La Storia – Roby Piantoni, dieci anni dopo. La tragedia, la montagna, la “rinascita” in Nepal aiutando i bambini

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    Roby piantoni

    11 ottobre 2019 © Riproduzione riservata 

    La Storia

    Roby Piantoni, dieci anni dopo. La tragedia, la montagna, la “rinascita” in Nepal aiutando i bambini

    Le sorelle Denise e Sara raccontano un dramma trasformato in speranza

    di Aristea Canini

    Dieci anni dopo. Era la notte tra il 14 e il 15 ottobre del 2009 quando Roby Piantoni raggiunse papà Livio in cielo. Una vetta non prevista, un ‘8000’ infinito. Come infinito era ed è Roby. Denise e Sara sono le sorelle di Roby, dieci anni dopo sono qui a raccontare quel filo ininterrotto, un filo di Arianna che porta fuori dal labirinto della vita e si trasforma in altro, molto altro. Si trasforma nel sorriso di un bimbo nepalese, in un’alba di fuoco in cima a una vetta, nel tramonto rosa della Presolana. Si trasforma in tutto ciò che è meraviglia. 

    Roby piantoni

    Sara aveva 20 anni nel 2009, la sorella minore di Roby: “Ricordo che mi portava in montagna, mi appendevo al suo dito e andavo con lui”. Già, il dito. Che sembra un dettaglio. E forse lo è. Ma sono i dettagli che fanno la differenza. 

    Il papà di Roby era Livio Piantoni, uno scalatore di quelli da lasciare il segno, uno dei tre alpinisti scalvini morti nel 1981 sul Pukajirka, una montagna peruviana interamente ricoperta di ghiaccio, una cima prima di allora mai scalata da nessuno, per quei terribili “muri di ghiaccio” che la rendevano inaccessibile. I cinque alpinisti scalvini (Rocco e Livio sopravvissero, Livio, Nani e Italo sono restati là, nella montagna di ghiaccio crollata sotto i loro piedi), quei muri li avevano sorpassati, erano praticamente in vetta prima che crollasse tutto.

    L’ALPINISTA PRECIPITATO SUL SHISHA PANGMA IN TIBET NELL’OTTOBRE 2009 – IL PADRE LIVIO ERA MORTO SUL PUKAJIRKA NELLE ANDE PERUVIANE NEL 1981

    Roby Piantoni

    Livio aveva 29 anni e il piccolo Roby che lo aspettava a casa ne aveva 4, sua sorella Denise 7: “E io ricordo che mio padre mi portava in montagna dandomi il dito, come faceva Roby con Sara, io lo stringevo e mi sentivo al sicuro e lui mi portava ovunque”. Già, quel dito prima di papà Livio e poi di Roby, uniti in un cerchio infinito. “Noi abbiamo sempre seguito Roby nella sua passione per la montagna – racconta Denise – ci chiamava ‘le mie donne’”. Già, le sue donne, le sorelle Denise e Sara e mamma Fulvia “La disgrazia di mio padre ha unito ancora di più la famiglia e Roby era legatissimo a tutte noi”. Roby Piantoni

    Una passione per la montagna che Roby si è trovato nel dna, gliel’aveva trasmessa papà Livio: “Mio padre lavorava tutta settimana e quando tornava viveva per la montagna, ci portava sempre con sé, ricordo la mia infanzia, andavo all’asilo, tornavo, quando c’era mio padre, mi metteva sulle spalle o io afferravo il suo dito e andavamo in montagna, sempre. E poi veniva anche Roby, che era più piccolo di me”. 

    Roby con le due sorelle in un’immagine “felice”
    Roby seduto sulla cima dell’Everst

    Già, Roby: “L’ho visto crescere con l’amore immenso per la montagna, viveva per la montagna, stava bene quando era in montagna”. Ma mamma Fulvia dopo la morte del marito Livio non era contenta di questa scelta: “Lo ha contrastato, fin dove era possibile contrastarlo, perché lui era un pacifico, penso non abbia mai litigato con nessuno in tutta la sua vita, non voleva far soffrire la mamma ma nello stesso tempo voleva seguire la sua passione. Ha cominciato sin da ragazzino ad andare al rifugio Albani a dare una mano ai due coniugi che lo gestivano e che erano amici di famiglia, tutte le estati era lì con loro, era un modo per rimanere dentro la montagna, per viverla appieno, seguiva gli alpinisti in silenzio, imparava da loro, toccava le loro corde e andava in visibilio. Lì ha cominciato a fare le prime esperienze di arrampicata sulla roccia, ascoltava i racconti degli alpinisti al rifugio. Era un adolescente e i suoi amici al mattino dormivano, lui invece si alzava prestissimo e partiva, andava da solo, conosceva ogni roccia della Presolana, la conosceva in ogni angolo. La sua prima scalata importante è stata proprio lì, in Presolana, sulla ‘via Denise’, la via che aveva aperto mio padre nel 1975 e che mi aveva dedicato dandole il mio nome. La scalò con Simone Moro, parete nord ovest della Presolana, aveva questo desiderio da tempo, Simone glielo propose, Roby non disse niente a nostra madre, non è che voleva nasconderle la verità, ma non voleva farla preoccupare. Però, quando è tornato, le ha portato un chiodo vecchio che aveva piantato mio padre nella montagna, si è commossa, lui era così, era davvero difficile sgridarlo. E, dopo anni di contrasti, la mamma si è arresa, lui le ha scritto una lettera dove le ha raccontato la sua passione per la montagna, dove le ha detto che se l’avesse obbligato a non andare più in montagna sarebbe stato come vederlo morire. E lì lei ha capito che doveva lasciargli fare la sua strada, la montagna era la sua felicità e ogni madre vuole vedere il proprio figlio felice”.  

    Roby si iscrive al corso di guida alpina: “Il più giovane d’Italia, le selezioni, prima come aspirante guida alpina, poi tutti i passaggi, ricordo la grande fatica economica per riuscire a diventarlo, due anni di corso con notevoli costi, le attrezzature, gli spostamenti, riusciva però nei tempi morti a lavorare e raccogliere i soldi sufficienti per pagarsi il corso. Ma ce l’ha fatta, la passione era più forte di qualsiasi cosa. E ha fatto tutto da solo, con la sua caparbietà, la sua forza di volontà”. 

    E la montagna non è solo da scalare, da camminare, da respirare ma anche da ammirare, e infatti Roby aveva la passione anche per la fotografia: “Scattava foto, immortalava meraviglie per condividerle con gli altri, con chi sin lassù non poteva salire”. 

    Roby diventa guida alpina e poi comincia a fare i primi viaggi fuori dall’Europa: “Nel 2001 – continua Denise – nel ventesimo anno della tragedia del Pukajirka con altri scalvini, anche con i due superstiti di quella spedizione, Rocco e Flavio, è tornato là. Non sono riusciti a fare la vetta ma lì è stato il suo trampolino di lancio, da lì è partito e non si è più fermato. È andato in Himalaya per accompagnare chi faceva trekking, per scalare, per respirare e vivere la montagna, ha scalato parecchi ‘8000’ e nel 2006 ha scalato l’Everest senza ossigeno, il primo bergamasco a salire senza ossigeno, aveva 29 anni”. Roby Piantoni

    Tra Roby e il Nepal è stato amore a prima vista: “Nel 2006 ha iniziato a collaborare con un’associazione nepalese, ha conosciuto la realtà del Nepal fatta di povertà e tanti bambini, lui ha sempre avuto un debole per i bambini e i bambini per lui, e ha deciso di aiutarli, di fare qualcosa per loro”. 

     

    mamma Fulvia con in braccio il figlio Roby

    Roby scala, conquista vette, fa la guida alpina e quando è in Italia, durante le serate dove racconta le sue imprese, raccoglie fondi per il Nepal: “Per pagare gli insegnanti delle scuole dei villaggi poveri, vende foto e devolve il ricavato, una sorta di mostra itinerante di fotografie”. E il ricavato andava ai bambini in Nepal. 

    E la sua opera la continuano Denise, Sara e tutti i membri dell’associazione che ha continuato e che si è consolidata sempre di più, punto di riferimento per tantissime persone. Dieci anni dopo l’Associazione Roby Piantoni ha addosso la stessa passione ed energia che aveva Roby, per la vita, per la montagna, per i bambini. Roby Piantoni

    Denise e Sara raccontano quei giorni: “Era il 15 settembre del 2009, Roby viveva a Onore con la sua fidanzata, l’ho visto per l’ultima volta, come sempre entusiasta, andava con i suoi due amici, Marco Astori, amico fraterno di tutte le avventure, sono rimasti anche due mesi da soli in mezzo al nulla e Yuri Parimbelli, amico con cui era più legato professionalmente, entrambi guide alpine. Erano entusiasti tutti e tre e Roby stava ottenendo i primi risultati di tutto quel sacrifico che aveva fatto per arrivare sin lì”. 

    Tutto sembra filare liscio, sino alla mattina del 15 ottobre 2009: “Mi stavo alzando – racconta Denise – mio figlio Giacomo aveva 3 anni, ero sola in casa con lui, mio marito era andato al lavoro. Suona il telefono, era Luciana, la moglie del rifugista Renzo, il rifugista dell’Albani dove Roby era cresciuto. Mi dice che è successo un incidente a Roby. Le chiedo come sta, qualche secondo di silenzio, poi Luciana mi dice che Roby non c’è più. Ero sola in casa, un vuoto, un buco nello stomaco, un freddo all’anima, una mattina che non dimenticherò mai. Poi è toccato a Sara, eravamo sconvolte, ma abbiamo capito subito che dovevamo dirlo alla mamma. Siamo partite in auto, nostra madre era in giro in paese, curava una signora anziana e stava andando a casa sua, le abbiamo detto di salire in auto. Me la ricorderò sempre quella mattina, era arrabbiata, continuava a dirci di piantarla di prenderla in giro, non ci credeva, ci è voluto un po’ per farle inquadrare la realtà”. 

    Denise e Sara hanno gli occhi lucidi, l’orologio del tempo ha fatto un salto all’indietro di dieci anni, si fermano per qualche istante e poi ripartono: “Poi è cominciata la processione della gente, un fiume di gente, Roby non è arrivato subito, il funerale lo abbiamo fatto il 25 ottobre, l’incidente è successo in Tibet, quindi dipendeva dalla Cina che notoriamente non è molto collaborativa – racconta Denise – eravamo in continuo contatto con l’ambasciata, ci hanno detto che dovevamo portare Roby a Pechino per constatare il decesso, ma Pechino era dall’altra parte, era impossibile. La situazione si è sbloccata grazie all’intercessione di Simone Moro, ci ha chiamato e ci ha detto ‘domani Roby viene a casa’”. 

    Il corpo di Roby all’inizio sembrava dovesse rimanere là, nel crepaccio: “Con gli alpinisti succede così ma Marco e Yuri, quando è successo l’incidente, sono tornati al campo base e hanno deciso di riprendere il corpo di Roby. C’era già mio padre, Livio, che non era più tornato, cosi quando ci hanno chiamati per chiederci se volevamo che andassero a riprenderlo, mia madre ha detto di sì, ma solo se non correvano rischi, altrimenti dovevano tornare indietro. Loro hanno detto che non avrebbero corso rischi, in realtà il pericolo c’era ma volevano riportare Roby a casa, sapevano che la mamma lo desiderava tanto. Insieme ad altri alpinisti l’hanno tirato su dal crepaccio, caricato sugli asini sino alla frontiera col Nepal, con tutte le difficoltà di quel momento. Poi lo hanno portato in un paese di quella zona dove c’è il monumento funebre per la cremazione, è stato cremato e ci hanno riportato le ceneri”. 

    Cosa vi hanno raccontato dell’incidente? “Era buio, in un punto difficile, c’era una specie di traverso, un piccolo spazio per passare, uno alla volta sono passati. Quando è toccato a Roby lo hanno visto scivolare giù nel vuoto, avevano le lampade frontali e non vedevano bene il terreno, Yuri ha tentato di afferrarlo ma gli è rimasto in mano il guanto di Roby, ha fatto un volo di 400 metri, sino alla base della montagna”. Roby Piantoni

    Come si cambia dopo una tragedia così? “Io – racconta Denise – in quei giorni ho visto tantissima gente, tutti dicevano la loro ma sentivo le parole scivolarmi via, parole inutili, poi una persona mi ha detto ‘vedrai, chiudendosi questa porta ti si aprirà un portone’, ma non me ne fregava niente, io non volevo un portone, volevo quella porta che si era chiusa. Ma a distanza di anni devo dire che sì, si è aperto davvero un portone. Dal dolore nascono opportunità. Abbiamo conosciuto tantissima gente per via dell’associazione, nuovi amici, rapporti che si sono consolidati nel tempo, nella disgrazia c’è sempre una molla che spinge verso l’altro, adesso devo dire che sono serena”. 

    Anche io ho vissuto la stessa esperienza – continua Sara – l’associazione mi coinvolge e mi ha cambiata, ho due figlie piccole e non ho molto tempo ma l’associazione ti apre visioni di vita diverse”. Roby Piantoni

    L’associazione si chiama ‘Roby Piantoni Onlus insegnanti per il Nepal’. Sara, insieme al marito di Denise, alla ragazza di Roby e a Marco Astori, l’anno dopo, è andata in Nepal per la prima volta: “Per toccare con mano i bisogni di quella gente. E’ stata davvero un’esperienza forte e intensa, un mondo diverso, si sono aperti orizzonti incredibili. Quando si fa il bene ne torna il doppio, quei sorrisi, quegli sguardi, quel modo di vivere vero e puro ci ha segnati, ci ha cambiate”. 

    La mamma come va? “Il nostro impegno nel nome di Roby l’ha aiutata, le ha ridato vita, all’inizio era stata dura, tanto”. Credete in Dio? “Non tanto, siamo piuttosto razionali, anche mia madre, anche se lei ci ha raccontato alcuni segnali che ha interpretato quasi come fossero messaggi di Roby e ogni cosa che la fa star bene va bene” . 

    Qual è il ricordo più forte che conservate di Roby? “Era appena nato mio figlio Giacomo – racconta Denise – Roby stava scalando l’Everest, io ero tornata dall’ospedale e quando si ha appena partorito si è ancora più sensibili, io poi ho la lacrima facile, mio marito va via al mattino presto, non c’era, così ero da mia mamma per qualche giorno, sapevo che stava scalando ed ero agitatissima. Mio marito aveva detto a Roby di dirmi qualcosa quando aveva fatto tutto per non farmi agitare troppo. Ricordo quella mattina, mi telefona e mi dice ‘ti devo dire tre cose, sono al sicuro, sono arrivato in cima all’Everest, senza ossigeno’. Sono scoppiata a piangere, era il suo sogno e ce l’aveva fatta”. Roby Piantoni

    Io invece – racconta Sara – lo ricordo quando ero una bimba di 8 o 9 anni, a casa la sera, tutti insieme, era spiritosissimo, io e lui amavamo i film di Aldo, Giovanni e Giacomo, la sera li guardavamo insieme e ridevamo un sacco. E poi la musica, amava tantissimo Guccini, da lui ho preso la passione per Guccini, ascoltava i Timoria, Litfiba, i Nomadi, il rock italiano, era il mio fratellone. E’ il mio fratellone”. 

    Come va l’associazione? “Bene, è impegnativa ma ci mettiamo il cuore e stiamo bene nel fare del bene, siamo diventati per molti in Nepal un punto di riferimento, collaboravamo con un’associazione nepalese con cui già collaborava Roby, ci hanno girato i soldi sul conto della nuova associazione, quelli che aveva raccolto Roby e che non aveva ancora utilizzato. Roby ci aveva raccontato di voler andare in un paese dove voleva costruire una scuola, noi nel 2010 siamo andati lì, ma abbiamo scoperto che la scuola c’era già. Così l’associazione Friend’s of Nepal a cui facevamo riferimento ci ha consigliato di non concentrare tutti i nostri sforzi su un villaggio o una scuola ma distribuirli e diversificarli su più scuole, acquistando materiale scolastico, aiutando a pagare gli insegnanti. E così abbiamo fatto. Il primo anno abbiamo aiutato 4 scuole, poi sono diventate 8, ora siamo a 12”. Roby Piantoni

    Denise e Sara in redazione di Araberara

    In Nepal Denise e Sara, alternandosi, ci vanno ogni anno, a casa restano i tre figli, Giacomo, il figlio di Denise e le due bimbe Aurora di 5 anni e Ambra di un anno, due famiglie unite, tanto da restare un’unica famiglia anche quando si dividono per andare in Nepal: “All’inizio – continua Denise – come associazione non ci hanno accettato subito, volevano tastare la nostra convinzione, giustamente vogliono toccare con mano e verificare la bontà e la validità dei progetti, adesso sono convinti cosi come lo siamo sempre stati noi dall’inizio. Avevamo pochi soldi ma tanta voglia di darci da fare, l’entusiasmo che aveva Roby ci aveva contagiato, ci aveva coinvolto e così siamo cresciuti nel tempo grazie alla passione e a quello che quel mondo ci dava in termini di cuore, anima e vita vera”. 

    Roby in Nepal

    Il Nepal è diventato la vostra seconda casa: “Sì, la nostra seconda patria, ogni mercoledì sera ci troviamo tutti a cena da mia madre, con le nostre due famiglie e si finisce sempre a parlare dell’associazione, cosa bisogna fare, come muoverci, i calendari da fare in questo periodo, la gente da incontrare”. E a cena ci sono naturalmente anche Claudio, marito di Denise e Domenico, marito di Sara: “Mio marito Claudio – continua Denise – ha tenuto alla cresima Roby, stiamo insieme da quando avevo 15 anni, è sempre stato molto presente, anche lui è appassionato di montagna, è andato in Nepal tante volte, è molto coinvolto”.Mio marito Domenico – racconta Sara – è orgoglioso del nostro impegno, lui ha altre passioni, ma la sua presenza vicino a noi è importante”. Insomma, tutti uniti nel nome di Roby. Roby Piantoni

    Qualcuno diceva che ‘in verità si può dire che l’esterno di una montagna è cosa buona per l’interno di un uomo’. Già, ‘Vado in montagna più per la paura di non vivere che per quella di morire.’ (Ada Gobetti). Perché ci sono vite che se sono vissute facendo quello che si ama fare continuano per sempre.  

    Da tre anni – concludono Denise e Sara – stiamo portando avanti un progetto medico con i Street Doctor, i cosiddetti dottori da strada, portiamo assistenza medica nei villaggi, in molti di questi villaggi si arriva solo a piedi, non è semplice per i medici muoversi in quelle realtà, Allestiscono il campo medico nelle scuole o dove riescono e lì ricevono i pazienti, c’è anche il chirurgo che lavora in sale operatorie improvvisate, insomma, un’emergenza continua”. Roby Piantoni

    Ma è nell’emergenza continua che si raccolgono meraviglie, che si raccolgono sguardi di bimbi felici che bastano a riempirti il cuore d’amore per sempre, che si raccolgono carezze che valgono più di qualsiasi conto in banca. 

    Quello stupore, quella meraviglia, quell’incanto che Roby dalle vette delle sue montagne ha disseminato ovunque. Anche dieci anni dopo. Soprattutto dieci anni dopo.

    © Riproduzione riservata

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