Ci vorrebbe un Maigret. Ma ci si potrebbe accontentare di un Montalbano. Ma anche il vicequestore Rocco Schiavone, già più trasgressivo (fuma le canne), potrebbe essere utile. Li unisce nei romanzi la curiosità umana, capire i perché, dando per acquisito che “tutti noi possiamo diventare assassini, dipende dalle circostanze e prima di quel gesto siamo tutti persone normali”. Ma Maigret andrebbe a cena dall’amico medico Pardon (cognome onomatopeico per le… scuse) e dopo aver cenato, i due si apparterebbero in salotto con un armagnac e l’inseparabile pipa e il commissario porterebbe con discrezione il discorso sull’ultimo omicidio, il caso di quel ragazzo che ha ucciso una ragazza e non si capisce il perché. E il medico a raccontare di un suo giovane paziente che gli aveva chiesto qualcosa di forte per sopportare di vivere.
Maigret comincerebbe col dire “non tocca a me giudicare”. Ecco, ma capire sì, serve. Il commissario quando è chiamato perché c’è un morto ammazzato, all’inizio sembra girare a vuoto, “annusa” l’ambiente, vuol capire come si vive in quel quartiere, le voci, gli odori, i colori, entra nei bar e la prima ordinazione sarà poi quella che si potrà definire “il solito” detto al barman che sembra fare amicizia con il commissario.
Ecco, la cronaca ci riporta alla canzone dove l’incipit è sconsolante: “Non tutti nella capitale / sbocciano i fiori del male / qualche assassinio senza pretese / lo abbiamo anche noi qui in paese” (Brassens/De André).
Sarà la globalizzazione. Angeli e demoni, difficile oggi distinguere il bene dal male. Perfino il capo degli angeli, Lucifero (portatore di luce) cede alla tentazione e tenta il colpo di Stato contro Dio. E non è consolante ricorrere all’altra canzone che recita “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura”, ci sono inferni in terra che portano al degrado fisico e morale.
Andiamo troppo di fretta, abbiamo creato un mondo troppo competitivo e troppi cadono ai bordi della strada, sfiniti, altri hanno moti di ribellione e ti trascinano con loro, altri ricorrono ai rapporti di forza, finché le forze non vengono meno e da carnefici si fanno a loro volta vittime.
Ci manca il coraggio di fermarci a capire, “annusare” i sintomi di quello che potrebbe succedere, una generazione di ragazzi che abbiamo definito frettolosamente fortunata (“noi alla tua età…”), che ha tutto ma gli manca quel qualcosa che non li faccia precipitare nel “male di vivere”. Gli soffochiamo i sogni soddisfacendo i bisogni, creati a uso e soprattutto consumo, bisogni placebo, pur di non rispondere alle domande esistenziali, cosa ci faccio qui, cosa studio a fare, cosa ne faccio della mia vita e finisce che la loro vita “ce la lasciano qui” o la tolgono ad altri nell’illusione di essere qualcuno o per noia o per amore.
La canzone di Brassens/De André finisce col pianto che redime: “Quando i gendarmi sono entrati /
piangenti li han trovati / fu qualche lacrima sul viso / a dargli il paradiso”. No, non troverà il paradiso quel ragazzo che ha ucciso, e non sa dire ancora perché, quella ragazza. Che cosa ha scatenato quell’impulso omicida? Servirebbe capire. Questi ragazzi hanno magari imparato ad elaborare il lutto, ma non sanno ancora elaborare il rifiuto. E tra i rifiuti umani ci finiscono, come i cani randagi finiscono sotto un’auto che passa veloce: “E ci sono dei cani / che finiscono marci in un fosso: / la terra prende tutto” (Pavese).