C’è una lapide sopra il portone di una caratteristica casa di contadini nel centro di Peia, in Val Gandino. Ricorda che lì nacque il 19 gennaio 1853 Francesco Giuseppe, terzogenito dei sette figli di Giuseppe Brignoli e Caterina Bosio. All’interno c’è una corte dove ogni sera in estate si riunivano tutti gli abitanti della contrada. Papà Giuseppe leggeva passi della Bibbia, la mamma Caterina recitava il rosario e le ultime preghiere della sera. Era gente povera ma laboriosa, dedita alla campagna e alla cura degli animali domestici. Il piccolo
Francesco crebbe in questo ambiente e niente lo distingueva da tanti altri suoi coetanei. Accompagnava anche lui il padre nei campi, pascolava pecore e mucche sulle pendici del monte Croce, scherzava e rideva con i suoi piccoli amici, non lesinava scherzi innocenti imitando la recita del rosario delle donne.
La sua vocazione maturò con la devozione e l’affetto per la Vergine Maria, conosciuta nel Santuario della Madonna delle Grazie, sopra Peia. Ci saliva spesso con i genitori e con le sorelle e rimase sempre legato a quel luogo.
Decise di entrare in seminario, a Bergamo, quando aveva già 16 anni e la prima a
saperlo fu sua madre. “Chissà in quali pasticci mi metterai”, sbottò appena Francesco le
ebbe confidato il suo proposito. Ma poi fu proprio lei, insieme allo zio sacerdote, ad accompagnarlo in seminario.
Era quello un periodo storico burrascoso, che seguiva la nascita dell’Unità d’Italia, tra
il 1864 e il 1874. La questione romana segnava pesantemente i rapporti tra Stato e Chiesa, c’erano vessazioni continue ai danni del clero e lo stesso Seminario di Bergamo subì in quegli anni la chiusura e il sequestro dei beni.
Soltanto dal 1874, Francesco poté seguire con regolarità i corsi di filosofia e di morale che richiedeva l’indirizzo teologico dell’epoca.
Nonostante la durezza e la rigidità della preparazione sacerdotale tipica del tempo, Francesco risultò pienamente adatto e venne dunque ordinato sacerdote il 22 maggio 1880 nella chiesa di S. Giovanni, sul Colle.
La prima destinazione di don Francesco fu la parrocchia di Barzizza, in Val Gandino, dove rimase per 5 anni.
La sua preghiera continua nella chiesetta di San Nicola gli procurò subito una grande
venerazione da parte dei valligiani. Passò poi a Peia, il suo paese natale, divenendo anche maestro nelle scuole comunali di Leffe. Rifece a piedi per sei anni la strada che unisce Peia a Leffe, uno sforzo anche fisico che minò la sua salute già delicata. Fu proprio in quegli anni che soffrì i primi sbocchi di sangue. I suoi superiori, per sollevarlo dall’impegno più gravoso, gli proposero come destinazione la piccola parrocchia di Bani, una frazione di Ardesio.
Raggiunse quel luogo, dove sarebbe rimasto per oltre 40 anni, la sera del 23 dicembre
1890.
La parrocchia di Bani era diventata autonoma, staccandosi da quella di Ardesio, il 2 giugno 1711. All’epoca aveva 260 abitanti, per lo più agricoltori ed emigranti. Quel luogo era tristemente noto per una tragedia avvenuta il primo gennaio 1689. Una gigantesca valanga, staccatasi dalle pendici di Cima Bani, aveva distrutto il villaggio e la chiesa più antica, dedicata a San Giovanni Battista. Sotto la neve erano rimaste 19 persone e altre 30 erano state travolte e salvate. La chiesa venne presto ricostruita e negli anni successivi arricchita e abbellita da opere firmate dai migliori artigiani dell’epoca, con un altare maggiore di scuola fantoniana.
La frazione, arroccata attorno alla piccola chiesa come un alveare sulla sponda destra della Val Canale, è dominata ancora oggi dai pendii severi e dalle rocce del Monte Secco e del Pizzo Arera. Don Francesco arrivò quella sera alla Vigilia di Natale a bordo di un calesse, debilitato dalla tubercolosi. Doveva ancora percorrere a piedi la mulattiera da Marinoni e Bani.
Non aveva bagaglio con sé, nemmeno una camicia e per cambiarsi accettò quella che
gli offrì una donna del posto.
Per tutto il tempo in cui restò lassù rimase questo il suo stile di vita. Era arrivato povero e tale sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. Aveva una ricchezza diversa da donare e questo avrebbe fatto con grande generosità e fino all’ultimo: il dono della sua grande umanità e della cura pastorale.
In quella sorta di eremo tra le montagne, don Francesco lentamente riacquistò anche
la salute, adattandosi ad una condizione difficile di estrema solitudine e di isolamento. Nonostante il carattere chiuso e poco comunicativo della gente di montagna, don Francesco seppe però ben presto conquistarsi il cuore di tutti. La sua casa divenne col tempo il riferimento di tutta la comunità e la fama di quel prete eremita cominciò a spargersi anche oltre i confini della valle. Era proverbiale la sua carità, l’attenzione che dedicava ai problemi di tutti ed era capace di comporre liti e conflitti, di restituire la pace nel cuore ai tanti che salivano da lui anche solo per una parola di conforto. Un pellegrinare ininterrotto che durerà più di quarant’anni e che coinvolgerà migliaia di fedeli.
Lo testimoniò un santo che lo aveva conosciuto bene, papa Roncalli, che, quando era delegato apostolico in Bulgaria disse di lui: “Oh quanto bene ha compiuto quel sacerdote che tutti chiamavano l’uomo dei miracoli, ma che io ho sempre detto l’uomo della preghiera”.
Nella stanza di don Brignoli, ogni sera e fino a notte tarda, restava accesa la luce di una candela a ricordare i vivi e i morti e la gente di Bani guardava quella piccola finestra illuminata con speranza e gratitudine.
Non era soltanto l’umanità e la spiritualità che infondeva a giustificare la fama crescente che spingeva un fiume di gente verso l’eremo di Bani.
Presto si cominciò a parlare di veri e propri miracoli compiuti da don Brignoli. Il “prete santo” lo consideravano, Ol Pret di Bà, lo chiamavano i valligiani. Le testimonianze
della gente, gli ex-voto e gli articoli dei giornali attestavano che in molti casi don Francesco aveva veramente cambiato il corso della vita e degli eventi per tante persone che a
lui si erano rivolte. In particolare, gli si attribuiva la capacità di vedere le cose prima che accadessero. Su questi fatti la Chiesa prendeva le distanze, ma non c’erano dubbi per la
gente comune. Quel prete aveva una sua grandezza, come i profeti di cui parlava la Bibbia.
I giornali facevano titoli che si richiamavano frequentemente al “santo curato d’Ars”, il sacerdote vissuto in un piccolo paese della campagna francese nella seconda metà dell’Ottocento, beatificato nel 1905, che è diventato il simbolo della santità sacerdotale.
Mons. Luigi Morstabilini, da vescovo emerito di Brescia, ricordava un episodio personale che lo legava al vecchio parroco di Bani. Sua madre lo portò da don Francesco Brignoli per un consiglio sulla scelta di diventare prete. «Il debito da parte mia è grosso, perché si tratta della stessa mia vocazione. Lui fu entusiasta della cosa… mise nelle mani della mamma una discreta somma che servisse per il mio corredo e corse a prendere un vecchio cappello
da prete, di quelli col pelo, e me lo mise in testa facendomene dono dicendo: “Tuo figlio non diventerà solo prete”»
Nonostante le diffidenze ufficiali, erano tanti infatti anche gli uomini di Chiesa che si rivolgevano a don Francesco e mantenevano corrispondenze e rapporti con lui.
Era anche un’altra la virtù di don Francesco. Povero tra i poveri, aveva però anche la
capacità di aiutare concretamente e materialmente tutti quelli che si rivolgevano a lui.
Lo faceva destinando interamente alla carità tutte le donazioni e le offerte (si diceva
fino a mezzo milione di lire al giorno) che richiamavano il suo carisma.
In questo modo, don Brignoli fu anche in grado di portare l’energia elettrica a Bani. Lo riconobbe il Podestà di Ardesio, che lo ringraziò pubblicamente con questa lettera, sottolineando “la disinteressata collaborazione nella soluzione di importanti problemi amministrativi quali la costruzione e la sistemazione di strade e la esecuzione dei lavori per l’abbellimento e l’ingrandimento del cimitero, per dotare di acqua potabile e di pubblica illuminazione elettrica codesta frazione”.
Don Brignoli promosse a sue spese anche la costruzione delle chiese di Gandellino e Pianico. Abbiamo ritrovato negli archivi parrocchiali di Gandellino, tra vecchi registri, i conti che il parroco suo grande amico, annotava come entrate per la costruzione dell’edificio. Il primo versamento è del 26 febbraio 1923, pari a 6000 lire dell’epoca. L’ultima delle 139 donazioni di don Brignoli porta la data del 1° gennaio 1934, il giorno prima della sua morte.
Don Brignoli contribuì anche a restaurare quel piccolo santuario della Madonna delle Grazie, sopra Peia, dove saliva da bambino e dove era nata la sua vocazione alla Vergine.
Alla Madre di Gesù era sempre rimasto legato e invitava quanti ripartivano da lui a passare da Ardesio. Era lì infatti il santuario più importante dedicato alla Madonna delle Grazie alla quale andava reso il merito di ogni sua benedizione. Don Brignoli riuscì anche a mantenere e fare studiare, pagandone la retta, 72 seminaristi. Ancora oggi, su nella canonica di Bani, i
seminaristi di Bergamo si ritrovano ogni anno per un periodo di ritiro spirituale.
Fino all’ultimo, don Brignoli rimase legato alla gente della sua valle. A quell’epoca erano tanti quelli costretti ad emigrare per trovare una vita dignitosa, in particolare verso la Francia e la Svizzera. Don Francesco aveva per loro una attenzione tutta particolare e manteneva stretti rapporti epistolari e di corrispondenza.
Un altro tratto distintivo del parroco di Bani era l’amore per i bambini, dei quali ammirava l’innocenza e la grazia. Li voleva sempre sull’altare, ne curava il catechismo e a loro e ai loro genitori è rivolta in particolare la sua ultima preghiera, una sorta di testamento spirituale scritto pochi giorni prima di morire, il 23 dicembre 1933.
“Dilettissimi, tra pochi giorni non vedrete più il vostro parroco salire all’altare per celebrare il divino sacrificio, ma completerà il sacrificio nel cielo…
Dal primo giorno in cui misi piede in questa parrocchia, o carissimi, fino ad ora che ho un piede nella tomba, ho sempre pregato e mi sono adoperato per l’innocenza dei vostri bambini. Fu sempre mia premura custodire quelle anime che del mio gregge erano e
sono le predilette. E fu sempre mio desiderio averle a me dattorno come una corona di gigli.
La responsabilità di questi piccoli è nostra. È vostro dovere, o padri e madri, vigilare su
di loro. Non preoccupatevi solo che crescano sani e robusti, ma soprattutto che si avvantaggi l’anima loro. L’innocenza è il più bel dono, il più accetto a Dio, è quello che fa felici e cirende privilegiati… I bambini sono vostri: il Signore li ha dati a voi, la responsabilità è vostra.”
Ol Pret di Bà morì il 2 gennaio 1934. Quella notte, per la prima volta dopo 43 anni,
alla finestra della sua stanza non apparve più la luce di una candela… Il funerale di don Brignoli fu un evento che in tanti ricordano ancora oggi. Vennero a migliaia su a Bani in
quel freddo giorno d’inverno, su strade coperte da oltre un metro di neve. Chiunque lo
aveva conosciuto non volle mancare a quell’estremo saluto. In tanti si domandarono
allora e ce lo domandiamo ancora oggi, chi era veramente quell’uomo capace di
smuovere tante passioni e tante folle. La bara venne accompagnata al cimitero seguita da un impressionante corteo di fedeli, del quale non si scorgeva la fine. Il grande assente, allora come oggi, è stata la Chiesa ufficiale, che non volle riconoscere la forza
e la spiritualità di quel semplice prete di montagna. Quel carisma di devozione e di carità che la gente comune sa invece riconoscere immediatamente come il vero segno della grandezza.
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