(La prima parte è tratta dal numero del 1° marzo del 2024 e la seconda parte dal numero del 22 marzo del 2024)
Il 24 marzo 1974, a Lovere, si concludeva la vita di Giovanni Brasi, di professione fotografo, ma comandante partigiano per tutta la vita. Alla fine la malattia aveva avuto il sopravvento e per il vecchio Montagna era venuto il tempo in cui poter riposare, con il fazzoletto rosso al collo a testimoniare per sempre le sue idee e il suo coraggio. Per molti era stato, da vivo, un figura scomoda, a volte irritante. Anche da morto continuava a suscitare reazioni, spingendo qualcuno – rimasto anonimo – a mettere a soqquadro la sua casa, rovesciando sul pavimento fotografie, sottraendo oggetti, identificati solo in parte, alla ricerca di non si sa cosa. Benché malfermo di salute, non aveva smesso di interrogarsi, riflettere sulla storia, scontrarsi con gli altri, anche con i compagni di una volta, ma negli ultimi anni della sua vita aveva saputo trovare una nuova tensione ideale, un nuovo gusto del confronto e della discussione, a contatto con i giovani del Movimento Studentesco, che, rivolgendosi a lui quasi come a un maestro, avevano saputo ridestare speranze ed entusiasmi nel suo cuore vecchio ma mai stanco. Gli studenti, muovendosi nelle scuole e nelle fabbriche, impegnati nello sforzo forse troppo ingenuo di cambiare il mondo, ritenevano indispensabile avvicinarsi alla Resistenza per riprenderne la lotta e darle il giusto compimento. Lo avevano cercato e adottato, trovando in lui un interlocutore che volentieri rispondeva alle domande rivoltegli – gli studenti, organizzati da Natale Verdina e sotto la guida del professor Franco Catalano, docente di Storia Contemporanea all’università Statale di Milano, svolgevano ricerche di gruppo per conoscere non solo la Resistenza in generale, ma soprattutto quella meno nota, combattuta nelle valli e nei paesi della bergamasca. Parlando con loro, il vecchio comandante confessava di stare scrivendo anche lui, nel tentativo di raccogliere in un libro le sue memorie (di esso tuttavia non c’è più traccia; restano alcuni fogli manoscritti, altri dattiloscritti, un indice incompleto): qualche ragazza, più volenterosa che esperta di dattilografia, batteva a macchina i fogli che le venivano a volte affidati, non numerati, riempiti dalla inconfondibile grafia appuntita e nervosa, elegante nonostante la sua illeggibilità. Era come contagiato dalla vitalità dei ragazzi che, frequentando casa sua e imparando a conoscerlo, restavano colpiti dalla chiarezza delle sue idee, dalla quantità dei ricordi, dalla gentilezza galante con cui trattava le ragazze. Li sorprendeva per la facilità con cui sapeva preparare una risposta precisa e tagliente alle frequenti provocazioni fasciste, come quando, il 16 giugno 1973, condannò con un volantino la “mascalzonata dei teppisti fascisti” che avevano vandalizzato la lapide posta sulla strada per Sellere a ricordare la fucilazione di parte dei Tredici Martiri avvenuta il 22 dicembre 1943. Sapeva rendere esecrabile la violenza perpetrata, mostrando lo stretto legame con “i massacratori di Piazza Fontana, i mancati bombardieri del treno Ge-Roma, gli assassini dell’agente Marino a Milano, gli attentatori ai treni” degli anni precedenti, fino alle “canagliesche imprese” degli ultimi tempi. Indicava anche in quale direzione bisognava muoversi per contrastare le provocazioni fasciste: “Solo lottando contro il Capitalismo per il Socialismo si sconfiggerà il Fascismo che, giova sempre ricordarlo, è: la dittatura aperta e violenta della Borghesia”. Montagna in trionfo a Fonteno Nell’estate 1973 i giovani lo avevano accompagnato a Fonteno e per Montagna era stato un trionfo: aveva ritrovato l’affetto che la popolazione gli aveva già dimostrato nel passato, soprattutto la riconoscenza delle donne che, stringendosi attorno alla carrozzina su cui sedeva, gli abbracciavano le gambe piangendo di commozione. Il comandante poteva constatare – e i giovani ne erano testimoni stupefatti – che la 53ª Brigata Garibaldi, presente sui colli di Fonteno nell’estate 1944 e poi impegnata nella drammatica battaglia del 31 agosto contro tedeschi e fascisti, superiori per numero e per armamenti, non era stata dimenticata. La gente ricordava ancora la rapidità con cui Brasi, con una squadra di partigiani, era balzato giù dalla base posta sul Colletto alla notizia dell’arrivo in paese delle SS al comando del capitano Langer, che aveva preso in ostaggio donne, vecchi e bambini minacciandoli di morte e promettendo di incendiare il paese. Montagna aveva avuto la meglio sui tedeschi, uccidendone tre e facendone prigionieri una quindicina, dopo aver distrutto i loro camion; liberati gli ostaggi, si era lanciato all’inseguimento di Langer che con una quarantina dei suoi si era infilato nella valle di Fonteno per unirsi ai fascisti della Macerata, partiti da Clusone e diretti contro i partigiani trincerati sul Colletto. Dopo averli raggiunti, li aveva costretti alla resa, mentre in alto iniziava una battaglia furiosa, durante la quale le mitraglie del ten. Giorgio e di Ariel, sparando ininterrottamente, impedivano ai fascisti di avanzare, impegnati in un combattimento che sembrava non dover finire mai. Brasi intanto, tornato in paese con i suoi prigionieri, si trovava di fronte ad un nuovo pericolo. Da Solto saliva in aiuto al capitano Langer la Compagnia OP (Ordine Pubblico) comandata da Aldo Resmini, decisa ad attaccare per la seconda volta il paese di Fonteno. Considerata la difficoltà della situazione, Montagna si era consigliato con i partigiani che erano con lui e con i capifamiglia presenti: insieme avevano deciso di trattare con il nemico, offrendo di lasciare andare liberi i nazisti prigionieri – comunque troppi per le risorse di cui disponeva la 53ª e troppo importanti per non scatenare una rappresaglia da parte dei tedeschi – in cambio della rinuncia ad attaccare il paese da parte di Resmini, della cessazione del combattimento sul Colletto, dell’assicurazione da parte di Langer di non infierire in futuro sul paese. Ormai era scesa la sera, ma Brasi saliva fino al Colletto con il capitano nazista per imporre personalmente il cessate il fuoco. A mezzanotte la Macerata cominciava la ritirata verso Clusone, mentre i partigiani, alla spicciolata, si defilavano scendendo verso i paesi del lago di Endine; all’alba i tedeschi si avviavano a piedi verso Bergamo. La popolazione aveva sospirato di sollievo, anche se la calma sarebbe durata per poco. A Fonteno nel 1973 era evidente che il vecchio comandante non aveva perso il suo carisma: lo stesso carisma che gli era stato riconosciuto dalla misteriosa Maria – forse Lina, la figlia del prof. Vincenzo Rudelli, un’emissaria della Delegazione Comando CVL della Lombardia, salita all’inizio dell’agosto 1944 alla cascina Facchinetti, dove allora si trovava la 53ª, per sottoporre la formazione ad una rigorosa ispezione finalizzata a confermare la decisione di sostituire il comandante e tutto il quadro di comando. Erano pronti i nomi dei nuovi responsabili della formazione – il commissario politico Ennio Sangiorgio, cui era stato dato il compito di comunicare l’ordine a Montagna, non ne aveva però avuto il coraggio – e la Direzione non vedeva l’ora di procedere secondo le nuove direttive.
Parte 2
Quando Maria giunse alla base dopo una faticosa camminata a piedi per raggiungere da Ceratello il rifugio partigiano, aveva colto subito la particolare atmosfera che si respirava nella banda, rimanendo colpita dal legame esistente tra il comandante e i suoi uomini, un insieme di cameratismo, familiarità, rispetto. Si era perciò affrettata a scrivere che sarebbe stato un grave errore procedere alla sostituzione di Montagna che era l’anima della formazione e l’elemento che ne garantiva la coesione. La Brigata, piuttosto, si trovava in una situazione di grave bisogno, mancando di tutto il necessario. Maria chiedeva l’immediato invio di viveri, vestiario, munizioni, per mettere finalmente la 53ª in condizione di affrontare il nemico. Il rapporto di Maria era stato ascoltato. Brasi rimase come comandante; solo il commissario politico chiese di essere sostituito perché non si sentiva adatto al compito. Veniva riconosciuto l’ascendente che Montagna esercitava sui suoi garibaldini, che lo trattavano come uno di loro, ma ne riconoscevano sempre l’autorevolezza e l’equanimità. Queste stesse doti erano pure state apprezzate dal generale delle Fiamme Verdi della Lombardia Luigi Masini, quando il 4 ottobre 1944 era salito alla Colonia Rudelli, sopra Gandino, per risolvere con Brasi il problema della “secessione monarchica”: una quarantina di partigiani della 53ª, al seguito del maggiore Ezio Ravenna, contrari al fatto che la formazione fosse inquadrata nelle Brigate Garibaldi, volevano passare alle Fiamme Verdi, progettando di uccidere il comandante, GiorgioPaglia e Palmiro Faccardi. Il piano era stato scoperto ed il fatto era tanto grave che il generale aveva fatto presente a tutti i partigiani riuniti per l’occasione come i responsabili fossero passibili della pena di morte. Brasi, invece, si limitò a chiedere l’allontanamento dalla Brigata di tutti i secessionisti, imponendo loro la consegna delle armi di cui erano dotati, sollecitando il generale Masini a non accoglierli tra le Fiamme Verdi (cosa che fu assicurata ma non mantenuta). Il gesto di clemenza era stato accompagnato dalla piena approvazione del generale Masini che, chiamato ad esprimersi nello stesso incontro anche a proposito del cosiddetto “lancio rubato”, aveva riconosciuto ancora una volta le grandi capacità di valutazione e di decisione di Montagna, che pure era in attesa di un lancio per la sua formazione e aveva perciò colto al volo l’opportunità di quel rifornimento alleato: forse il lancio non era destinato alla 53ª, aveva osservato allora il generale Masini, ma, mentre i partigiani delle Fiamme Verdi evidentemente dormivano, i garibaldini erano svegli e attivi, facendo tutto il necessario perché lo sganciamento dei bidoni con armi, munizioni, esplosivi, giungesse a destinazione. Quanto era stato fatto, era stato fatto bene. Con questo provvidenziale lancio la 53ª il 31 agosto aveva potuto affrontare vittoriosamente tedeschi e fascisti a Fonteno; anche alla Corna Lunga, tra il 17 e il 18 ottobre 1944, i garibaldini erano usciti bene dallo scontro veramente impegnativo; le munizioni purtroppo sarebbero finite con la battaglia della Malga Lunga, conclusa con la cattura di gran parte della squadra di Giorgio Paglia, poi processata e uccisa al cimitero di Volpino. Brasi possedeva anche una innata dote di ironia, che serviva ad incrementare lo spirito di gruppo tra i partigiani della 53ª, ma anche a mettere a disagio eventuali interlocutori affetti da scarsa simpatia nei suoi confronti. Fu così che, dopo il dramma della Malga Lunga, seguito dalla fucilazione di Paglia e di altri sette dei suoi e dalla cattura e fucilazione dei due fratelli Florindo e Renato Pellegrini, mentre la 53ª si era divisa, trovando rifugio in Alta Valle Seriana e Montagna con un gruppo sparuto dei suoi si era nascosto tra le rocce sopra Maslana, la Delegazione Comando pensò di inviare alla base garibaldina l’ispettore Pietro, Gabriele Invernizzi. Era il dicembre 1944. Si rimproverava alla 53ª la scarsità di azioni e sempre si era orientati a sostituire questo comandante così autonomo ed indipendente, che non mandava neppure le relazioni dovute al Centro di Comando. Il SOE: “Intellettuale piuttosto che il tipico comunista” Giunto a destinazione, la situazione apparve in tutta la sua sconvolgente terribilità: i partigiani erano sistemati come in una grotta, costretti a sciogliere la neve per avere l’acqua necessaria, completamente sprovvisti di sale, impossibilitati ad accendere il fuoco per non essere traditi dal fumo. Pietro non ebbe il coraggio di mangiare il piatto preparato per tutti: un inquietante miscuglio di riso, aghi di pino e altri ingredienti non ben definibili; era distrutto dalla salita fra neve e ghiaccio, affrontata con scarpe da città e quando Montagna lo invitò a partecipare ad un’azione per l’indomani, sbalordito per la richiesta, rifiutò, preferendo ritornare in sede. Aveva tuttavia capito che quella del comandante era stata una provocazione, un modo garbato per respingere al mittente l’accusa di ignavia rivolta alla sua Brigata, costretta a sopravvivere in condizioni di isolamento, con gli uomini in balìa del freddo, indeboliti dalla mancanza di viveri, sotto la minaccia degli improvvisi spostamenti della Tagliamento e dei temuti movimenti dei tedeschi di stanza alla Manina. Insomma, la personalità del comandante non passava inosservata: avrebbe colpito anche gli Alleati quando, nell’aprile del 1945 sarebbero stati paracadutati gli uomini del SOE, Servizio Operativo Inglese, e al cap. Pearsons Montagna “di professione fotografo, per gusto personale amante di panorami alpini” avrebbe dato l’impressione di essere “un intellettuale, piuttosto che il tipico comunista”. Le sue doti comunicative erano rimaste intatte da allora e lo aiutavano di certo nel suo rapporto con i giovani. Spesso, quando raccontava dei mesi passati in montagna, Brasi andava ancora più indietro negli anni, fino agli inizi del ‘900, nello sforzo di spiegare come si era formata la sua coscienza antifascista. Ricordava il momento del suo ingresso in fabbrica a dodici anni, per prendere il posto del padre morto improvvisamente: lì, nella Franchi-Gregorini, aveva incontrato gli operai e grazie a loro aveva imparato che cos’era il socialismo, aveva conosciuto la natura della guerra e a chi giovava, aveva partecipato alle proteste del biennio rosso e all’occupazione dello stabilimento. Come tanti, aveva capito quali erano i limiti del partito socialista, attento alle riforme e interessato a mediare coi padroni più che a far valere le richieste dei lavoratori. Per questa ragione nel 1921 era passato al nuovo partito, il Partito Comunista d’Italia, sorto dalla scissione del PSI al congresso di Livorno, rendendosi conto della necessità di uno spirito più radicale nella lotta, tanto più necessario quanto più la repressione delle proteste operaie, operata dai gruppi di manganellatori pagati dai padroni, era selvaggia e violenta. Così, mentre il fascismo diventava, via via, da movimento partito, e poi unico partito di governo, quindi dittatura e regime, Brasi si mimetizzava con i compagni nella clandestinità, pur divenendo responsabile della cellula di fabbrica e del paese. Spiegava le ragioni per cui, nel 1929, licenziatosi dalla fabbrica, aveva deciso di espatriare in Francia come avevano già fatto tanti antifascisti, trasformandosi da operaio meccanico in fotografo, la professione che gli avrebbe permesso maggiore mobilità nel nuovo paese. Era poi rientrato in Italia nel 1935, quando Mussolini stava avviando la stagione delle guerre imperialiste, prima in Africa, poi in Spagna, in Albania, Grecia, Jugoslavia, Russia, a fianco di Hitler e dell’esercito dell’Asse. Per i militanti comunisti, rimasti fuori dal carcere, era indispensabile vigilare, diffondendo comunque le idee che avrebbero preparato il terreno alla futura insurrezione. Così, dopo gli scioperi nelle fabbriche nella primavera del 1943 e la destituzione di Mussolini il 25 luglio, era sembrato che le cose stessero finalmente cambiando, finché con l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre e del cambio di alleanze, di fronte alla creazione della Repubblica Sociale Italiana con a capo Mussolini per volontà della Germania nazista, iniziava il periodo della lotta armata: Brasi era subito salito in montagna con un gruppo di compagni antifascisti, consapevole che si sarebbe dovuto combattere contro i nazisti invasori e occupanti dell’Italia e contro i loro sostenitori fascisti. La lunga militanza internazionalista aveva improntato la sua vita, addestrandolo a analizzare e a valutare attentamente i fatti per trarne le conclusioni utili alla lotta, non solo contro un nemico da sconfiggere, ma soprattutto per un futuro di libertà e giustizia sociale. “Capelli alla bebé neri ricciuti abbondanti” Così aveva unito le sue forze a quelle del tenente Eraldo Locardi, badogliano, ma convinto come lui della necessità di muoversi quanto prima senza dar tregua al doppio nemico. Insieme avevano predisposto una serie di “colpi” da realizzare nello stesso giorno, il 29 novembre 1943: nell’azione però erano stati uccisi due fascisti eccellenti e, per questo, si era scatenata una reazione feroce che, dopo un rastrellamento eseguito da nazisti e fascisti insieme, aveva portato alla cattura e poi alla fucilazione di tredici partigiani, chiamati poi “I Tredici Martiri”. Per la prima volta si sperimentava la crudeltà violenta dell’oppressione, che non si limitava ad applicare la legge del taglione, ma, per vendicare due fascisti, uccideva tredici “banditi”. Il momento era stato particolarmente duro, ma con la primavera del 1944 Brasi aveva ripreso coraggio, ricontattando i vecchi compagni ed accogliendone di nuovi, fino a dar vita in giugno alla 53ª Brigata Garibaldi di cui sarebbe stato il comandante. Finita la Resistenza nell’aprile del 1945, consegnate le armi agli Alleati, con il ritorno alla normalità, ci si era dovuti accorgere ben presto che le cose non andavano come si era sperato. Si era scelta la repubblica, si era scritta una nuova costituzione, bellissima, preceduta da una serie di principi che avrebbero dovuto improntare la politica futura del paese. Ma intanto i partigiani, soprattutto se comunisti, non trovavano lavoro; l’amministrazione alleata a Bergamo si mostrava più preoccupata della sorte dei caporioni fascisti che delle difficoltà dei contadini e degli operai e l’amnistia liberava i pochi fascisti arrestati, mentre venivano messi sotto accusa sempre più spesso i partigiani. Finita la guerra – ricordava Montagna – aveva accettato di partecipare alle prime elezioni amministrative ed aveva accettato la carica di sindaco, per dimettersi tuttavia dopo pochi mesi, non essendo d’accordo con la politica del governo e del proprio partito. Aveva finito così per restare in disparte, sempre critico ma emarginato dentro il PCI cui sarebbe rimasto fedele rinnovando la sua tessera per oltre cinquant’anni, disinteressato alle occasioni che gli venivano presentate di far carriera. Raccontava agli studenti degli anni passati, avendo come solo conforto il lavoro che appagava il suo senso estetico, le escursioni in montagna, il sogno di una barca per andare liberamente a zonzo sul lago, la lettura e lo studio della storia, l’incontro con alcuni dei compagni di lotta. Non era facile vincere la nostalgia e vivere nella delusione. Condivideva tante cose con i giovani del MS (Movimento Studentesco), anche giudizi politici in controtendenza, come quello sulla “primavera di Praga” nel 1969, senza timore di esprimersi in modo contrario al PCI, che appoggiava la ribellione di Dubcek, mentre egli la considerava un attacco al mondo sovietico, preparato e sostenuto dai paesi neoliberisti occidentali. Aveva capito che la guerra fredda si era trasformata in una sfida più insidiosa, il cui obiettivo era l’erosione lenta e la conseguente distruzione di quanto era socialista o comunista perché rappresentava un pericolo o un ostacolo per il capitale occidentale: esso doveva essere reso inoffensivo, meglio se si riusciva a metterlo sotto accusa, snaturato nelle sue idealità, svuotato delle proprie certezze, indebolito nella volontà. Da qui la solida opposizione alla NATO, la ferma convinzione che l’Italia dovesse uscirne e recuperare gli spazi occupati dalle basi americane. Sembrava fosse tornato il giovane ribelle degli anni Venti, quello descritto nella scheda contenuta nello Schedario dei Sovversivi a Bergamo: un giovane dal fazzoletto rosso nel taschino con al fianco la fidanzata, sovversiva pure lei, indimenticabile coi “capelli alla bebé neri ricciuti abbondanti”. Per i carabinieri di Clusone incaricati della sorveglianza “detto Brasi Giovanni” non era un problema, appariva una figura di secondo piano, che non faceva comizi né si metteva in evidenza. Non si spiegavano come, “quando comandavano i rossi” fosse presente ad ogni iniziativa, mentre, dopo l’affermazione del fascismo, restava come in secondo piano: non erano sfiorati dall’idea che il nuovo comportamento fosse imposto dalle regole della clandestinità, imposte dalle leggi “fascistissime”. Giuseppina, invece, conosceva la passione con cui parlava delle sue idee e ne era a sua volta conquistata, affascinata – come avrebbe confessato alla figlia Brasiliana – dalla capacità affabulatoria di Giovanni, che sapeva coinvolgere l’ascoltatore con la forza delle sue parole e con la comunicativa del suo entusiasmo. I giovani del Sessantotto non si erano sottratti a tale incanto: lo ascoltavano senza stancarsi, mentre Montagna, che accettava volentieri il ruolo di narratore, sembrava far propria la giovinezza scanzonata e un po’ ribalda del suo pubblico. Tuttavia niente aveva potuto arrestare la malattia che alla fine lo aveva sopraffatto. Se ne andò accompagnato da circa duemila persone, moltissimi giovani – quelli che nel poco tempo passato assieme avevano imparato ad amarlo – e vecchi partigiani, che dopo trent’anni riconoscevano ancora in lui il comandante che avrebbero continuato a rispettare nel ricordo. Ormai invecchiati anche loro, stretti intorno alla bara portata vicendevolmente a spalle nel lungo percorso dalla chiesetta del palazzo Tadini al cimitero in un ultimo gesto di affetto, lo consegnavano infine allo spazio in cui giacevano i Tredici, compagni ed amici della prima ora, araldi per sempre di una lotta condivisa con generosa passione e di un sogno ancora di là da venire, ma comunque vivo ed atteso, di un mondo di uguali. Questa primavera ci riporta il sorriso gentile di Montagna: sembra scusarsi con noi del disturbo che ci arreca, costringendoci quasi a fermarci per pensare al passato. Al ricordo della sua vita – un mare di passioni, idee, azioni – anche noi ci rimettiamo al collo o nel taschino il nostro fazzoletto rosso.