ROCK E I SUOI FRATELLI – I Maisie : «La musica, ‘Morte a 33 giri’, i club, Roy Paci che suona la tromba in cantina a 45 gradi e quella pozza di sudore… »

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Mario Clerici

Roy Paci ce lo ricordiamo nella nostra cantina a suonare le sue parti di tromba in piena estate, con una temperatura intorno ai 45 gradi. Ai suoi piedi di formò una vera e proprio pozza di sudore.

I Maisie, gruppo che ha suonato al Lucignolo Pub di Lovere il 25 giugno scorso, sono uno dei segreti meglio custoditi dell’underground musicale italiano, hanno una storia ormai trentennale (si sono formati nel 1994 a Messina da un’idea di Alberto Scotti e Cinzia La Fauci) ma sono conosciuti ancora da pochi, pur avendo pubblicato già otto album.

La band meriterebbe finalmente di emergere e il concerto a cui ho assistito ne è stata una prova tangibile: da oltre un anno portano in giro il loro ultimo disco Dal Diario di Luigi La Rocca, una musica che è stata definita « teatro canzone » (un po’ come quello di Giorgio Gaber), che frulla insieme pop, rock, funky, folk, musica leggera italiana, musica contemporanea e dove i testi hanno una parte importantissima. Nella formazione live sono presenti anche due musicisti locali, Tommy Fusco di Costa Volpino al basso e Vittorio Bonadei di Castro alla batteria.

Quando capiteranno ancora nelle nostre zone correte a vederli, sono una cosa unica ed originale nel panorama musicale italiano.

Abbiamo voluto porre loro alcune domande a cui hanno gentilmente risposto.

 

Qual è stata la scintilla che ha fatto formare il gruppo? Quali erano i vostri ascolti a metà degli anni 90? Prendete il nome da una canzone di Syd Barrett quindi immagino che possa essere uno dei vostri artisti preferiti . Ricordo che avevate una vendita per corrispondenza di dischi « incredibilmente strani », oltre alle vostre prime incisioni e già leggendo il vostro catalogo mi sembravate molto simpatici.

Cinzia/Alberto: Grazie 🙂 Guarda, il tratto distintivo delle nostre personalità è probabilmente quello di essere “sopra le righe” ma in modo naturale, senza pose o forzature. Ci ha sempre attratto, soprattutto in quel periodo, ciò che appariva ribaldo, strambo, anche sbagliato, fallimentare, suicida, non professionale. Cercavamo qualcosa che fosse più colorato, giocoso, sfottente rispetto al post-rock che imperava (e che abbiamo recuperato largamente in seguito). Difficilissimo riassumere: si andava dalle stranezze nipponiche alle più ardite sperimentazioni art rock che venivano fuori dall’est Europa.
Poi andavamo pazzi per il recupero dell’exotica, della space age, tutta quella scena di cui si occupava all’epoca soprattutto Francesco Adinolfi (critico musicale del Manifesto ndr.).

 

Il vostro primo album è datato 1998 ed è un disco piuttosto sperimentale per il panorama italiano dell’epoca, ricorda molto bands come Residents, Half Japanese e certa new wave/no wave degli anni 80. Come avvenne la genesi del disco?

 

C/A: Quel disco fu frutto proprio dell’amore sfrenato per quella scena lì, la no wave. Ma, come dicevo poc’anzi, non si trattava di amore per la forma, né di volontà di replicarla per aderisce a una scena. Quelle dissonanze, quei balbettii, quegli scazzi musicali, quella sporcizia, erano qualcosa che somigliava terribilmente a come ci sentivamo dentro, creature completamente sbagliate per il mondo nuovo che stava nascendo e per la controrivoluzione borghese e ipercapitalista.

 

La vena sperimentale è proseguita poi con il secondo album del 2001, in cui si accentua la vena « free » con canzoni che potremmo definire (in senso buono) « storte » e con il terzo, uscito nel 2002, in cui Cinzia e Alberto sono presenti solo come compositori, mentre l’esecuzione dei brani è affidata ad amici musicisti. Wikipedia definisce  il disco come « un cocktail di lounge, jazz, canzoncine circensi e avanguardia ». Che cosa vi ispirava in quel periodo?

C/A: Può sembrare in contrasto con il discorso della “sporcizia”, dell’inadeguatezza ai tempi e invece era l’altro lato della stessa medaglia, la nostalgia per un’epoca in cui la cultura popolare non era solo plastica da centro commerciale ma anche la perfezione pop di un Burt Bacharach, il jazz da night club…

 

Nel 2003 pubblicate quello che è uno dei vostri dischi da me preferiti, Bacharach For President, Bruno Maderna Superstar!, che è una dichiarazione di intenti a partire dal titolo (Bruno Maderna è stato uno dei maggiori compositori d’avanguardia del Novecento n.d.a.), splendida raccolta di canzoni pop dal bizzarro andamento, che vede come ospite in due brani del trombettista Roy Paci. Il dualismo pop/avanguardia ha sempre contraddistinto tutta la vostra carriera, in questo album vi spostaste decisamente verso il primo, fu una cosa pianificata oppure una naturale reazione alla sperimentazione dei primi tre album? La voce maschile che si sente nell’album è di Alberto?

C/A: Siamo totalmente incapaci di pianificare, ma non tanto per dire una roba a effetto, è proprio così.  Al contrario, siamo straordinari nel boicottare il lavoro in corso d’opera. Semplicemente il disco è venuto fuori così, vai a sapere perché. Roy Paci ce lo ricordiamo nella nostra cantina a suonare le sue parti di tromba in piena estate, con una temperatura intorno ai 45 gradi. Ai suoi piedi di formò una vera e proprio pozza di sudore. Lo abbiamo raccolto in una ampolla e quando lui raggiungerà l’apice del successo, la venderemo a un paio di milioni di euro. È il nostro piano pensione.
Le voci maschili nel disco sono di tanti ospiti diversi, se qualcosa è spaventosamente stonata allora è di Alberto, altrimenti no.

 Nel 2005 esce Morte A 33 Giri, in cui passate dall’uso dell’inglese all’italiano. È’ stata una scelta voluta per espandere il vostro pubblico o perche’ avevate l’esigenza di raccontare delle storie per cui l’uso dell’italiano era più immediato?

C/A: Ti diciamo la pura e semplice verità: usavamo l’inglese solo perché contaminati, senza volerlo, da quella spocchia esterofila tipica di molti musicisti alternativi dell’epoca. A un certo punto semplicemente ci siamo detti: siamo italiani, se dobbiamo chiedere il prosciutto al salumiere mica diciamo: “Give me one ett of prosciùtt”. Le canzoni non dovrebbero mai parlare una lingua diversa da quella che si usa tutti i giorni. Da lì è anche iniziato un recupero compulsivo di tutta la musica italiana possibile.

Considero Morte il vostro disco più indie, con questo termine intendo un certo tipo di suono e modo di comporre che si trovava nella musica italiana degli anni Novanta e Zero, e immediato. Sottosopra , uno dei due brani con Bugo, avrebbe potuto essere una piccola hit (e forse lo è stata). Cosa ne pensate?

C/A: Quando uscì “Morte a 33 giri” intorno ci fu molto movimento. Eravamo piaciuti parecchio a moltissimi giornalisti, anche a Rockit, senza volerlo c’eravamo inseriti nella scena indie, addirittura alcuni giornali scrissero allora (e anche in epoca recente) che noi avevamo aperto la strada allindie italiano in italiano, potevamo davvero fare i soldi in quel momento. Sarebbe bastato fare subito un altro disco su quella stessa scia, scegliere i giusti featuring e via. Qualche anno dopo ci avreste visti a Sanremo com’è successo per la stragrande maggioranza degli artisti indie di successo dell’epoca. Invece siamo spariti per 4 anni, tornando con un doppio che con l’indie non c’entrava nulla.  Non riusciamo proprio a pensare in termini commerciali, di convenienza. Zero. Non ce ne facciamo un vanto, è semplicemente così, bisogna prenderne atto.

 Da questo disco in poi avete avuto una formazione piuttosto stabile per suonare dal vivo. Prima non ne sentivate l’esigenza?

C/A: Sempre sentita, ma in Sicilia è più complicato. O magari no, semplicemente non siamo stati capaci di organizzarci.

 Il vostro è stato sempre un progetto aperto alle collaborazioni esterne, sia di musicisti di ambito underground per cui avete anche prodotto dischi con la vostra etichetta Snowdonia (mi vengono in mente Andrea Tich e Stefania ?Alos Pedretti), sia di musicisti di ambito mainstream (come Mario Castelnuovo, Piotta in passato o Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari nell’ultimo disco). Come avvengono queste collaborazioni? Come scegliete i musicisti con cui collaborare? Portate loro il brano finito, oppure è una collaborazione alla pari per composizione o arrangiamento?

C/A: Dipende, non c’è assolutamente una regola. Alle volte esiste già il brano e chiediamo a un amico se gli va di suonare o cantare una certa parte. Altre volte la canzone nasce da zero, come ad esempio è successo con Riccardo Zanotti, che ha scritto la musica per due canzoni.

 Nel 2009 esce Balera Metropolitana , doppio album che segna uno scarto, sia nei testi che nelle musiche, rispetto alle prove precedenti e primo di una trilogia che continua poi nel 2018 con Maledette Rockstar e si conclude con il Diario di Luigi La Rocca dello scorso anno. Tre doppi « concept album » come una volta si diceva, definiti dai critici come « teatro canzone », in cui i testi, molto ironici, raccontano una storia, o più storie legate tra loro lungo tutto l’album e la musica è un frullato di vari generi (pop, rock, funky, dance, folk, avanguardia). Qualcuno ha citato Frank Zappa, ma anche Matia Bazar e Giorgio Gaber. Potete parlarcene?

C/A: Rainer Werner Fassbinder, uno dei nostri artisti preferiti, quando girava un film voleva che il pubblico lo interiorizzasse e lo trasformasse in azione politica. Non una visione passiva, borghese, intellettualistica, ma fonte d’ispirazione alla lotta per cambiare l’esistente. Il nostro desiderio è il medesimo, anche se ci rendiamo perfettamente conto che, oggi, parlare di lotta, di cambiamento dell’esistenza, è qualcosa che suona “archeologico”. Eppure non sappiamo far altro che guardarci intorno e consegnare la nostra rabbia, il nostro odio per la società com’è oggi, nelle mani o, meglio, nelle orecchie, di chi ha voglia di ascoltarci. Il paragone con geni come Gaber o Zappa, francamente, ci imbarazza. Siamo tutti nani rispetto a quei giganti lì. Però la buona volontà non ci manca!

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