L’arazzo che le è costato più di due anni di lavoro verrà mostrato alla popolazione in occasione della Giornata nazionale in memoria di tutte le vittime del Coronavirus indetta dal Consiglio dei Ministri, sabato 18 marzo alle ore 11, durante la cerimonia che l’Amministrazione comunale ha organizzato per l’occasione.
“Si tratta di un lavoro di ricamo che ho intrapreso proprio a ricordo dei tanti nostri morti di quel periodo ed a ringraziamento del personale medico e dei volontari che ci hanno aiutato durante la pandemia – spiega l’autrice dell’opera, Nadia Ghirardelli, 71 anni, vedova, impiegata amministrativa in pensione, appassionata di ricerche storiche riguardanti la sua gente e la sua terra, un figlio quarantenne, Emanuele, che fa lo scienziato a Trieste -. Mi sono ispirata all’affresco che raffigura la Deposizione realizzato probabilmente da Paolo da Calyna nei primi anni del ‘500 per la chiesa dell’Annunciata di Ossimo, una Deposizione, appunto, in cui sulla nuca del Cristo morto si china la nuca di un uomo il cui volto rimane sconosciuto, parzialmente celato da un cappello: ecco, ho pensato che questa persona che toglie Gesù dalla croce, dai tratti non perfettamente identificabili, potesse rappresentare emblematicamente il dolore di tutta l’umanità, una sofferenza universale, come quella, appunto, che ci ha colpito durante gli anni del Covid…”.
A questo affresco cinquecentesco, che ha ammirato fin dagli anni della sua giovinezza, Nadia è particolarmente affezionata: “Per molti anni, durante le vacanze scolastiche di Natale, ci davamo appuntamento con gli amici e andavamo a piedi da Angone alla chiesa dell’Annunciata per visitare il presepio preparato dai frati. Ogni anno c’erano persone nuove che si aggregavano, anche se perplesse perché convinte che avrebbero patito un gran freddo. Ad Angone compravamo il pane fresco del forno, suscitando l’ilarità di qualcuno per la quantità esagerata che ne acquistavamo; poi però, come per magia, il pane spariva tutto, mangiato di gusto in compagnia nell’aria frizzante. La cosa più bella era ascoltare il vociare dei nostri figli che ci precedevano e che ogni anno cercavano e riconoscevano i punti fissi da cui passavamo, le tappe del percorso: la Bia de Buren; la Madunina Negra, alla quale dedicavamo un canto e una preghiera; il momento in cui il sole arrivava nei vigneti allora deserti e ora ripiantati; il passaggio sui sassi in mezzo all’acqua del Daen prima che costruissero il ponte, lo spettacolo del torrente reso fatato dagli arabeschi di ghiaccio; la deviazione dei Predulì; il passaggio sotto la linea dell’alta tensione; i cani fuori dalla cascina, e poi la strada diritta per arrivare alla chiesa. Lì c’era l’incontro con il frate che, se non eravamo in ritardo, ci faceva da cicerone e lì c’era la discesa della scaletta verso la cripta, le tombe dei frati e infine l’incanto del presepio, con l’illusione del giorno e della notte, con l’alba e il tramonto”.
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