Reportage
Curdi, il popolo senza Patria
Giorgio Fornoni in Kurdistan: “Bambini senza gambe, bombe, un popolo in fuga”
di Aristea Canini
Giorgio Fornoni le pallottole le ha sentite fischiare, un fischio vicino, di quelli che ti sfiorano il viso e nemmeno ti accorgi di essere stato fortunato a non andare in cielo, di tempo non ne hai, il tempo lì non c’è, c’è solo una corsa contro tutto e tutti, per schivare pallottole, sopravvivere, raccontare, fuggire. In questi giorni del popolo curdo ne stanno parlando tutti, ma pochissimi in mezzo a quella gente ci sono stati davvero, uno di questi pochissimi è Giorgio Fornoni, che in Kurdistan ci è stato tre volte, in mezzo a questo popolo che lui ha definito ‘senza patria’. Ci ha portato decine e decine di pagine, documenti, foto (alcune troppo crude per poter essere pubblicate), volti, parole, diari scritti in arabo di chi quella follia la vive ogni giorno. Giorgio ha documentato, raccolto, raccontato, rischiando la vita, mettendoci il cuore. Come fa sempre: «Penso spesso al popolo curdo, oggi arruolato come fronte anti-Assad dalle potenze occidentali – racconta Giorgio – ne ho conosciuto il dramma, l’aspirazione ad essere nazione indipendente. Ne avevo fatto un reportage, descrivendolo come un “popolo senza patria”.
Oggi 30 milioni di curdi si trovano divisi tra Turchia, Iraq, Iran e Siria, sono diventati le pedine di un gioco a scacchi molto più ampio e il loro sogno si allontana sempre di più, travolto dai vari interessi contrapposti». In queste pagine il racconto di Giorgio Fornoni in mezzo al popolo curdo, un reportage che ci porta dritti in mezzo al dramma di milioni di persone, senza fronzoli, senza dichiarazioni politiche, senza un sentito dire. Tutto in prima persona. Direttamente dal Kurdistan, fianco a fianco a un ‘popolo senza patria’.
Il paese che non esiste
di Giorgio Fornoni
Sono entrato per la terza volta nel “Paese che non esiste”, in Kurdistan, nell’agosto del 1997, non più come la volta precedente da Zakho ormai in mano ai soldati turchi e frontiera chiusa, ma attraversando in barcone il fiume che fa da confine tra Siria e Iraq.
Su un veicolo di “Emergency”, la Ong (Organizzazione non governativa) di Gino Strada che si è guadagnato il rispetto di tutti i curdi rimanendo sul posto mentre tutti gli altri se ne sono andati in seguito alla guerra civile tra Barzani (PDK) e Talabani (UPK).
Ho attraversato il territorio presidiato dal primo e sono finito a Sulamanya, caposaldo del secondo. Lungo il percorso, nei pressi di Zakho e quindi in pieno territorio iracheno, ho notato campi militari dell’esercito turco, posti di blocco ovunque, rassegnazione fatalistica nella gente. Kurdistan
Ho passato un po’ di giorni nell’oasi di pace che costituisce l’ospedale diretto da Gino Strada dove si rifugiano feriti di ogni genere, specialmente i colpiti dalle mine. Lì sono venuto a conoscenza di tante storie di orrori.
Ho conosciuto Razà, un piccolo pastore che, dopo aver peregrinato da un villaggio all’altro con i suoi genitori, è saltato un una mina che gli ha tranciato una gamba. “Mi ha portato qui a spalle mio padre. Dopo tante sofferenze, ora, con la protesi, posso di nuovo camminare. Ritornando al villaggio non voglio più fare il pastore perché potrei calpestare un’altra mina; mi piacerebbe andare a scuola oppure aprire un piccolo negozio…” Kurdistan
Ho conosciuto Soran, 13 anni, sfollato e pure lui mutilato da una mina. Con la gamba artificiale va zoppicando a scuola: frequenta la scuola secondaria. Piccole grandi storie di ordinaria sofferenza, purtroppo, qui in Iraq.
Una pace che non esiste
Su qualche mappa che non tiene conto della realpolitik di Turchia, Siria, Iran, Iraq, si legge ancora la parola Kurdistan. Ma i Curdi, 25 milioni di persone divise tra quattro nazionalità differenti, sono di fatto un popolo senza patria. E la strada che abbiano percorso diretti ad Erbil, nel cuore del Kurdistan irakeno, conduce in realtà verso una sola direzione: Baghdad.
La vocazione nomade dei Curdi, la loro struttura sociale arcaica e tribale non si possono conciliare con gli interessi economici e strategici di una regione dove sembrano concentrarsi ed esplodere tutte le contraddizioni del Medioriente.Il diritto all’autonomia del popolo curdo venne sancito già nel 1920, quando si tentò di disegnare il nuovo assetto geopolitico dell’Europa e del vicino Oriente sulle ceneri degli Imperi austro-ungarico e ottomano. Ma per quel fiero popolo di contadini e pastori, stretto tra le pianure mediorientali e le montagne della Turchia armena, iniziava allora un interminabile calvario. Una saga fatta di lutti, deportazioni, torture è ancora di estrema attualità. Dal 1961, l’anno della rivolta armata di Mustafà Barzani, primo leggendario leader delle guerre di indipendenza, i peshmergas, i guerriglieri curdi, non hanno più deposto le armi. La tensione è ancora nell’aria. Ce lo ricordano i posti di blocco, disseminati ovunque, controllati dai fedeli di Massud Barzani figlio di Mustafà. Kurdistan
Saddam non li amava
Il Kurdistan è ritagliato nel nord dell’Iraq, ma Saddam non poteva accettare di cedere ai Curdi la regione di Kirkuk, una delle aree più ricche di petrolio. E infatti l’Iraq conduce da anni una guerra senza quartiere che somiglia ad un genocidio programmato.
Sul finire degli anni 80, vengono uccisi almeno 100 mila curdi, 180 mila scompaiono nel nulla, 4000 villaggi vengono rasi al suolo e 200 mila profughi affollano le tendopoli oltre il confine di Iran e Turchia. Torture, mutilazioni ed esecuzioni sono fatti quotidiani. Kurdistan
Nel 1988 l’armata irakena lancia bombe chimiche e di gas tossico sulla regione del Kurdistan ad Alabja… era il 16 marzo 1988, facendo parecchie migliaia di vittime. Una strage silenziosa che pure non scuote la coscienza dell’Occidente, che in quegli anni vede ancora in Saddam il campione della lotta contro l’integralismo islamico dell’Iran. Durante la guerra del golfo, Saddam esige dai curdi la passività sotto la minaccia del ripetersi degli attacchi con le armi chimiche. Kurdistan
La sconfitta di Saddam nella Guerra del Golfo riaccende la volontà separatista dei curdi. Ma la rivolta fallisce, tra nuove stragi e nuovi orrori. Due milioni di persone sono costrette a varcare il confine di Iran e Turchia, spinte dalla disperazione nelle braccia di vicini tutt’altro che amici. Il resto è storia. L’ONU approva l’intervento dei Caschi blu a favore dei curdi, vengono vietati i voli irakeni a nord del 36° parallelo, si mobilitano le organizzazioni umanitarie. Ma la situazione resta drammatica.
Mine a volontà
La prima tappa del nostro viaggio ci porta nella palazzina comando dei reparti ONU impegnati nella bonifica del territorio dalle mine.
Ce ne sono a milioni, disseminate ovunque, un rischio mortale che rende impraticabile oltre la metà della regione.
Ecco cosa mi ha detto un militare dell’ONU, addetto allo sminamento: “Dicono che ci sono 20 milioni di mine abbandonate in quest’area, ma in realtà nessuno sa con certezza quante sono. E’ molto difficile trovarle… a volte le lanciano dagli aerei volando tra le montagne.
Non ci sono mappe, non si può sapere dove finiscono… Qui da noi arriva la segnalazione che qualcuno è saltato su una mina, noi mandiamo una squadra ma non possiamo sapere se si tratta di una mina isolata oppure se ce ne sono altre tutt’attorno.. E’ un lavoro molto difficile… la maggior parte delle mine resta sul posto, è praticamente impossibile bonificare tutto il territorio”.
La forza di pronto intervento dell’ONU è presente in zona dal 1992, quando si tennero le prime libere elezioni. Ma le speranze di pace e di democrazia naufragarono appena due anni dopo, con l’esplodere della guerra civile tra i due partiti che si sono divisi i voti senza riuscire a prevalere con una vera maggioranza: il partito democratico PDK guidato da Massud Barzani e quello dell’Unione patriottica UPK di Jalal Talabani. Al momento, la situazione è precipitata. Kurdistan
Diviso tra i due contendenti politici, Talabani e Barzani, incerto sulla linea da adottare nei confronti dell’Iraq, schiacciato dal doppio embargo delle Nazioni Unite e di Saddam Hussein, il Kurdistan irakeno viveva negli anni ‘90 in condizioni drammatiche di povertà e di sussistenza. Il sogno di uno Stato autonomo rischiava già di naufragare nella lotta fratricida tra le fazioni, mentre a complicare la situazione era entrato in gioco anche il partito armato PKK, in guerra con la Turchia.
In questa situazione, le agenzie delle Nazioni Unite avevano fatto il possibile per fronteggiare l’emergenza, come ci spiegò il responsabile locale Alan Stafford:
“Dal 1991 la situazione è andata peggiorando sempre di più. Ci sono 3 milioni e mezzo di Curdi in questa regione, l’economia è a terra e non si è ripresa come in altre parti del paese. La grande risorsa qui è sempre stata l’agricoltura, ma anche questa è in crisi. Avremmo bisogno di una produzione molto superiore ma l’embargo e il blocco commerciale impediscono qualsiasi sviluppo. Manca il cibo, mancano i medicinali, prodotti e macchinari necessari all’agricoltura non possono essere importati se non tra enormi difficoltà. Le agenzie umanitarie stanno facendo moltissimo per l’assistenza alla popolazione, ma dopo 4 anni non possiamo ancora dire che l’emergenza sia finita, anzi, la situazione generale è peggiorata. La gente incontra difficoltà a soddisfare i bisogni elementari: mancano cibo e medicinali, manca l’istruzione”.
Lungo le strade vicino ad Erbil, file interminabili di camion, cisterne che praticano il contrabbando di petrolio dall’Iraq alla Turchia, la voce più redditizia nella disastrata economia del Kurdistan irakeno. Al mercato nero, con 5000 litri di petrolio si possono guadagnare fino a 1000 dollari. Kurdistan
Liti in famiglia
Entriamo a Saladin, e poi passiamo a Sulamanya, siamo accolti dal Presidente del Puk Talabani, nel suo bunker, qualche tempo prima degli ultimi capricci di Saddam e dell’attacco di Barzani, e così ci parla.
“Queste sono le zone dove ci sono i maggiori problemi, dove si sono rifugiati i profughi curdi. Se andaste qui, vi verrebbe da piangere. Alcune famiglie sono arrivate a vendere i propri figli pur di riuscire a sopravvivere… Questo è il contributo italiano, la missione italiana. Il vostro governo ci ha molto aiutato, ci dava 500mila dollari l’anno per fronteggiare emergenze come la scarsità di zucchero o altro, ma ultimamente tutto è sospeso, non so perché…
Il Kurdistan irakeno ha sofferto per le privazioni imposte dall’embargo occidentale, per l’atteggiamento dell’Iraq e delle nazioni vicine. E’ una condizione che ci impedisce di fatto di ricostruire le strutture essenziali della nostra società. Soffriamo anche per colpa di una politica internazionale ingiusta che non riconosce i curdi come una speciale identità nazionale.
Ufficialmente il nostro territorio è considerato parte dell’Iraq, ma non abbiamo nemmeno gli stessi diritti dei cittadini irakeni. Kurdistan
Bisogna che l’ONU adotti una nuova politica, che venga sospeso l’embargo, condizione necessaria per poter pensare alla ricostruzione sociale e civile del nostro paese.
Abbiamo bisogno di essere riconosciuti nella nostra identità nazionale di curdi e che la comunità internazionale ci tratti in modo da farci sentire non solo le vittime della dittatura irakena, ma cittadini con piena dignità.
Il nostro obiettivo è quello di abbattere la dittatura in Irak e sostituirla con un governo democratico e federale. E invece oggi subiamo ancora, in maniera drammatica, l’oppressione di una dittatura che vuole appropriarsi della regione di Kirkuk deportando in massa curdi e turchi fuori del loro territorio di appartenenza”.
Parla poi l’ex governatore di Kirkuk, anch’egli in esilio, mostrandomi dossier, grossi faldoni con nomi e fotografie.
“Questa è solo una delle tante liste che raccolgono i nomi di donne che hanno denunciato la scomparsa di fratelli, figli o mariti. E’ un lungo elenco di vedove e madri che piangono. Tutti i loro uomini sono stati uccisi o perlomeno sono scomparsi senza lasciare più traccia… E’ un problema sollevato recentemente anche da Amnesty International… Quanti sono i nomi? Qui ce ne sono solo alcuni, tanti, il totale è stimato nell’ordine delle 280 mila persone, 280 mila tra morti e desaparecidos…”
Le minoranze cristiane
Talabani mi ha parlato anche dei cristiani curdi: “Nel Kurdistan la religione cristiana ha radici antiche. Alle origini vi erano moltissime chiese nel Kurdista e la gente di molte zone era cristiana. Poi giunse l’islamismo e la maggior parte dei curdi divenne musulmana. Ma comunque è rimasta una nutrita comunità di cristiani nel Kurdistan iracheno. Avevano le loro chiese, c’erano molte chiese storiche in Kurdistan, ma sono state distrutte dal regime iracheno. Oltre 17 antiche chiese, costruite 1500 anni fa, sono state distrutte dagli Irakeni. Dopo la liberazione di questa parte del Kurdistan dal giogo iracheno i nostri fratelli cristiani hanno potuto veder riconosciuti i propri diritti, i propri diritti democratici.
Secondo la legge, hanno cinque rappresentanti in Parlamento, hanno un ministro nel governo regionale, hanno proprie scuole, possono utilizzare la propria lingua e coltivare la propria cultura. In alcune parti del Kurdistan, alcune forze sovversive, alcuni fondamentalisti oppongono resistenza a questo stato di cose ma il governo regionale ha stabilito di portare avanti la politica democratica nei confronti dei nostri fratelli cristiani. I cristiani hanno anche due partiti e le loro organizzazioni. Hanno dei centri culturali. Kurdistan
Hanno un centro culturale a Sulamanya. Li abbiamo aiutati a costruire una chiesa e l’edificio che ospita il centro culturale. Inoltre, li abbiamo aiutati a ricostruire un’antica chiesa distrutta dagli iracheni. Siamo grati del fatto che sua Santità, il Papa, si sia mostrato sempre solidale con il popolo curdo, con la causa curda, e abbia espresso in più occasioni la sua solidarietà e abbia offerto il suo appoggio ai curdi. Io personalmente sono grato al Vaticano che mi ha accolto lo scorso anno quando venni in visita a Roma. Allora trovai ad accogliermi in Vaticano un’atmosfera cordiale. Sentimmo allora che lì vi era comprensione e appoggio per la nostra causa. Inoltre, il Vaticano ci sostiene anche attraverso gli aiuti forniti dalla Caritas alla popolazione curda del Kurdistan iracheno”.
Una resistenza ostinata
“In oltre 70 anni, l’abusiva spartizione del territorio e le deportazioni in massa non sono riuscite a piegare la resistenza e l’ostinata richiesta di autonomia del popolo curdo. Una naturale fierezza e un’infinita capacità di sopportazione sono anche le qualità che consentono a centinaia di migliaia di profughi, rifugiati alla periferia di Sulamanya, di sopravvivere in condizioni difficilissime.
Quasi tutti vengono dalla regione di Kirkuk, deportati dalle armate di Saddam per svuotare i serbatoi della guerriglia curda negli ultimi dieci anni. La speranza è ancora viva, affidata oggi ai loro figli. Saranno loro, dicono convinti oltre 20 milioni di curdi, a trasformare in realtà il sogno di indipendenza e di autonomia del “popolo senza patria”.
La guerra cieca contro le mine anti-uomo
Gino Strada, bimbi che corrono con stampelle, gambe di legno e la piccola Nura.
Il centro chirurgico voluto da Emergency a Sulaiymanya, nella regione settentrionale dell’Iraq rivendicato dai Kurdi, non è un ospedale come tutti gli altri. E’ un posto medico di prima linea, in un paese dove la guerra è una dimensione quotidiana, mai dichiarata eppure quotidianamente sofferta, sulla propria pelle, da tre milioni e mezzo di civili inermi.
Qui sfilano ogni giorno le vittime di un conflitto dimenticato che alterna occasionali esplosioni di battaglia a più lunghi periodi dove a fare strage e a seminare lutti e dolore sono le armi più vili: le mine antiuomo.
E’ per rispondere a questa guerra strisciante e infinita, per ridare speranza e fiducia a questa gente, che il medico italiano Gino Strada, chirurgo senza frontiere con lunghe esperienze in Afghanistan, Ruanda, Cambogia, fondatore della associazione Emergency, ha promosso nel 1995 la costruzione di un moderno ospedale, l’unico specializzato nella chirurgia di guerra e da mine della regione.
Visitiamo l’ospedale ed incontriamo alcune delle tante vittime della sporca guerra delle mine che sta devastando il Kurdistan. Kurdistan
Incontriamo un ferito: la sua gamba è stata spappolata dalle schegge due settimane fa, ma sono le sue condizioni generali a destare preoccupazione.
Il centro medico di Sulaiymanya opera a pieno ritmo da tre anni, con cento posti letto, tre sale operatorie e reparti specializzati in grado di far fronte ai casi più difficili. Qui lavorano 270 persone, una vera sfida alle tante incertezze legate alla evoluzione della guerra e allo stato giuridico della regione rivendicata da tutti ma di fatto “terra di nessuno”.
A tutt’oggi ha visto passare oltre 4.000 feriti da arma da fuoco o da mina. Accanto al centro chirurgico è stato aperto un centro di riabilitazione per i pazienti con arti amputati: sono bambini soprattutto, ai quali una protesi riesce a dare la speranza di una vita quasi normale. Nel laboratorio del centro se ne costruiscono 50 al mese.
L’iniziativa di Gino Strada è nata in piena emergenza per un’epidemia di colera, unico approdo medico nelle “no fly zone” (zone di sorvolo vietato) a nord dell’Iraq.
Nell’estate del 1996, l’esplodere di una nuova guerra civile tra le fazioni e l’offensiva delle truppe irachene hanno chiamato i medici di Emergency a un impegno sovrumano, con centinaia di feriti al giorno che affluivano dalla prima linea.Si calcola che nel solo Kurdistan iracheno siano disseminate 10 milioni di mine, retaggio di guerra e alterni spostamenti di fronte, un rischio mortale che rende impraticabile oltre la metà della regione.
Una buona parte di queste sono di fabbricazione italiana, vendute a Saddam negli anni ‘80, quanto l’intera politica estera dell’Occidente si era schierata con il “rais” nella guerra con l’Iran, chiudendo gli occhi sull’autentico genocidio di massa iniziato in quegli anni per “risolvere” il problema Kurdo. Lo scoppio di una mina non è devastante solo per il fisico. Un trauma altrettanto grave è quello psicologico, che toglie alla vittima, a volte per sempre, le capacità e la voglia di vivere.
Nel centro chirurgico di Sulaiyamanya, vediamo una bambina di 12 anni ferita al capo da una scheggia; non ha subito danni irreversibili nel fisico, ma ha visto morire straziate dallo scoppio le sue compagne di giochi. E’ successo otto mesi fa e ancora non parla, non ride, non reagisce agli stimoli esterni. Ma i medici sono convinti che ce la farà, aiutata forse anche dal coraggio di altri suoi coetanei ricoverati.
Con amore, sensibilità, pazienza infinita, si cerca di ridare alla piccola Nura la gioia di vivere.
Si cerca di rianimare la sua capacità di reazione, si smuoverla da un torpore che in altre circostanze avrebbe distrutto la sua vita per sempre. Gli infermieri del Centro di rieducazione di fisioterapia sanno bene quali sono i problemi da superare. Il 70 per centro del personale impiegato nel Centro di Sulaiyamanya è a sua volta vittima di qualche handicap fisico.
Il loro coraggio, la loro dedizione si dimostrano spesso, nei confronti dei pazienti, l’arma vincente della terapia. Anche la piccola Nura, col tempo, imparerà a ridere e giocare come tutti i bambini della sua età.
Le mine continuano a militare sotto diverse bandiere e un giorno finiranno dimenticate in un campo, dove finalmente colpiranno nella maniera più stupida e a tradimento: un anziano pastore, una donna, un bambino. In posti come questo anche la messa al bando internazionale della produzione suona tardiva, lontana e inefficace. Ecco un atroce esempio. “La mina era lì – ci dice Abdul, un vecchio contadino che vive sul rilievo vicino a Penjuin, una delle aree più infestate dalle mine – nascosta sotto una zolla di terra. Ho sentito la terra esplodere sotto i piedi, non ricordo altro. Qualcuno mi ha portato all’ospedale, mi hanno tagliato la gamba sotto il ginocchio”. Kurdistan
Si alza, si allontana un poco per guardare lontano quel territorio, come da un terrazzo voltandoci le spalle, lasciando una lacrima. “Sono vecchio, ma continuerò a venire qui ogni giorno, perché questo è il mio campo, la mia terra. E, con l’aiuto di Allah, sarà anche al terra dei miei figli”.
Il Kurdistan oggi e perché è scoppiata la guerra: il tradimento degli USA
Putin ed Erdogan a Sochi hanno sancito il cessate il fuoco nella guerra tra la Turchia e le milizie curde nel Nord della Siria: la guerra della Turchia contro i curdi nel Nord della Siria si ferma, con lo stop alle operazioni militari che è stato sancito in un vertice a Sochi alla presenza di Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan. Dopo l’intesa per il cessate il fuoco trovata tra Ankara e la Casa Bianca, le condizioni sono state confermate anche a Sochi con le milizie del Ypg che hanno rispettato l’impegno di ripiegare ad almeno 30 chilometri dal confine. Si verrà così a creare come voluto da Ankara quella sorta di zona cuscinetto lungo il confine tra Turchia e Siria, pattugliato dall’esercito turco insieme a reparti di quello russo, in una parte di quel territorio ricco di petrolio al momento controllato dalle milizie curde dopo la fine del califfato dell’Isis. Da tempo Recep Erdogan parla della necessità di realizzare una safety zone per difendere la Turchia dalla minaccia terroristica dei curdi, che si erano detti disposti a tutto pur di difendere il loro territorio ma che alla fine hanno dovuto cedere evitando così una carneficina.
Nel frattempo rimane alta la polemica su quanto nei giorni scorsi era stato fatto trapelare da fonti del Ypg, che hanno parlato di utilizzo di armi al fosforo bianco e al napalm da parte della Turchia durante l’assedio alla città di Ras al-Ayn, accuse respinte da parte di Ankara che sostiene che il proprio esercito non è in possesso di armi chimiche.
Dopo l’abbandono delle truppe americane dalla zona, hanno preso il via le operazioni militari da parte di Ankara che subito hanno conquistato la città siriana di Ras al-Ayn che si trova al ridosso del confine con la Turchia. L’avanzata turca puntava poi a prendere il controllo delle strategiche città di Manbij e Kobane, anche se le milizie del Ypg prima della tregua aveva iniziato una controffensiva riconquistando alcuni villaggi in attesa dell’aiuto dell’esercito siriano.
Oltre all’accusa dell’utilizzo di armi chimiche, i bombardamenti da parte dell’aviazione turca hanno reso difficile anche l’arrivo di medici e personale sanitario, visto che quello delle Ong è stato costretto ad abbandonare le zone di guerra. Più di 250.000 sono invece gli sfollati curdi che si stanno spostando soprattutto verso la città di Raqqa, ex capitale dello Stato Islamico dell’Isis che ora è invece controllata dai curdi. A riguardo sarebbero diverse centinaia i jihadisti fuggiti dalle prigioni curde, si parla al momento di circa 700 terroristi, visto che le guardie sono andate al fronte per cercare di arrestare l’avanzata di Ankara.
Con la decisione di Assad di inviare il proprio esercito regolare siriano nel Nord del paese per dare manforte ai curdi, scelta avallata dalla Russia, c’era il rischio che questa guerra potesse allargarsi ulteriormente. Mentre la comunità internazionale è stata unanime nel condannare l’invasione ordinata da Erdogan, con l’Unione Europea che ha deciso di limitare fortemente la vendita di armi alla Turchia, ha fatto scalpore la notizia della decapitazione di Hevrin Khalaf, nota attivista curda che è stata giustiziata dai miliziani filo-turchi insieme ad altri otto civili.
Se non è un tradimento vero e proprio poco ci manca. Durante la guerra in Siria contro lo Stato Islamico, sono state principalmente le milizie curde ad affrontare militarmente l’Isis liberando diverse città che erano nelle mani del Daesh. Mentre negli anni scorsi si è data la precedenza alla lotta contro il califfato, ora che l’Isis in Siria è stato sostanzialmente sconfitto anche se rimangono ancora delle sacche di resistenza, nella zona tornano ad affiorare tutte le vecchie problematiche esistenti prima dell’avvento dello Stato Islamico. Ora i vari conflitti quello tra la Turchia e i curdi è uno di quelli che affonda maggiormente le proprie radici nel tempo, con la loro questione che non è stata mai veramente risolta fin dai tempi del primo dopoguerra. Kurdistan
Con il Trattato di Losanna è stata cancellata la prerogativa della creazione di uno Stato autonomo del Kurdistan: dopo essere stati a lungo discriminati, negli ani ’80 con la nascita del PKK i curdi hanno iniziato una rivolta armata durata fino al 2001 che ha provocato decine di migliaia di vittime su entrambi i fronti. Parte del Nord della Siria al momento è in mano alla Ypg, milizie curdo-siriane dell’Unità di protezione popolare che sono in trattativa con Damasco per rendere il Paese una sorta di Stato federale ottenendo così una sostanziale autonomia dal governo centrale di Assad. Una ipotesi questa che spaventa la Turchia, che non vorrebbe la creazione di un territorio riconosciuto in mano ai curdi lungo il suo confine.
Ogni velleità di invasione finora era stata però stoppata dal veto degli Stati Uniti. Dopo che la Casa Bianca ha annunciato il ritiro delle proprie truppe della zona, circa 1.000 unità, Donald Trump è come se avesse dato il suo personale via libera alle operazioni militari da parte di Ankara che puntualmente sono iniziate. Gli Stati Uniti ora che il califfato è dato per sconfitto si sono tirati indietro, lavandosi le mani delle conseguenze di quelle che il Presidente americano ha definito come “guerre ridicole e tribali”. Con la scelta da parte del Ypg di chiedere aiuto all’esercito regolare siriano, che è già entrato nel territorio controllato dai curdi, i miliziani si sono consegnati nelle mani della Russia rinunciando a delle velleità di indipendenza ma sperando così di evitare una carneficina per il proprio popolo. Bisogna sempre ricordare come nella zona curda della Siria siano presenti la quasi totalità delle riserve petrolifere del Paese, il cui controllo potrebbe ora in parte passare direttamente a Damasco sempre che si riesca ad arrestare l’avanzata della Turchia. Con l’intesa per il cessate il fuoco raggiunta tra la Turchia e gli Stati Uniti e poi ratificata a Sochi con la benedizione di Putin, ci sarà adesso la tanto voluta creazione di una zona cuscinetto da parte di Ankara mentre ai curdi potrebbe rimanere il controllo di una buona parte del loro territorio.