benedetta gente

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    “Cielo grigio su, foglie gialle giù”. Caparbiamente (e sembra fuori tempo e luogo) il calendario liturgico ripropone l’attesa di qualcuno che salvi il mondo. “Et nubes pluant justum”. E’ l’invocazione dell’Avvento, il cielo ci mandi giù sulla terra il Giusto per eccellenza. L’auspicio dovrebbe essere più ambizioso, non un solo Giusto, che in metafora politica è il solito “uomo della Provvidenza” per il quale abbiamo già dato, ma una folla di giusti che… rimettano sulla retta via questo “mondo di ladri”.

    Come dire speriamo che crescano generazioni davvero nuove, che abbiano un’idea della vita non parametrata sul mercato, ma sui bisogni (che sono indotti, inculcati con perfidia dalla pubblicità). La solita utopia dell’attesa che tutto cambi, per poi prendere malinconicamente atto che resiste la filosofia disperante del rampante Tancredi ne “Il Gattopardo” «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Forma e sostanza di cui hanno discusso e scritto i filosofi.

    Questo è il tempo dell’apparenza e dell’apparire. C’è aria di attesa ma non del Giusto con la maiuscola, ma del giusto, che è anche aspettativa più ambiziosa, se attribuita solo agli altri.

    Abbiamo votato, in primavera torneremo a votare. Per quel che vale, non perdo occasione di rispondere alle domande, quando me le fanno, nella paura strisciante che un giorno non mi chiedano più nulla. Per questo vado a votare ad ogni richiamo, come le donne del mio paese si mettevano lo scialle per ciabattare verso la chiesa ad ogni squillo di campana.

    Dei nostri voti ne fanno strame, li interpretano, li contano a loro convenienza, come ancora ne “Il gattopardo” avveniva per il plebiscito di annessione al Regno d’Italia, in cui un voto contrario (quello dell’infido Tumeo) fu cancellato sull’altare di un’unanimità conveniente. “Io Eccellenza ho votato No, cento volte No”. Ma il risultato ufficiale diceva 512 votanti, 512 Sì. Dov’era finito quel No? “Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito”.

    L’impotenza del singolo.

    C’è un’attesa di campanella della ricreazione, altro che di “cielo grigio su, foglie gialle giù” come diceva la canzone sognando terre sconosciute come la California.

    E il dibattito (“no, il dibattito noooo!”) si perde sui “marginalia”, le luci natalizie sì, le luci no. E quel tale che sembrava un santo ed è stato votato ed eletto e adesso si scopre un delinquente, e poi i terremoti sportivi, “l’ho sempre detto che la Juve…” ecc. Ai mondiali teniamo per i più poveri, sentendoci in sintonia contro i “poteri forti” che non sapremmo definire né riconoscere ma sono un comodo falso bersaglio per tutti i mali del mondo.

    Ci siamo ingoiati l’Avvento, tempo di attesa, bruciato nell’anticipo della festa per cui si perde anche il sapore della vigilia (il senso de “Il sabato del villaggio” di Leopardi). Se è già Natale, nelle luci di paese, soprattutto nei centri commerciali, che senso avrebbe aspettarlo? Quindi? La conclusione è che non stiamo aspettando nessun Giusto che ci piova dal cielo, perché non alziamo più gli occhi, ben piantati sulla prona terra. E se anche arrivasse non sapremmo riconoscerlo, avendo smarrito la conoscenza del bene e del male, del buono e del cattivo, del bello e del brutto. Se non vivessimo come un fastidio perfino la scuola, potremmo ancora sperare che i cuccioli d’uomo che stiamo allevando siano meglio di noi. Abbiamo prolungato la nostra attesa di vita.

    E’ l’unica attesa che accettiamo. Per il resto è già qui la festa, comandata dal mercato. E come in quella commedia di Eduardo, anche se non abbiamo soldi per festeggiare, dobbiamo, per non dare la soddisfazione ai vicini di casa di vederci a terra, far finta di essere sani. Di corpo, se non di mente.