzzi sono obbligati ad alzare il capo dalla sabbia», e auspica una coalizione imperniata sui fascisti. A Roma, nel frattempo, si predispongono misure difensive. Come si ricorderà, la sera del 27 il ministro dell’Interno aveva ordinato al Comando della Divisione l’interruzione della ferrovia a Civitavecchia, Orte, Sezze e Avezzano, bloccando i treni di camicie nere.

Il governo chiede al sovrano la proclamazione dello Stato d’assedio. 

Data per scontata l’approvazione del re, tra le 6 e le 7 del 28 ottobre viene ordinato alle autorità militari (gen. Pugliese in primis) e ai prefetti la repressione dell’insurrezione e l’arresto dei suoi capi. 

L’entrata in vigore del provvedimento è fissata per mezzogiorno e già alle 9 vengono affissi nella capitale i manifesti murali. Contemporaneamente Facta si reca da Vittorio Emanuele, che però decide di non firmare il proclama.

 Per decenni gli storici s’interrogheranno sul «voltafaccia», individuandone di volta in volta le motivazioni in pressioni di alti ufficiali, in trame massoniche, nella paura di Vittorio Emanuele di ritrovarsi esautorato dal duca d’Aosta, in un ripensamento del tremebondo Facta…

A mezzogiorno, giunge l’annullamento dello stato d’assedio e degli ordini di arresto dei capi fascisti.

 Il fascismo, dunque, ha prevalso.

Uscito definitivamente di scena Facta (diverrà poi senatore su designazione del duce) il re avvia le consultazioni per l’individuazione del successore. I «papabili» sono Orlando o Salandra, ma Mussolini non si lascia imbrigliare in soluzioni compromissorie: confida ai collaboratori che non era certo il caso di mobilitare decine di migliaia di camicie nere per riesumare cariatidi liberali: vuol consolidare la vittoria e trasformarla in trionfo.

Nell’editoriale per «Il Popolo d’Italia» dell’indomani, Mussolini presenta il fascismo come il padrone dell’Italia ed esclude soluzioni compromissorie:

“Comprendano gli uomini di Roma che è ora di finirla coi vieti formalismi mille volte, e in occasioni meno gravi, calpestati. 

Comprendano che sino a questo momento la soluzione della crisi può attenersi rimanendo ancora nell’ambito della più ortodossa costituzionalità, ma che domani sarà forse troppo tardi.

L’incoscienza di certi politici di Roma oscilla tra il grottesco e la fatalità. 

Si decidano! Il fascismo vuole il potere e lo avrà!”

L’articolo esagera la potenza militare delle camicie nere, ma la vittoria fascista è evidente, come pure lo sfacelo di ogni altra forza politica. 

Dopo Facta, anche Salandra deve rassegnarsi al fallimento: alle 10 del 29 ottobre, si reca da Vittorio Emanuele e rinunzia al mandato. 

Giolitti, nemmeno riesce ad entrare in scena.

Le sinistre, come si è visto, sono fuori gioco, frastornate e perseguitate da squadristi e apparato repressivo statale. 

I socialisti nemmeno provano ad abbozzare una contro-mobilitazione. Sono alla mercé di una corrente ostile, che li rende spettatori di una politica ondeggiante tra la soluzione Giolitti-Orlando piuttosto che Salandra-Mussolini o un’involuzione reazionaria cui non potrebbero opporsi.

Con fatalismo, il 27 ottobre l’«Avanti!» prospetta «una violenta sterzata a destra», a (provvisoria) conclusione della lunga crisi del dopoguerra:

 «Anche in Italia avremo, dopo il tentativo fallito di uscire dalla crisi del dopo-guerra con una politica di Sinistra, il tentativo di una soluzione di Destra, governo di reazione all’interno, di aggressività all’estero».

 Magra consolazione, la ribadita certezza «che non si governa stabilmente contro le classi lavoratrici, contro il Socialismo, forza indistruttibile dell’avvenire».

L’indomani, il quotidiano socialista annuncia «la crisi di regime», con il «conflitto fra lo Stato e il fascismo». 

Ma reputa che, nonostante la mobilitazione squadrista, «l’ipotesi più logica appare quella di un fraterno embrassons-nous fra tutti i gruppi conservatori, sotto gli auspici di Salandra o di Giolitti per un Governo che assorba il fascismo e lo renda compartecipe della responsabilità del potere».

Analisi fuori bersaglio, di chi sa di essere finito su un binario morto. 

Quel 28 ottobre, per l’ennesima volta la furia squadrista distrugge la redazione del quotidiano socialista, che per oltre due settimane non uscirà. 

I comunisti, concentrati sull’imminente IV congresso del Komintern (Bombacci, Bordiga, Gramsci, Longo, Ravera, Tasca stanno partendo per Mosca), sono accecati da una deriva dogmatico-ideologica che fa loro intravedere la sceneggiata all’italiana, in cui «tutto si ridurrà a un accordo per divisione di posti tra i due gruppi borghesi in conflitto», poiché «una crisi del movimento fascista è ormai in atto», e «ci penserà il cavaliere Giovanni Giolitti a dimostrare che tutto si riduce alla ingordigia di un gruppo che non è ancora capace di una precisa valutazione delle forze sue ed altrui».

La scelta attesista è spiegata su «l’Ordine Nuovo» del 28 ottobre nella «sorda lotta» tra liberali e fascisti, «il proletariato non può parteggiare: esso non può oggi che attendere lo svolgersi degli avvenimenti». 

Il Partito comunista d’Italia – Sezione dell’Internazionale Comunista predispone il manifesto su Il compito del proletariato nell’ora presente, che oppone alla «crisi di governo della borghesia» la ricostituzione dell’Alleanza del Lavoro (l’organismo intersindacale artefice del fallimentare sciopero legalitario d’inizio agosto) e «l’immediata proclamazione dello sciopero generale nazionale». La proposta è diramata da «l’Ordine Nuovo» del 29 ottobre: quella notte, redazione e tipografia del quotidiano torinese vengono devastate (dopo una settimana, il giornale ricomparirà, ma in forma clandestina e ridotto a un ciclostilato di un solo foglio). 

A confermare la profondità delle divisioni a sinistra, nonostante gli squadristi colpiscano equamente rivoluzionari e riformisti, il Comitato esecutivo della Confederazione generale del lavoro respinge sdegnatamente l’ipotesi dello sciopero antifascista.

 Per comprendere appieno la posizione dell’organismo sindacale, si consideri che uno dei suoi massimi dirigenti, il deputato social-riformista Gino Baldesi spera di entrare nel costituendo governo, addirittura come ministro del Lavoro. Mussolini dapprima lo accetterebbe (poiché la manovra isolerebbe vieppiù i socialisti), ma poi si piega al veto dei nazionalisti e di molti tra i suoi stessi seguaci, che considererebbero un tradimento della Rivoluzione un ministro socialista.

E il volenteroso social-collaborazionista Baldesi, rimane fuori.

La sinistra, è dunque ininfluente – e più che mai lacerata al suo interno – dinanzi agli eventi culminati nell’offensiva fascista di fine ottobre e nella conquista del potere da parte di Benito Mussolini. 

(L’ultima puntata uscirà venerdì 4 novembre in edicola)

 

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