(Dal numero del 19 luglio 2024) Giugno 2009, 15 anni fa. Le porte del carcere si aprono di fronte a una nuova ‘ospite delle patrie galere’. Si aprono e subito dopo si chiudono. E negli occhi della nuova ‘ospite’ si specchia il suo futuro: 20 lunghi anni da passare in prigione. Due decenni durante i quali la sua vita sarà stravolta, la sua libertà annullata, la sua personalità messa a dura prova. Ma lei non si lascia travolgere, soffre ma prende in mano la sua vita e la ricostruisce, passo dopo passo. E adesso, quando le mancano pochi anni per finire di pagare il suo debito con la giustizia, lei è tornata (quasi) alla normalità. Vincenza, che tutti chiamano Enza, 57 anni, ci racconta la sua vita, le sue cadute e le sue speranze, i suoi momenti di sconforto e quelli di gioia. Ci racconta, in particolare, i suoi ultimi 15 anni, divisi tra carcere e lavoro. “Quando sono entrata in carcere nel 2009, sapendo che ci avrei passato 20 anni, è stata dura, molto dura. L’ingresso è stato traumatico. Quando ho visto la cella volevo morire. Mi chiedevo: ‘ce la farò?’. E alla fine ce l’ho fatta. Mi sono impegnata e mi sono messa in gioco. Ho voluto studiare e lavorare. Ho voluto rispettare le regole per poter usufruire dei vari tipi di misure alternative alla detenzione. Davanti ai miei occhi c’era un obiettivo: uscire il prima possibile dal carcere e tornare alla normalità, poter riabbracciare i miei cari… insomma, tornare a vivere”. Un fondamentale passo in avanti nella storia di Enza c’è stato alcuni giorni fa. “Proprio martedì 2 luglio sono uscita da una misura alternativa, che si chiama articolo 21, e sono entrata in un’altra, l’affidamento. L’articolo 21 prevede che in carcere tu stia in una sezione a parte, quindi non più insieme alle ragazze che sono in regime ordinario, e prevede che tu possa uscire dal carcere per andare al lavoro. Io potevo uscire alle 7 del mattino, prendevo i mezzi pubblici per andare ad Albino, dove cominciavo a lavorare alle 8 e mezza. Con l’articolo 21 devi rispettare determinate regole e anche i tempi sono ristretti; in pratica, puoi stare via solo il tempo necessario per svolgere il lavoro. Quindi era una vita tutta carcere e lavoro, ma era già comunque un bel passo avanti, perché stavo in una cella da sola e, come dicevo, in una sezione separata rispetto alle altre ragazze, perché nel femminile sono molto poche quelle che usufruiscono dell’articolo 21. Adesso invece, dopo otto anni di articolo 21, sono riuscita a passare a un’altra misura alternativa, l’affidamento ai servizi sociali. Adesso non devo più rientrare in carcere, nemmeno per dormire, perché vivo in un appartamento che mi ha messo a disposizione l’Associazione Carcere e Territorio. Esco la mattina, posso usare l’auto per andare al lavoro e la sera torno a casa. Sono quindi più libera”. Che lavoro svolge? “Lavoro ad Albino e assemblo caschi per bici, per equitazione e da lavoro”. Sul posto di lavoro le è capitato di parlare con i suoi colleghi, o con le altre persone con cui ha a che fare, del fatto che è una detenuta? E le pesa il giudizio altrui? “Io ho sempre cercato di fregarmene di quello che pensano gli altri. Comunque, quando ero entrata nell’articolo 21, qualche anno fa, avevo iniziato a lavorare come bidella in una scuola qui a Bergamo. Mi era stato consigliato di non dire niente, anche perché c’erano i ragazzi. Della mia situazione erano a conoscenza solo la preside, la responsabile degli uffici amministrativi e qualche professore che veniva a insegnare in carcere e mi conosceva perché io ho frequentato la Ragioneria proprio in carcere. Io quindi, tranne che con queste persone, non ho mai parlato della mia situazione. Non è però stata una vita facile, perché alcuni, pensando che io fossi una persona normale e con una vita normale, mi facevano domande a cui dovevo rispondere raccontando bugie. Ad esempio, io non potevo avere il cellulare e mi veniva chiesto: ‘dammi il tuo numero’. Io dicevo: ‘non ce l’ho’. E gli altri? ‘Non hai il cellulare? Strano!’. Dovevo inventare mille scuse e dopo un po’ questo diventava pesante. Ho poi fatto amicizia con alcune colleghe e, come capita in questi casi, mi invitavano a pranzo o a cena. E io dovevo sempre inventarmi qualcosa. Poi, dopo un anno e mezzo, sono andata a lavorare ad Albino in una cooperativa sociale, dove lavoro anche adesso. Lì però ci sono già stati anche altri detenuti, quindi non ho dovuto raccontare bugie. Ci sono però anche alcuni ragazzi con problemi e raccontare loro perché sono finita in carcere non è semplice. È capitato che venissero tutti i giorni i Carabinieri a controllare che io fossi al lavoro e una ragazza mi ha chiesto: ‘Enza, ma perché ti vengono a cercare tutti i giorni? Hai fatto qualcosa?’. E io, ridendo, le dicevo: ‘ho parcheggiato male la bici e ho preso la multa’. Così non si preoccupava”. Da quanto si trova ad Albino? “A settembre sono sette anni”. Poco fa mi ha detto di avere studiato Ragioneria in carcere. “Sì, mi sono diplomata e poi mi sono iscritta all’università. Io ho sempre voluto restare attiva, studiare, lavorare, altrimenti sarei impazzita”. Adesso le devo chiedere il motivo della sua detenzione. Enza sorride, rimane in silenzio per pochi istanti e poi risponde. “Allora. È una storia un po’ particolare. Io avevo un compagno, con quale ho avuto una delle mie due figlie. Ci sono stati vari litigi con il padrone di casa e, purtroppo, una di queste liti è finita male”. In pratica, durante la lite il padrone di casa è stato ucciso dal compagno di Enza. “Io non ho visto l’accaduto, però ero in casa e questo è bastato per condannarmi. In un primo momento mi è stato contestato il favoreggiamento. Poi, però, quando siamo arrivati in Cassazione, il mio avvocato non era presente e sono stati annullati i processi e ho dovuto ricominciare dall’inizio. Ho fatto sei anni di processi e alla fine il capo d’accusa che mi veniva contestato è cambiato, passando da favoreggiamento a concorso. Così sono stata bastonata”. Quindi, con il concorso in omicidio, a quanti anni è stata condannata? “Sono stata condannata a 24 anni, poi con l’indulto sono scesa a 20 anni e undici mesi. Ne ho fatti 15 di fila, dal 2009. In un primo momento nel carcere di Mantova, poi, dopo otto giorni, qui a Bergamo. Per più di otto anni ho condiviso una cella con altre ragazze, una volta eravamo addirittura in cinque. Condividere la cella con altre persone non è facile, dipende sempre da chi trovi. C’è magari la ragazza tranquilla con cui vivi bene, ma c’è anche quella che ha problemi, che ha un brutto carattere. Quello che manca di più in carcere è ovviamente la libertà, ma subito dopo la cosa più brutta è dover condividere la cella con altre persone diverse da te. Insomma, non è stato facile… Poi, finalmente, ho cominciato a uscire per lavorare, come dicevo prima. E tutto è cambiato, mi sentivo più libera, più realizzata”. Quanto le manca per saldare definitivamente il suo debito con la giustizia? “Io mi sono sempre comportata bene in questi 15 anni e quindi non ho perso nessuno dei giorni di liberazione anticipata che vengono scalati dalla condanna. Perciò dovrei finire ad aprile 2026, quindi fra meno di due anni. Non vedo l’ora. Già adesso è comunque un bel passo avanti rispetto a prima”. Quanti figli ha? “Ho due figlie, una abita a Mantova e l’altra a Napoli con i miei due nipoti”. Enza è infatti originaria della Campania. I suoi nipoti sanno della sua detenzione? “No, non lo sanno”. E pensa di dirglielo quando saranno più grandi? “Non so.
Dipenderà da cosa decideranno i genitori. Ci penseremo a suo tempo”. Sono nate amicizie in carcere? “Sì, mi scrivo ancora con una ragazza che è stata in cella con me per tre anni. Mi dice sempre: ‘la mia fortuna è stata trovare te’. È una ragazza bergamasca. Anche con una bresciana mi sento ogni tanto e mi dice che per lei sono stata come una mamma”. Enza porta al collo un medaglione con l’immagine di suo padre. “È morto tre anni fa. Quello è stato un episodio bruttissimo. Era malato. Mi aveva detto che sarebbe venuto a trovarmi quando stava meglio. È invece peggiorato all’improvviso. Sapendo che stava per morire ho chiesto subito il permesso premio di necessità, che viene concesso in casi del genere. Di solito questo permesso viene ottenuto dall’oggi al domani, invece ci sono stati problemi e l’ho ricevuto solo sei giorni dopo. Quando sono scesa al paese – dice Enza con la voce rotta dall’emozione – il mio papà era morto e stavano per fare il funerale”. Le è quindi mancato l’ultimo abbraccio con suo padre. “Sì, è un dolore che mi porto dentro. Mi diceva sempre: ‘quando sarai libera tornerai qui e faremo festa’. E invece…”. Enza accarezza il medaglione. Rivolge poi il suo sguardo al futuro, a un futuro non troppo lontano che la vedrà finalmente libera. E, in quel momento, potrà mettere la parola ‘fine’ a questo lungo e tormentato capitolo della sua vita.