(Dal numero del 19 luglio 2024) Violenza, bombe, case rase al suolo, morte, disperazione. Fabrizio Minini, 47 anni, originario di Darfo ma cooperante umanitario in giro per il mondo si ferma un attimo. Le immagini di quei 45 giorni “e 45 giorni per una missione sono praticamente niente” sono fisse nella memoria. E resteranno lì. Indelebili. “Quello che ho visto a Gaza credo sia fuori da ogni ordine e misura e che non ho mai visto in 30 anni di guerra. Un fazzoletto di terra grande come la Valle Camonica, solo che invece di avere 100mila abitanti, ne ha due milioni e mezzo e non esiste più niente. Non c’è una sola casa rimasta in piedi, ogni infrastruttura è stata distrutta, non c’è acqua, non c’è elettricità, la connessione internet è molto scarsa e i bombardamenti sono continui. E questo solo per metà paese perché la parte a Nord è ormai irraggiungibile perché è circondata dagli israeliani e non può passare nessuno”, racconta Fabrizio. Facciamo però un passo indietro. Come sei diventato cooperante? “Ho frequentato il Liceo Linguistico a Corna e in quegli anni si parlava molto della guerra in Bosnia. La Caritas di Darfo seguita da don Danilo Vezzoli era molto attiva ed era il collettore di ragazzi come me che si davano da fare per le raccolte alimentari. Credo che quell’esperienza mi abbia dato un imprinting per fare questo mestiere, che però è arrivato molti anni dopo nella mia vita. Sono stato anche a Sarajevo con i convogli e ho vissuto sulla mia pelle cosa significa vivere nei posti di guerra, poi finita la scuola ho iniziato a lavorare alla Serioli Arredamenti a Darfo, dove sono rimasto per dieci anni”. Il volontariato però ha sempre fatto parte della tua vita: “Sì e ad un certo punto mi sono chiesto perché non far diventare quella passione un lavoro… in quegli anni era venuta fuori Emergency, che era il primo approccio alla cooperazione a livello italiano, e ho deciso di partire. In quegli anni ero stato anche uno dei membri fondatori di Domani Zavtra e nel 2007 mi sono licenziato e sono partito per l’Ucraina.
Sono stato all’orfanotrofio di Gorodnya e qui ho speso la mia liquidazione perché ero un volontario”. Poi cosa è cambiato? “C’è stata una serie di combinazioni positive; sono stato un anno in Senegal poi due anni in Sud Sudan con l’associazione Tonj Progect di Rogno e poi sono passato ad Emergency con cui nel 2012 ho fatto un anno e mezzo in Sierra Leone. Questo è stato il mio primo lavoro da cooperante. Solitamente i nostri sono contratti da un anno e quindi poi è come ripartire da capo a cercare lavoro; da lì ho fatto un altro anno in Somalia con una Ong italiana, poi è stata la volta del Libano nel 2014 e l’anno successivo mi hanno chiamato dalla Danimarca e con loro ho fatto tre anni in Iraq. Dopo quell’esperienza sono passato alla Croce Rossa, sono tornato per due anni in Sud Sudan e tre anni in Ucraina”. A gennaio del 2022 il rientro a casa: “Avevo bisogno di prendermi un po’ di mesi di riposo ma è scoppiata la guerra in Ucraina e due giorni dopo la Croce Rossa Internazionale mi ha chiamato da Ginevra e sono ripartito. Sono stato a Odessa per un anno e poi un altro anno con una Ong americana e a marzo di quest’anno sono rientrato a casa”. Non ti sei fermato per molto tempo: “All’inizio di aprile ho deciso di partire per una missione nella striscia di Gaza, una zona che non avevo ancora fatto e che mi interessava molto. Ho fatto un contratto breve con una Ong francese e sono stato dentro 45 giorni”. Come sono stati? “Sono pochissimi rispetto a tutte le altre missioni, ma sono intensi e sono anche più del normale, perché di solito ci si sta un mese e poi si fa una pausa. Il nostro contratto era di tre settimane, ma poi siamo rimasti bloccati e siamo tornati il 1° giugno”. Essere un cooperante cosa significa? “A vent’anni pensi di poter cambiare il mondo, oggi ti dico che secondo me il mondo non lo cambi, ma stai lanciando una manciata di semi… forse soltanto uno o due attecchiranno e magari non vedrai mai la pianta crescere, però sai che stai facendo qualcosa per migliorare la situazione di un mondo che non è poi così distante dal tuo”. Fabrizio si ferma per un secondo poi riprende: “Lasciami fare una piccola parentesi, ci tengo a sottolineare una cosa, noi non siamo volontari ma siamo professionisti e percepiamo uno stipendio. Il nostro scopo è quello di cercare di mettere a disposizione le nostre capacità per gli altri. Molte volte si fa fatica a comprendere il nostro lavoro”. Tu di cosa ti occupi? “Io sono specializzato sulla parte tecnica e logistica, che è una parte di supporto, in poche parole preparo tutto il necessario per far lavorare gli altri. Ti faccio un esempio concreto, se siamo in Africa e dobbiamo costruire un ospedale, i medici e gli infermieri si occupano dei malati, mentre il mio compito è quello di far funzionare la struttura, dall’acqua all’elettricità, alla gestione dei rifornimenti sia alimentari che dal punto di vista dei farmaci”. E a Gaza come è andata? “La situazione era molto complicata, perché era difficile la gestione dei camion che entravano e uscivano, in particolare la parte della contrattazione e quella burocratica. Dovevamo sistemare tutto quello che arrivava nei magazzini in modo che non rubassero e poi distribuire alla popolazione dei campi profughi”. Tu dove hai vissuto? “Nelle case delle Ong adesso sono radunate tutte le persone che non hanno più una casa e quindi dove di solito viviamo noi in due o tre ci siamo ritrovati in 60 in due piani e mezzo. La metà erano bambini tra zero e dieci anni, quindi è stato complicato da gestire anche dal punto di vista della vivibilità e degli spazi da condividere. In genere le case delle Ong sono segnalate alle autorità in conflitto e quindi in questo caso agli israeliani, che sanno la posizione gps anche se comunque il rischio di essere bombardati esiste lo stesso”. Vi siete anche dovuti spostare: “Quando hanno bombardato Rafah siamo andati in una casa più sicura e abbiamo una scorta di cibo perché se fosse successo qualcosa dovevamo essere tutelati”. Hai avuto paura? “No, sono piuttosto fatalista e cerco di essere sempre abbastanza tranquillo, insomma penso che potrebbe succedermi qualsiasi cosa anche se fossi a casa. Devo anche dire che rispetto ad altri posti i bombardamenti sono costanti e spesso anche molto vicini, quindi è pericoloso muoversi in macchina e ho visto parecchi colleghi partire e non tornare più. Quindi più che paura direi preoccupazione di non riuscire a fare quello per cui sei lì, non riuscire a sfollare le persone. Poi parliamoci chiaro, noi abbiamo il passaporto europeo e il giorno che decidiamo di andare via, prendiamo l’aereo e siamo salvi… ma ho conosciuto dei ragazzi di trent’anni che lavoravano con noi, anche laureati e provenienti da famiglie benestanti, che non sono mai usciti dalla loro terra. Non lo possono fare”. Un episodio che ti ha colpito? “Un bambino di soli 14 giorni è stato evacuato per tre volte! Le persone che erano con me sono state evacuate almeno sei volte perché la loro casa non esisteva più. Quello che avevano costruito in tutta la vita era stato distrutto da una bomba e magari hanno avuto 50 secondi per andarsene. Mi sono chiesto molte volte come fanno ad avere quella resilienza e dall’altra vedi l’assoluto menefreghismo e indifferenza per le vittime civili, soltanto perché se non sei israeliano devi essere cancellato”. La popolazione come ha percepito il vostro aiuto? “Ci hanno accolto bene, perché sanno che sei lì per dare una mano, ma poi se parli a livello internazionale hanno perso anche la minima speranza… ormai non credono più che qualcuno si preoccupi per loro”. Torneresti a Gaza? “Uno dei miei progetti è quello di stare a casa e di staccare un po’ di mesi, ma se domani mattina mi chiamassero non direi di no. Ci tornerei anche perché in quel contesto ti rendi conto che puoi fare qualcosa. Era una missione molto pratica, non c’era da fare molta filosofia ma da lavorare”. Quando te ne sei andato cosa ti hanno detto? “Che speravano di vederci tornare e soprattutto di non dimenticarci di loro e per me questo è un messaggio importante, perché qualcosa cambierà solo se noi non caliamo l’attenzione… se la caliamo, facciamo il gioco di Israele”. Come si regge psicologicamente? “Diventiamo molto cinici e ce ne rendiamo conto, ma è come un anticorpo. Allo stesso tempo non devi perdere l’umanità nei confronti della gente e non perdere il contatto con la realtà. Quando inizi a percepire la stanchezza devi staccare, tornare a casa, altrimenti è più un danno che un aiuto”. Il tuo futuro? “Mi piacerebbe riuscire ad allargare ulteriormente i miei orizzonti, il mio bacino di lavoro, magari fare qualcosa di più specialistico nella logistica e allo stesso tempo penso sia difficile che io possa cambiare lavoro, anche perché dopo tanti anni non puoi pensare di tornare a casa e fare altro”. Quando sei in giro per il mondo, ti manca la tua casa? “Certo, mi manca la mia famiglia, mamma, papà e mia sorella, ma anche gli amici, ma sono fortunato perché mi danno un grande supporto e so che sono lì ad aspettarmi, per me questo è molto importante e mi aiuta sempre quando parto per una nuova missione”.