Araberara
CHI SIAMO
Trentasei anni fa era di maggio, il 10 maggio 1987. Usciva il primo numero di un giornale chiamato “Araberara”, 24 pagine, stampa in bianco e nero. Non c’erano i telefonini, non c’erano i social. Da qualche anno erano nate le “radio libere” e ci sembrava una rivoluzione, l’informazione poteva nascere anche dal basso, un “fai da te” che oggi è debordato al punto che ognuno si illude che la propria opinione sia la verità assoluta. Per assurdo i mezzi globali dei social che potrebbero essere campo aperto di confronto, sono diventati solo di scontro tra presunte verità. Cito volentieri e spesso un film del 1950, Rashomon in cui un delitto viene raccontato dai testimoni in modo contraddittorio, ognuno lo vede e lo riporta secondo la propria convenienza e visuale. La verità è una sola, le versioni dei testimoni sono almeno tre. L’uomo sa mentire, a volte anche a sé stesso. Ma “cos’è la verità?”, chiede Pilato a Gesù. Ma non aspetta la risposta. Chi crede di possedere la verità, magari in esclusiva, fa come Pilato, non aspetta la risposta che potrebbe ribaltare le sue “incontestabili” opinioni e le proprie “granitiche” convinzioni.
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Un quadro riassuntivo: c’era ancora l’Unione Sovietica dove, il 27 gennaio, un tipo che si chiamava Gorbaciov annunciava che si sarebbe votato a scrutinio segreto per scegliere i segretari delle varie “Repubbliche” che componevano l’URSS. Una cosa da… niente, una rivoluzione silenziosa. In Italia c’era in visita il generale Jaruzelski, capo della Polonia che incontrava il Presidente della Repubblica Cossiga, il Presidente del Consiglio Craxi e il Ministro degli Esteri Andreotti. Era il Craxi 2, la vendetta (su De Mita) e veniva annunciato il “sorpasso” dell’Italia sulla Gran Bretagna (“Siamo la quinta potenza del mondo”), ma il 3 marzo Craxi si dimette e si andrà a nuove elezioni (Dc al 34,3%, Psi al 14,3%, il Pci al 26,6%. Appare la Lega Lombarda (un deputato). Al governo va Goria. Giorgio Almirante lascia la segreteria del Msi a Gianfranco Fini. Giovanni Paolo II vara la sua sesta Enciclica, visita il Cile e, tra le polemiche, incontra il dittatore Pinochet. A giugno arriva a fargli visita Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti. Morti eccellenti dell’anno: Renato Guttuso, Carlo Cassola, Alessandro Blasetti, Claudio Villa, Rita Hayworth, Henry Ford, Lino Ventura. A maggio il Napoli vince lo scudetto. Il 18 e 28 luglio un terribile nubifragio stravolse la Valtellina e la Val Brembana.
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Un mondo diverso dove crescere i nostri pensieri” direbbe Eros Ramazzotti. Era ancora il tempo in cui davvero si poteva sognare una “terra promessa” esistente in qualche sperduto mondo. Il nostro era quello di valli poco considerate, che non avevano voce. Ecco, Araberara è nato per fare da megafono a quelle voci. Ed è passato davvero un pezzo di vita per chi questo giornale l’ha fondato, cresciuto, ma anche per chi ci ha scritto, chi ci ha speso tempo e passione, per chi c’era all’inizio, per chi si è aggiunto strada facendo, per chi se n’è andato, per chi non ha mai preso una lira prima e un euro poi, per chi ci ha creduto. La testata di questo giornale, fondato nel 1986 e uscito con il primo numero il 10 maggio 1987, è ancora oggi (e a volte mi spazientisco a doverlo ripetere) occasione per chiedermi cosa voglia dire. E ogni volta dobbiamo ripercorrere quelle sere passate a discutere e a sognare, che allora ci sembravano uno dei tanti momenti in cui era lecito fare voli, anche pindarici, che tanto costavano niente. Volevamo fare un giornale che non fosse legato a un paese, a una valle, ci sembrava di mettere confini territoriali, di imprigionarci per conto nostro. Già ci sentivamo, se non proprio “ragazzi dell’Europa”, almeno dell’Italia, con qualche puntata perfino all’estero. Certo, era l’ambizione di varcare passi, scavalcare montagne, arrivare fin dove “l’occhio si perde” che ci ha indotto a scegliere un nome non legato al territorio. E allora tutti a pensare a nomi più o meno esotici. Araberara saltò fuori dall’inizio di una filastrocca, quelle che si usavano da bambini per stabilire l’appartenenza a una squadra, ma anche il ruolo nel gioco delle parti, oggi tocca a me e domani a te, hodie mihi, cras tibi, dicevano minacciosamente i latini, oggi a me domani a te, dipende dalla sorte, dalla “conta”, da mille occasioni e situazioni che possono incrociarsi, capovolgersi, sfuggirti o toccarti.
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E allora raccontiamo di nuovo la storia di questo nome. Deriva da una “conta” stranissima che si trovava in versioni diverse in paesi tra loro lontani. E che aveva radici in una storia cruenta, incrocio tra Venezia, Genova e Milano, noi che siamo stati dalla parte veneziana e coltivavamo le leggende sul Fornaretto di Venezia e sulla sua esecuzione “sulla Piazza di S. Marco dove ci sta scritta la tua sentenza”. C’era una ricerca e raccolta di queste filastrocche, che era stata redatta da Marino Anesa e Mario Rondi. Ara berara / la melga l’é cara / l’é car al fomét / cosa ‘m gh’ai da fà det? (Leffe). Ara berara / cuncera curnara / curnara di spì / curnara di soch/ salta fòra / chesto pitoch (Vilminore). A Tavernola però il significato era stravolto e diventava totalmente agricolo: Ara bè, ara / la melga l’é cara / l’é car al fomét / crusanda fo det. Notate che le prime lettere, quelle di Ara, sono sempre distinte dal resto. Infatti sono riferite a una storia di una principessa, la “bella Ara”, adottata dalla famiglia Cornaro di Venezia. Un Cornaro venne nominato ambasciatore presso il Ducato di Milano dove c’era un giovane nobile un po’ scapestrato, di origini genovesi, il conte Tommaso Marino, megalomane che si costruì un palazzo fastoso (Palazzo Marino, sede del municipio di Milano). Ateo e prepotente il conte Marino si invaghì della principessa Ara Cornaro. Cornaro, di famiglia nobile veneziana e rigido nel giudizio sui costumi del Conte, respinse il suddetto Marino. Che fece rapire, stile Innominato nei Promessi Sposi, la bella Ara. Ma la storia finì malissimo, perché il Conte Marino, si dice per gelosia, la uccise. E non essendoci ancora i settimanali di gossip, la cronaca nera finì in filastrocche e cantastorie. Ecco la versione milanese della storiaccia. “Ara bell’Ara / discesa Cornara / de l’or e del fin / del Conte Marin / strapazza bordocch / dent e foeura trii pitocch, trii pessitt e ona mazzoeura / quest l’é dent e quest l’é foeura”. I “bordocch” erano i preti. I “pessit” erano i pesci dello stemma del Marino, la “mazzoeura” era la mazza. Ma già anche in questa versione si trattava di una filastrocca per il gioco delle parti.
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Insomma puntammo anche sulla curiosità per un nome così strano, anche se ci sconsigliavano, pronosticandosi vita breve, proprio per quel nome che non indicava una chiara appartenenza territoriale del giornale. A distanza di 35 anni quel nome è risultato azzeccato anche nello scavalcare monti e valli. Nato per l’Alta valle Seriana e Val di Scalve, a poco a poco si è allargato prima alla media e bassa Val Seriana, poi all’Alto Sebino, alla Val Cavallina, al basso Sebino e alla Val Calepio entrando anche, in punta di piedi, in Bergamo città. (E a gennaio di cinque anni fa è nata l’edizione di Araberara In Valcamonica). Prima mensile, dal dicembre 2002 quindicinale, perché ci eravamo allargati… troppo, le pagine non bastavano mai. Il giornale si è trasformato: l’arrivo in redazione di Aristea Canini è stato come un ciclone che ha lanciato il giornale davvero non solo oltre le valli, ma addirittura oltre la provincia. Le grandi interviste di respiro nazionale, le inchieste, i reportage, hanno portato il giornale a un livello che nei primi dieci anni di vita sembrava impensabile. L’attuale redazione, con Angelo Zanni, Sabrina Perdersoli, Anna Carissoni e Morgan Marinoni fa un miracolo in ogni numero. E anche la parte commerciale della pubblicità è stata il supporto fondamentale per un giornale che è sempre vissuto di mezzi propri, quindi di vendite e pubblicità: prima Diego Petenzi, poi Marisa Scaglia, adesso Francesco Moleri, Annibale Carlessi e altri collaboratori, hanno garantito il proseguimento di quel “miracolo” (la definizione è di un grande giornalista) in cui la mia parte, quella di direttore, è sempre meno determinante.
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La “vocazione” amministrativa del giornale all’inizio fu bersaglio di scetticismo, figurarsi, c’è la politica alta, cosa importa alla gente della cresta dei galli nel piccolo pollaio di casa propria? Il segreto del giornale invece sta tutto lì: cercare (non sempre ci riusciamo) di trattare ogni paese come fosse la capitale del mondo, perché in fondo per chi ci abita quello è il centro del mondo, raccontare storie di gente comune che le storie se le tramanda e se le racconta e se le inventa ogni giorno, magari colorandole un po’, come la filastrocca della testata, come quando le donne che si trovavano al lavatoio del paese si tenevano informate sulle vicende del paese e all’osteria gli uomini facevano a pugni dopo qualche bicchiere di vino dividendosi in partiti opposti, a sostegno del bene del paese, s’intende, e a volte perfino del proprio tornaconto, in un tormentato e faticoso passaggio verso un sistema democratico tutto da imparare e da praticare. Noi raccontiamo storie di estrema periferia, quelle che rendono vivo un paese che senza storie condivise degrada a dormitorio. Che poi è il mestiere del giornalista. Questo giornale vive per i grandi e piccoli cantastorie che ci scrivono. E per i grandi e piccoli che li leggono. Fin quando ci saranno storie da raccontare noi ci saremo. Il giorno in cui le storie finiranno, finirà anche la Storia, (anche quella di questo giornale). Che è il sistema migliore per augurarci lunga vita, perché è come augurarla a voi stessi.