INEDITO – L’AMICO D’INFANZIA DI SEMONTE LA PRIMA VERA SCALATA DI WALTER BONATTI

    387
    © Riproduzione riservata Walter Bonati
    © Riproduzione riservata

    INEDITO – L’AMICO D’INFANZIA DI SEMONTE LA PRIMA VERA SCALATA DI WALTER BONATTI

    Il giorno in cui, Walter ed io scalammo la Corna Brèssa per arrivare al nido della poiana

    Dino Perolari, classe 1932. Sono io. Che provo a raccontare Walter, per come l’ho conosciuto io, un mucchio di anni fa. Frequentando elementari e medie presso le suore di Gazzaniga ebbi modo d’incontrare nel 1944 Walter Bonatti. La sua famiglia era sfollata da Monza, zona troppo vicina alle acciaierie FALK,  bersaglio di bombardamenti, e si era rifugiata a Semonte presso una sorella della mamma, residente a pochi passi da noi. La zia di Walter era sposata ad un Gusmini e già in precedenza aveva ospitato per tre anni i Bonatti. Walter aveva due fratelli più grandi di lui, una sorellina l’aveva persa piccolissima, a Semonte, a causa della difterite, ol mal del gropp. Non usufruendo del convitto, io stavo in collegio solo per l’orario scolastico, lui invece tornava a Semonte dalla madre solo il sabato pomeriggio per poi rientrare al lunedì. Quindi le nostre “birichinate” avvenivano solo di sabato e domenica, anche se Walter era tutt’altro che un birichino, corretto ed educato com’era. Leggeva di tutto, molti libri di avventura, era un bravo scolaro. Un sabato pomeriggio mi disse di aver letto che gli alpinisti scalano montagne e pareti ripide usando chiodi, forse già covava quello spirito alpinistico con cui poi contagiò anche me.  

    Walter Bonatti © Riproduzione riservata

    Sulla cima della montagnetta chiamata Cloca c’era una croce alta sette metri e Walter mi disse che la voleva scalare. Mio zio Pierì, che faceva il muratore, aveva dei chiodi da carpentieri del tipo quadro e lungo. Porgendogli i chiodi, raccomandavo a Walter di non fare sciocchezze, ma lui mi rassicurava: “Dai, vieni, vedrai che bello!”. Guadagnammo il cucuzzolo di nascosto, ai piedi della croce mi fece mettere carponi in modo da salirmi in groppa. Piantò il primo chiodo poi si tirò su, ne piantò un altro e cosi via fino in cima. Voleva che lo raggiungessi al che mi rifiutai. Allora ridiscese e recuperando i chiodi tutto raggiante diceva: “Hai visto che bello?”. Restituimmo i chiodi mentre mi chiedevo che cosa ci fosse di tanto bello nell’arrampicarsi su una croce… Walter Bonatti 

    Un giorno Walter scoprì che in Corna Brèssa aveva nidificato l’agla, la poiana. Cercai di frenare il suo entusiasmo dicendogli – Ma ’nventèn piò!, ma una domenica mattina, partendo da Orezzo, lasciammo Piazzöi per infilare la Val de Brü fin sotto il Crap per ammirare quel bel paretone. Walter iniziò a salire e ad un certo punto dall’alto disse: “Dovrebbe essere qui sotto”.

    Ridiscese e con una minuscola accetta smussò dei piccoli cunei di legno. Mentre continuavo a dirgli il mio dissenso, piantò con un sasso i cunei nella fenditura fino a raggiungere il nido, di nuovo mi invitò a salire e allora lo raggiunsi per vedere le uova nel nido. Dopo 15 giorni tornammo e trovammo i pulcini. Ho ancora nel naso, nitido, l’odore nauseabondo di carogna dei resti di vipere e bisce in putrefazione…

    Era ancora tempo di guerra, tanti giovani erano arruolati, quindi il prevosto organizzò una gita-pellegrinaggio per chiedere l’intercessione della Madonna per tutta la gioventù sotto le armi. Mèta il santuario della Madonna d’Erbia sul monte Farno. Partimmo a piedi da Semonte, tutti ragazzini intorno ai 12 o 13 anni mentre Walter ne aveva 14.

    Visto il nostro abbondante anticipo sul resto del gruppo decidemmo di raggiungere la sommità del pizzo Formico in attesa che tutti raggiungessero il santuario.

    In vetta estrassi i miei due panini perché nello zaino avevo anche ol scartussi con colazione di Walter. Cercai l’amico, lo chiamai, ma non mi rispose. Guardai con preoccupazione i ripidissimi canaloni che dalla cima scendono a strapiombo e mentre nel mio animo si facevano largo tragici dubbi, dall’alto una voce mi chiamò: “Dinooooo!”. Era Walter, appollaiato in cima all’enorme croce. Lui era così, doveva salire ogni cosa che si ergesse, doveva toccarne la punta e avere solo cielo sopra di lui.

    La parrocchia di Semonte possedeva un campo chiamato ’l cap di pagn ovvero il campo dei panni. Ora vi sorge un condominio,  ma ai tempi le donne i cüràa,  vi stendevano le lenzuola ad asciugare. Per la rabbia delle massaie in quel campo giocavamo pure al pallone e non di rado la palla finiva sul bucato steso, ma pur di giocare eravamo disposti a sfidare le ire delle signore. Nella contrada i ragazzi erano pochi e spesso non era facile radunare tutti gli elementi per formare due squadre per un campo a sette; così chiedevamo a Walter di  completare il team, ma lui di calcio non ne voleva sapere. “Non mi piace” – diceva, si spostava da solo su di un angolo erboso e cominciava a fare salti mortali, in avanti  e poi indietro, fermandosi sempre dritto in piedi. Insomma faceva esercizi ginnici a non finire.

    Ma il colmo era un altro: per raggiungere il campo dei panni lui percorreva la stradina che portava alle fontane laàndere (non era ancora il tempo delle lavatrici e l’acqua corrente in casa non l’aveva nessuno). Il lavatoio era coperto da una tettoia. Walter si avvicinava chiedendo scusa alle signore, si arrampicava al piantone di sostegno per raggiungere un tubo metallico che correva per un centinaio di metri sotto la copertura. Vi si appendeva e con bracciate e movimenti ben coordinati andava avanti e indietro.  Poi scendeva, scioglieva i muscoli delle braccia e riprendeva a far flessioni da fermo e, raggiunto il riscaldamento ottimale, continuava gli esercizi con un braccio solo, esercizi che si inventava o aveva letto qualche libro.

    Anche a scuola, dalle suore, era imbattibile. Ci sfidavamo sulle pertiche o sulla corda, e anche per me che mi ritenevo un gatto non c’era paragone: lui era insuperabile, in un batter d’occhio era in cima pur non essendo un esibizionista, da lui non ho mai sentito una parola di discredito verso chicchessia. E ancora: andavamo spesso a nuotare al Serio, dove si era formata il Puzzù, una pozza grande. Noi non osavamo avvicinarci perché vi erano già annegati due ragazzi; lui  invece era come un’anguilla, due bracciate ed era sulla sponda opposta. Di Walter mi ha sempre impressionato la precisione. Non faceva nulla se prima non l’aveva studiata, ogni mossa era ragionata, mai azzardata. Walter Bonatti 

    Finita la guerra, la famiglia Bonatti tornò a Monza e laggiù prese a frequentare l’associazione sportiva “Forti e liberi”. Pochi sanno che Walter fu un ginnasta di primordine. Siccome a sedici anni era il migliore della “Forti e liberi”, sotto sotto sperò di essere ammesso almeno alle selezioni dei P.O per le Olimpiadi del 1956. cosa che mi confessò da adulto. Salvador, uno degli allenatori, mi raccontava che la struttura dove si allenavano i ginnasti era cinta da mura con finte mattonelle stilizzate e che i ragazzi prima di entrare facevano le sfide a chi riusciva a percorrerle a mò di arrampicata con l’uso delle punte delle dita; e Walter era il solo che riusciva a fare andata e ritorno. Poiché alla scarsità di lavoro si aggiungeva il veto d’impiego prima dei 18 anni, Walter occupava il tempo frequentando le pareti della Grigna, arrampicate che iniziarono con una preparazione atletica eccezionale.

    In quel periodo io mi ero avvicinato al mondo del ping-pong e con Bepi Benaglia andavo a Milano con la sua Topolino. Dal parcheggio prendemmo il tram e lì casualmente incontra il mio amico d’infanzia. Mentre lo salutavo sentivo un continuo clik clak. Era Walter che allenava le mani con quelle molle da stringere, anche in tram continuava l’allenamento perché lui non lasciava mai niente al caso! Certamente sapeva che l’imponderabile era sempre in agguato, ma cercava di prevedere ogni eventualità.

    Dopo i sei mesi come allievo andai ad Aosta a fare l’istruttore e così ci ritrovammo alla Scuola Alpina di Aosta. Dal castello Duca Degli Abruzzi  si arrampicava in palestra con il capitano, poi generale Peironel. Lo stesso Peironel che in seguito fu incaricato di vagliare le venti candidature per la spedizione al K2, selezionandone undici ed alimentando la disputa sull’eliminazione di Cassin con quella scusa stupida del “mal di cuore”. Con Walter ci ritrovammo a Bergamo nel 1957, quando gli assegnarono il premio dell’atleta dell’anno, da allora continuammo a mantenere contatti. Dopo la salita alla Nord del Cervino nel ’65, decise di  lasciare l’arrampicata per dedicarsi alle spedizioni in ogni angolo del mondo come inviato di “Epoca”.  Walter aveva perso la madre dopo la salita al Grand Capucin: mentre lo premiavano al teatro di Monza, lei presenziava in prima fila,  per l’emozione era caduta a terra e non c’era stato nulla da fare. Il padre, rimasto solo, gestì per sei o sette anni il rifugio Porta sulla Grigna, poi si ritirò a Monza.  Le lunghe attese del figlio le passava sempre solo, in una casa vecchia, fatiscente e senza bagno. Divideva lo stesso piano con altre due o tre signore, e forse quella era tutta la sua famiglia. Walter Bonatti 

    Aveva quasi ottant’anni, camminava con il bastone, oltre agli acciacchi dell’età soffriva di diabete, ci vedeva poco, perciò quando per lavoro transitavo per Milano, Seregno o Monza passavo sempre da lui anche solo per chiedergli di cosa necessitava e per lui ero come un secondo figlio. Un bel giorno mi telefona Walter dicendomi: “Dino, ho bisogno di parlarti”.  – Cosa gh’et“Ho parlato con papà, non vuol saperne di essere ricoverato”. A Monza c’erano tre o quattro case di cura per anziani, non c’erano problemi per una sistemazione, anzi,  ospitare il padre di Walter Bonatti era sicuramente motivo di orgoglio. Ma niente da fare! L’alpinista era appena tornato da una delle prime spedizioni e mi confessò:  “Un’ora fa papà mi ha detto che gli sta bene per il ricovero, ma non a Monza, vuole venire su vicino a te, alla Casa Serena di Semonte” (la struttura che ora si chiama “Cardinal Gusmini”). Quindi, mi chiese di attivarmi per accontentarlo. Conoscevo il sindaco Rapetti, gli spiegai la situazione.

    Allora la casa era molto più piccola e riservata solo ai cittadini di Vertova. Però con un escamotage, facendolo passare come parente, due giorni dopo lo accolsero e lì il papà di Walter rimase per quasi cinque anni. Quando mori e fu sepolto nel cimitero di Semonte, dove restò fino a quando Walter sposò Giulia, perché fu lei a voler riunire mamma, papà e  sorellina nel cimitero di Vertova. Il matrimonio con Giulia durò 18 o 19 mesi. Anche allora ero stato un buon profeta: quando Giulia mi aveva telefonato pregandomi di recarmi in comune a Bergamo per la documentazione necessaria per sposarsi con Walter, le avevo detto: “Madora, Giulia, vi sposate? Ma se voi due non state assieme neppure legati col filo di ferro!”. E avevo ragione, perché lei aveva un caratterino tutto fuoco e scintille, parlava sette lingue (Walter infatti al momento delle nozze mi chiese con ironia: “Ma sposo una sola donna o sei donne contemporaneamente?”), proveniva da un casato importante, tutto il contrario di Rossana, persona dolce e accomodante, forse perché era un’attrice e riusciva ad adattarsi, ad adeguarsi….  

    Con Walter continuammo a vederci. Varie volte mi spronò perché riprendessi ad andare in montagna: “Vieni una volta in spedizione, riprendi ad allenarti”. Ma quando mi ero sposato avevo promesso a mia moglie che non sarei mai più andato a rampà, ad arrampicare, ma siccome l’idea delle spedizioni non mi dispiaceva, costrinsi Walter a parlarne direttamente con Bianca, mia moglie, appunto: se lei avesse acconsentito, avrei ripreso ad allenarmi. Così una sera Walter venne a cena, noi a Semonte avevamo una casa grande con una stanza riservata a lui, che lasciava sempre in perfetto ordine e col letto rifatto, cosa da cui Bianca prendeva spunto per darmi del disordinato. Quella sera Walter fu tanto convincente da strappare a mia moglie il benestare. Così iniziai ad allenarmi per andare in Patagonia e Perù frequentando la Grigna, la Presolana, l’Alben, ma in quel periodo alla mia ditta arrivò una quantità enorme di commesse. Walter Bonatti 

    La nostra attività era stata avviata da mio nonno, morto nel ’43, e ripresa da mio padre con uno zio, morto anch’egli prematuramente. Erano partiti con un’officinetta a livello artigianale, poi l’attività era cresciuta, ed io ero anche il responsabile della clientela, come potevo assentarmi per due mesi? Non avevo mai fatto ferie, mi scervellavo nel dilemma e mancavano solo venti di giorni alla partenza… Alla fine decisi e chiamai Walter: – Non vengo. – “Cosa? – mi rispose -. Due giorni prima mi aveva dettato per telefono la nota delle vaccinazioni necessarie e un paio di iniezioni le avevo già fatte. Però, prima di disdire del tutto, mi ero premunito, la sera precedente alla disdetta ero andato da Lino Messina, che non si dedicava all’arrampicata ma era sempre in giro per monti. –Lino – gli avevo detto –  ho bisogno di un favore, andresti nelle Ande con Walter al mio posto? “Certo, ci andrei al volo!”. Vedendo la sua euforia mi diedi ripetutamente del bambo, e  Lino andò al mio posto pur non essendo molto allenato né pronto per le quote elevate.

    Al rientro Bonatti mi confessò le difficoltà di Lino: gli era molto dispiaciuto lasciarlo a metà,  ma l’impreparazione aveva impedito a Messina di arrivare in vetta. Walter del resto non aveva digerito facilmente il mio ritiro, se l’era presa e perciò stette un bel po’ senza telefonarmi. In seguito però riprendemmo a fare ancora salite assieme.

    Dino Perolari

    Walter, Leone, Carlo e Placido i “miti” dell’alpinismo bergamasco

    La fama del grande alpinista mi arrivò direttamente dalla voce di Placido Piantoni, mio primo istruttore ai corsi di arrampicata. Fu lui a raccontarmi dell’impresa del 23 settembre del 1963 quando con Carlo Nembrini realizzò la prima ripetizione della Via Diretta Bonatti, aperta sulla parete Sud Ovest del Trident du Tacul con difficoltà ED fino al VI° e A3.  Con questa eroica immagine stampata in mente vidi per la prima volta Walter Bonatti al rifugio Torino al Monte Bianco. Patrizio Merelli e Placido Piantoni si soffermarono,  quali amici di vecchia data, a parlare in dialetto con lui. Lo spettacolo di quelle vedute d’alta quota non mi tolse il respiro come la presenza del… Mito: riuscii a salutarlo solo con un cenno del capo, incapace di proferir parola.

    Ebbi la stessa reazione nell’estate del 1977 quando lo rividi a Colere. Quel giorno insignirono del Cavalierato Placido Piantoni, poco prima che ci lasciasse per un male incurabile. Con il passare degli anni continuai a leggere ogni cosa che riguardasse Bonatti e che lui stesso scriveva.

    Per lavoro vivevo in Valtellina: venni a conoscenza che Bonatti e Podestà si erano trasferiti a Dubino e che lì si erano circondati di amicizie più o meno importanti, tra cui il mio datore di lavoro e un collega pilota. Così me lo ritrovai dinnanzi in un alpeggio della Val Chiavenna. Riuscii a biascicare un buon giorno patetico, però pranzammo assieme. Era di una semplicità disarmante e piacevole, pur  nella sua scarsa loquacità. Solo al terzo incontro in terra valtellinese riuscii a dichiarargli la mia provenienza, a rammentargli gli incontri precedenti ed a sentirmi  meno lontano da lui. Mi rispose con qualche frase in bergamasco ed  accarezzò dolorosamente la memoria di Pelliccioli, Nembrini, Piantoni. Mentre discorrevamo mi sentivo al settimo cielo: stavo parlando con la storia delle Alpi, con le sue esperienze più tragiche, con un esploratore, scrittore, giornalista, con una persona grande e famosa che però trattava tutti allo stesso modo, forse perché stando in cima alle vette aveva imparato a non guardare mai nessuno dall’alto verso il basso….  

    Poi, quando Walter ci aveva già lasciato, arrivarono le parole di Dino Perolari, che mi diedero di Walter un’ulteriore immagine, umanissima ed inedita, testimoniandone l’ appartenenza al suolo bergamasco con un legame indissolubile. E così ritrovai anche l’inizio di quella storia di rocce e vette, di vittorie e sconfitte, di gloria e di solitudine  che mi ha appassionato ed accompagnato fino ad oggi.

    Eugenio Piffari          

    Walter Bonatti e Rossana Podestà vietata la riproduzione

    La scalata più importante: la conquista di Rossana

    Aristea Canini

    Un amore di quelli da scalare. Un’emozione più forte e intensa del K2, che quelle sono cime, sono vette. Ma l’amore è infinito. Walter Bonatti e Rossana Podestà. Lui bello e tenebroso, sognatore quanto basta ma concreto quando serve. Lei, Rossana, la rosa del deserto, nata vicino al Sahara, diva del cinema, una diva insolita, che non amava troppi i riflettori ma amava l’amore. Lei, con incollato addosso il glamour ‘carnale’ dell’attrice più bella e sensuale dell’epoca, incoronata dopo il film ‘La rete’ e “I Sette uomini d’oro. Lei che dopo la separazione dal marito lo nominava chiamandolo solo per cognome. Lei che la sua storia d’amore con Walter la comincia a maggio del 1981, ma lui… non lo sa. Ancora non lo sa. In quei giorni Rossana in un’intervista dice che se si fosse trovata su un’isola deserta avrebbe voluto con lei solo Walter Bonatti. I due non si conoscono. Lui in quel momento, almeno da quello che racconta Rossana aveva almeno altre cinque ragazze, ma se ne frega e le risponde: “Quando partiamo?”, lei legge la sua domanda sul giornale e lo chiama, lui è spiazzato: “Ottobre”. Lei si arrabbia, troppo tempo, vuol dire che non gliene frega niente, lui tenta di recuperare: “Forse posso a settembre”. Mette giù e si decide, la richiama: “Dopodomani”. Non voleva farsi pregare spiegherà tempo dopo, aveva solo paura di non essere all’altezza: “Pensava che come attrice – spiegò Rossana Podestà in un’intervista – dovessi avere chissà quale tenore di vita ed era preoccupato di dovermi portare fuori a pranzo in un bel posto”.

    Walter Bonatti e Rossana Podestà vietata la riproduzione

    Ci siamo. Appuntamento a Roma, il giorno della festa della Repubblica, alle 11, all’Ara Coeli. Lei c’è. Lui no. Lei aspetta. Lui non arriva. Non si fa vedere. Questo è quello che pensa Rossana. Ma lo pensa anche lui. Da un’altra parte. All’Altare della Patria, a pochi metri ma sul lato sbagliato, e parcheggiato addirittura in uno spazio riservato alla Presidenza della repubblica. Tutti e due incazzati. Per lo stesso motivo. Ma su angoli diversi. Alle fine lei gira l’angolo e se lo trova davanti: “E tu saresti un esploratore? A Roma non sai trovare l’Ara Coeli? Ma se non mi trovi, almeno cercami”. Ghiaccio rotto. Lui incassa. Salgono in auto, direzione ristorante in Piazza del Popolo, lui guida tenendo il volante con un dito della mano. Lei pensa. “Non sapevo avesse perso le altre in qualche ghiacciaio”. Le mani non hanno nulla. Ma è lui che guida quasi rannicchiato e girato verso di lei: “Ero incantato”, disse qualche tempo dopo. Escono dal ristorante: “Non ci siamo più lasciati”. Insieme vanno dappertutto. Alaska, Patagonia, Polinesia e poi costruiscono il loro nido d’amore a Dubino, in mezzo alla Valtellina, una casa di pietra, costruita da Walter che a forza di sollevare pietre viene operato alla spina dorsale: “Andavamo in posti assolutamente selvaggi, meravigliosi, irraggiungibili, ma anche scomodi, e impervi, per cui tornavamo sempre volentieri nella nostra casa in Valtellina che amavamo tantissimo.

    Dopo le nostre rispettive separazioni eravamo senza casa, lui a Milano e io a Roma, avevamo lasciato la casa al compagno. Convinti di trovare un luogo dove vivere, girammo a lungo, anche se non volevamo allontanarci troppo da Milano, una città per lui importante, dove aveva la sua casa editrice. E’ stata la casa a scegliere noi, una costruzione del ‘600 in Valtellina vicina al bosco, con un monte accanto bellissimo, era il nostro piccolo Everest. Walter e Rossana, un amore di quelli che vanno oltre tutto, lei attrice ribelle e bellissima, famosissima ma che: “Fare l’attrice non mi dava vita, e io cercavo vita”. Lei che quando lui sta male viene cacciata dalla rianimazione perché non è la moglie, lei che racconta,dopo che lui è morto, che di notte allunga sempre il piede verso la metà del letto ormai vuoto a cercare le gambe di Walter per scaldarsi in mezzo il suo piede gelato. Lei che quando lui muore decide di non sopravvivere ma di vivere, come ha ripetuto per anni, ‘però è tutto diverso’. Walter Bonatti 

    a cronaca della sua scomparsa è conosciuta, anche per le polemiche che ha suscitato. All’ospedale in cui è ricoverato, Walter non ha accanto Rossana negli ultimi istanti, perché lei non ha diritto di stare al suo capezzale: non si sono mai sposati. Come ricorda lei “gli è stato negato il diritto di andarsene con qualcuno che ti tiene la mano e ti dice che non sei solo, che non lo sarai mai”. Le concedono poi di vedere il suo corpo, e senza una sola altra parola le chiedono: “Bonatti si scrive con una o due t?”. Resta per lei il conforto consapevole di una scelta decisiva: esploso il male, e prevista una inesorabile rapida fine, Rossana ha fatto in modo che Walter non percepisse la gravità della sua condizione. Ma c’è anche una disperazione, a cui lei dà sfogo in Una vita libera: “Lui aveva fiducia in me. Dovevo riuscire a non sbagliare”. Invece quando se ne va, lei non c’è: “E’ morto solo. Io non posso perdonarmi il modo in cui Walter ha lasciato la vita. Ero così orgogliosa di essere riuscita a portarlo verso la fine così sereno e sono disperata ora per non essere riuscita a rendergli la morte degna e dolce come lui si meritava e come io volevo con tutta la mia anima”. Walter e Rossana, che qui l’alpinismo c’entra poco. Altre vette. Altre cime. Paradisi infiniti dove perdersi ogni volta per il gusto di continuare a cercarsi. Sempre.

    SCHEDA

    Walter Bonatti (Bergamo 22 giugno 1930-Roma 13 settembre 2011) è stato uno dei più grandi alpinisti ed esploratori. Era soprannominato “il re delle Alpi”. Oltre che alpinista e guida alpina, è stato autore di molti libri e numerosi reportage per il settimanale Epoca. Ha scalato e aperto vie sulle montagne più importanti del mondo. Nel 1954 partecipa alla spedizione italiana capitanata da Ardito Desio, che porterà Achille Compagnoni e Lino Lacedelli sulla cima del K2, con i suoi 24 anni è il più giovane della spedizione. Il giorno prima che Lacedelli e Compagnoni raggiungano la vetta, Walter Bonatti scende dall’ottavo campo verso il settimo per recuperare le bombole d’ossigeno. Con questo carico sulle spalle, insieme ad Amir Mahdi fi no all’ottavo campo e di lì, fi no al luogo in cui Compagnoni e Lacedelli avrebbero dovuto allestire il nono campo. I due però non allestiscono il campo dov’era stato previsto la sera prima, ma lo fi ssano circa 250 metri di dislivello più in alto. Bonatti e Mahdi riescono ad arrivare nei pressi del luogo concordato poco prima del tramonto, ma non vengono aiutati da Compagnoni e Lacedelli, che da lontano gli dicono di lasciare l’ossigeno e tornare indietro. Cosa impossibile, visto il buio che incombe, l’enorme sforzo che già hanno sostenuto i due dalle prime ore del giorno. Bonatti e Mahdi si ritrovano soli a dover affrontare una notte all’addiaccio nella “zona della morte” con temperature stimate intorno ai -50 °C, senza tenda, sacco a pelo o altro mezzo per potersi riparare. Solo alle prime luci dell’alba possono ritornare verso il campo 8, dove giungono in mattinata; Mahdi riporta seri congelamenti alle mani ed ai piedi, ed in seguito subisce l’amputazione di alcune dita. Bonatti rimase talmente deluso dall’atteggiamento dei suoi compagni da prediligere da allora in poi imprese alpinistiche condotte prevalentemente in solitaria. La verità verrà a galla dopo molti anni. Intanto Bonatti nel 1955, a metà agosto, in sei giorni scala in solitaria il pilastro sud-ovest del Petit Dru, nel gruppo del Bianco: è considerata un’impresa che segna una tappa indimenticabile nella storia dell’alpinismo. Il 9 marzo 1961 Bonatti realizza la prima invernale della Via della Sentinella Rossa sul versante della Brenva del Monte Bianco. Nel 1958 Bonatti partecipa alla spedizione nella regione himalayana del Karakorum diretta da Riccardo Cassin. Assieme con Mauri il 6 agosto raggiunge la vetta del Gasherbrum IV (7.925 m) senza servirsi di bombole d’ossigeno. Nel 1959 si susseguono numerose scalate sia in Italia che in Francia. Nel maggio del 1961 si sposta nelle Ande peruviane, sulla Cordigliera Huayhuash, dove completa la prima ascensione al Nevado Rondoy Norte con Oggioni. E poi molte altre imprese tra cui quella del Cervino, che gli vale la Medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica, A soli 35 anni, Bonatti si ritira dall’alpinismo estremo. È morto nella notte tra il 13 e il 14 settembre 2011 a 81 anni stroncato da un tumore al pancreas. Walter Bonatti 

    © Riproduzione riservata
    pubblicità