Un primo dicembre nebbioso, piovoso, di 90 anni fa. Era fnita da poco la messa nella chiesa di Bueggio. Le donne erano tornate a casa e stavano facendo bollire sulla stufa un pentolino di latte per la colazione dei ragazzi che dovevano andare a scuola. Erano passate da poco le sette del mattino e dai camini delle case usciva il fumo buono del caldo consolante delle cucine con quegli odori di una volta, un misto di latte che bolle, formaggi che si lasciavano andare nelle moscaröle e panni stesi sopra la stufa, gli uomini che prendevano su la loro sacca del lavoro con la schisceta dove c’era il pane e qualcosa da mandargli dietro, una bottiglietta di vino lungo. I ragazzi cercavano qua e là libri e quaderni per preparare la cartella, rumori, poche parole, un saluto frettoloso, usci che sbattono.
IL VENTO FRADICIO Ma perché d’improvviso sbattono anche le ante delle fnestre? C’è un vento sconosciuto, innaturale per un dicembre appena spruzzato di neve qualche giorno prima. Piove sul mondo, su quel piccolo mondo antico che ha appena sentito la campana. Sul campanile c’è un uomo: aggiusta tetti per campare, l’altezza non gli mette le vertigini. Ha avuto i suoi amori e i suoi dolori ma a 38 anni ha una famiglia, dei fgli. C’era un amore lontano, una ragazza e per lei andava spesso giù nel bosco a raccogliere patüss, foglie secche per fare strame nelle stalle dove le bestie ruminano pacifche, con l’agitarsi inquieto, lì vicino, del maiale, il salvadanaio della famiglia e il muoversi circospetto delle galline. Quell’uomo alla sua ragazza di allora faceva fare un fgurone, l’unica che riuscisse a raccogliere tanti sacchi di foglie secche, un record. E nessuno in casa capiva come facesse. Lo sapeva lui come faceva, che lavoravano in due e pensavano al giorno in cui si sarebbero messi per conto loro. Era stato il suo primo amore e certi giorni i primi amori ti tornano in mente all’improvviso. Lui aveva avuto tutto il tempo di innamorarsi di un’altra ragazza, bellissima, di un altro paese, di Colere e avevano dei fgli che venivano su bene, adesso che lui aveva 38 anni ed era lì sul campanile a caricare l’orologio che segna il tempo che passa e già si prepara a contare il tempo che verrà. Dall’alto di quel campanile sente il vento, quel vento fradicio di giorni che non ha mai vissuto e che non vivrà mai più. E alza la testa a guardare su nella valle dove nella nebbia si dovrebbe vedere la grande muraglia della diga.
IL CAMPANARO DI BUEGGIO Una diga non fa vento, questo lo sanno tutti. Lui fa il campanaro e il parroco lo conosce bene, ha discusso con lui giorni interi. Quella diga sta lì sopra la testa, l’hanno costruita come in paese tutti sanno e però nessuno dice, perlomeno non ad alta voce, una diga nata male e cresciuta peggio, con ruberie di ogni genere. Il prete lo ha rassicurato e poi dal pulpito ha rassicurato tutti, quella è opera dell’ingegno dell’uomo benedetto da Dio, guardatela là in alto, sembra abbia le braccia aperte e par che dica, vi proteggo io. Da cosa, da chi? Ma dalla miseria, dalla fame, da tutto e da tutti. La gente ha ascoltato l’omelia, allora mica si poteva dire quello che si pensava, il parroco di un paese era Dio in terra, quello che diceva doveva essere presa per parola di Dio. Ma quello che diceva quella domenica alla messa grande non andava bene, perché quella muraglia con gli archi aveva nella pancia un lago da far spavento e l’acqua usciva dai muri con getti lunghi, innaturali, nelle fessure che non dovevano esserci in una diga, e sparavano l’acqua gelata a decine di metri. L’uomo è ingegnoso ma è anche avido, il prete si dimenticava dei peccato che gli raccontavano nel confessionale, siamo tutti peccatori e fgurarsi se gli ingegneri, i capomastri erano stati concepiti senza peccato. GLI USCI SBARRATI Il prete era in chiesa quella mattina, a recitare il ringraziamento, dopo la Messa, adesso che era restata una vecchietta sul fondo della chiesa, ma se ne sarebbe andata anche lei, tra poco, anche se a casa non aveva più nessuno che l’aspettava e per questo stava ancora lì: quando a casa non ti aspettano, non ti resta che aspettare a tua volta che fnisca, e dopo c’è solo da sperare che non siano tutte balle, che ci sia un paradiso o se va male un purgatorio che nemmeno ci si vuole pensare alla terza alternativa, dopo tutto quello che si è passato. Anche il prete sente sbattere forte i vetri dei fnestroni della chiesa, in alto, sopra il cornicione. Guarda in su, caso mai Dio volesse dargli un segno particolare, in codice, da decifrare, qualcosa che deve fare e alla svelta, per la salvezza delle anime che gli sono state affdate e dei corpi che le contengono. Le ante delle fnestre sbattono, volano via le lastre di ardesia, gli usci emettono scricchiolii, nemmeno ci fossero spiriti che vogliono entrare, fuori si sentono rumori, cose che volano via per sempre, attrezzi, secchi, vasi, pezzi di legna, carriole, stracci. Dalla stalla arrivano grugniti, muggiti, belati e l’abbaiare disperato del cane legato alla catena, che tira e tira che sembra voglia strozzarsi per conto proprio. Gli uomini e i vecchi spingono l’uscio per andare a vedere, l’uscio sembra inchiodato allo stipite del vento. L’AGONIA DEL PAESE Ma il primo a sentire il vento della morte e a vedere il fumo della disgrazia fu quell’uomo sul campanile. La valle del Gleno è prima di una nuvola nera come la pece e sotto gli alberi si piegano come fli d’erba, si spianano a terra come per un furioso inchino verso la valle, come se volessero mettere un tappeto al passaggio di un Dio. Un Dio di vendetta, da antico testamento, che manda il diluvio, sulla terra, per azzerare tutto e cominciare tutto da capo, un’altra volta. Un ragazzo esce dalla cucina, come fanno i ragazzi che non fanno calcoli, hanno tutta la vita davanti e non sembra ci sia forza al mondo capace di fermarli. Guarda su e vede arrivare qualcosa di informe, un mostro di acqua, fumo e vento che sta per precipitargli addosso, sta per cancellare il paese. Passa di corsa un uomo. Il ragazzo lo guarda: un uomo che corre fa ridere, i vecchi (perché per i ragazzi gli uomini sono tutti vecchi) non devono correre. Quello gli grida di scappare che sta venendo giù la diga. Il ragazzo ci mette un momento a capire, come fa una diga a venir giù, quel vecchio che corre deve essere matto. Poi lo riconosce. E’ lo zio. Il ragazzo grida qualcosa ma la sua voce si perde nel vento che adesso fa rumore facendo suonare tutte le imposte, le tegole, i camini, gli usci, gli animali, gli uomini del paese, un paese che si lamenta in un coro d’agonia prima di morire. Il ragazzo adesso ha capito che sta per arrivare la fne del mondo, del suo piccolo mondo giovane e già antico: corre dentro, l’uscio spalancandosi sbatte contro il muro, la mamma lo guarda e gli occhi cambiano espressione, capisce senza sentire, va verso la cuna che sta li vicino al caldo della stufa, prende in braccio l’altro bambino, fanno per uscire, ma la porta si è richiusa sbattendo di nuovo, non si muove, non si apre più. Scappano su per le scale di legno, verso il solaio.
IL CAMPANILE CHE CAMMINA Quell’uomo in cima al campanile vede, dietro al vento, arrivare un’ondata tumultuosa di acqua marrone, fango, alberi, roccia, pezzi di ferro e cemento. Resta lì affascinato e atterrito. Il diluvio passa sopra le prime case, arriva alla chiesa che si è già spaccata in due come un guscio di noce. Il campanile cammina sotto i suoi piedi, dritto, va avanti verso il burrone della valle. E lui là in alto che vede il mondo, il suo piccolo mondo, i suoi amori e i suoi dolori, la sua vita, persi. Per sempre. Crolla tutto, anche il campanile, dopo aver camminato impettito per una cinquantina di metri. E’ la fne. Si troverà solo un frammento di campana. La gente cerca di uscire dalle trappole che sono diventate le case. La fumana è passata in un attimo, allargandosi sui prati, scavando, spaccando e trascinando tutto, case e bestie, uomini e bambini. E’ già passata, il diluvio è passato. Chi è sopravvissuto ha gli occhi sbarrati, di chi ha visto in pochi secondi il principio e la fne, l’alfa e l’omega. Non si esce dalle case, il fango è alto due metri contro gli usci. Grida e richiami, ci si conta e manca qualcuno. Nomi che risuonano nella desolazione, che non hanno risposta. Dai paesi alti sulla valle la gente ha visto i vetri delle fnestre andare in frantumi. Ha pensato a qualche ragazzata ed è uscita in tempo per vedere un banco di nebbia scura con il fragore alto di una montagna che frana, come su una balconata naturale, sui poggi, a guardare giù il disastro. Lo chiamano così, da subito. Ed è un epitaffo per le centinaia di morti.
LA NEBBIA PRENDE FUOCO Una colonna di fuoco. La nebbia che prende fuoco, gli alberi che volano come uccelli, il mondo alla rovescia. L’antico testamento rievocato dalle prediche dure dei preti si è materializzato, ecco, l’inferno sarà così, acqua melmosa e famme alte che cercano di incendiare il cielo. Sono le centrali che esplodono. Quel miracolo della luce dei busitì dol Viganò, quelle lampadine che si accendono con un giro di manopola, senza olio, senza carburo, era contronatura e Dio si è vendicato. Prima che arrivi l’ondata i boschi si spianano arrendendosi al cataclisma. C’è gente che già fruga nel fango. I bambini sono i primi a riprendersi: trovano le canne dell’organo della chiesa luccicanti nel grigio del mare in tempesta. Se le portano dietro come bottino di una guerra mai dichiarata. Il prete verrà trovato nella palude di fango che era stata prato. Uno che passa frugando disperato cercando i suoi, vede spuntare qualcosa che sembra carne di animale: scava con le mani nella melma molle e lo tira fuori, che non si capiva chi era e cos’era, carne nuda insultata, la mente annichilita dalla pubblica sconfessione, di quel Dio che soleva dire che non era obbligato a pagare tutti i sabati. Dio quel giorno ha pagato di sabato.
IL VIGANÒ A VILMINORE Il Viganò, il proprietario della diga, è a Vilminore, nella sua villa all’ingresso del paese. La Marina sta spazzando vicino all’orto quando sente un rumore e grida qualcosa alla sorella Catì, senti la valle. I vestiti si fanno fradici, come piovesse a dirotto, pensano si sia rotto il canale di S. Maria, che viene già dalla diga. In quel momento esce sul cortile il Viganò e tutti vanno a guardare giù la valle. C’è una montagna nera che avanza, le piante si spianano. Poi un bagliore, come un fulmine nella buio della valle, brucia la centrale di Valbona. Il Viganò si è allungato per terra e batte disperato la testa sui sassi. Gridano e piangono tutti. Sapevano tutti che quando il Viganò partiva col suo mulo per salire alla diga, c’era un impiegato di Milano che telefonava agli impiegati e “così coprivano gli imbrogli, perché il cemento, invece di andare nella malta, andava da altre parti…”. LA CHIESETTA SPACCATA C’è un ragazzo che è stato svegliato dalla nonna. Era un ragazzo duro a svegliarsi. Ma quella mattina doveva andare per legna e la nonna gli aveva rovesciato le coperte. Freddo cane. Doveva scendere a Dezzo dove con suo fratello sarebbero saliti nel bosco. Con addosso la giacchetta del lavoro e il suo fagottino della colazione si avvia, ancora assonnato, per la strada che scende alle Fucine. Passa la curva e viene sbattuto indietro dal vento. Seduto per terra, intontito, vede una fumana gialla sboccare improvvisa da destra, dietro il masso che divide il torrente Povo, che vien giù dalla valle del Gleno, dal fume Dezzo, vede la chiesetta del miracolo spaccarsi, i mozziconi di muro bagnati, le famme salire verso le nuvole nere. Un uomo viene su dalla strada marrone di fango e grida agitando le mani. Il fragore dell’acqua. Non si sente, l’uomo ha la bocca aperta ma le parole sembrano non riuscire a farsi suono. Il ragazzo si mette a gridare anche lui e non sente nemmeno se stesso. L’uomo corre in salita, ansima, arranca, arriva lì vicino e urla: ‘scappa, scappa, è venuto giù il disastro’. Il disastro. ‘Quale disastro?’ ‘La diga, scemo, scappa’.
DEZZO. LA PRIMA ONDATA Al Dezzo l’alba era tetra come certi giorni di inverno che nessuno ci può far niente e si vive aspettando che passi la dura invernata e l’orto e il prato diano di nuovo di che campare, che quella diga di lavoro lì in valle ne aveva dato poco. Della diga si sapeva solo che faceva acqua dalle parti sbagliate. A Dezzo c’era gente che non dormiva in casa da settimane, si era fatta ospitare dai parenti nei paesi alti, quella lì si spacca e se non si spacca quella c’è il masso sopra il paese che viene giù e una notte ti entra in casa facendoti fare la fne del topo. Chi era rimasto non aveva visto la diga da vicino, c’era ben altro da fare che salire a guardare delle muraglie di cemento che avevano fatto un lago come non avevano mai visto, che quelli erano tempi che non ci si muoveva da casa se non per necessità o per dovere, mica si andava a fare la gita sul lago per vedere l’effetto che faceva. Un lago in cima alla montagna non va bene, Dio non ha fatto la terra mettendo il mare in montagna e se non l’ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. Un uomo era a letto ammalato, male di stagione, anche chi è abituato a stare nel buio delle miniere, subisce l’insulto di un’infuenza. Vede spalancarsi l’uscio, lo prendono su con le lenzuola e lui grida ‘ma cosa fate? Lasciatemi stare’ e loro niente, urlano e lo portano via, fuori di casa. E là fuori di casa, da quella portantina traballante, vede le case sull’altra sponda di Dezzo andare giù come birilli con letti e credenze che emergono e scompaiono. IL RITORNO DELL’ONDATA C’era uno quasi in mezzo alla fumana e aveva la bocca aperta in un grido silenzioso, emergeva e scompariva, alzava un braccio e l’acqua glielo richiudeva. Era attaccato a una pianta che si è piegata all’evidenza e se lo è portato via. Il masso della casa del curato aveva salvato mezzo paese. Sembrava passato tutto, la gente sui prati correva giù per scavare nel fango. E’ passata, è passata. No, ecco che l’ondata torna indietro. Era arrivata alla strozzatura della Via Mala, in un posto chiamato Riina di Cà, lì si era imbizzarrita, non aveva trovato sbocco ed era tornata sul paese spazzando via quel che era rimasto. Sembrò una crudeltà, un inferire della catastrofe sui sopravvissuti della prima ora. Passò, alta di nuovo come una casa e si portò via quello e quelli che aveva trovato allo scoperto.
UNA SPERA DI SOLE C’era una donna che scavava nel fango. L’ondata le passò sopra e incredibilmente la lasciò ancora lì, sul mucchio di fango che copriva quella che era stata la sua casa, con le unghie ancora piantate nella terra sporca che aveva seppellito tutto, anime e corpi. Questo vide quell’uomo dentro il suo lenzuolo sporco, nel posto dove l’avevano lasciato i suoi soccorritori, già ripartiti per salvare altri compaesani. Da tutta la valle accorreva la gente piangendo, gridando, spintonandosi, aiutandosi, che sembrava di essere sotto la torre caduta di Babele, puniti da Dio per i peccati di tutte le generazioni che c’erano state, pensando che non ci sarebbe più stato niente dopo, perché di sicuro quello era il giorno del giudizio universale. C’era gente che cercava di passare il fume, che si era fatto lago, con delle scale di legno, ma si rovesciavano e quelli annaspavano nell’acqua torbida, che nessuno sapeva nuotare, perché non c’era mai stata tradizione né necessità di impararlo, in montagna. Poi, come una beffa, no, come una promessa di armistizio, se non proprio di pace, uscì d’improvviso una spera di sole, come niente fosse tornava il sole. E illuminò quella donna che scavava nel fango e un uomo, lo riconobbero, si chiamava Battista, che piangeva su un mucchio di fango e diceva piano, come non volesse disturbare, ‘qui sotto ci sono i miei’ e parlava come se lo potessero sentire, ‘aspettate che cerco di tirarvi fuori’.
LA PAZZIA DEL DOLORE Ma quel sole era un sole malato. Arrivava un altro vento che nessuno aveva sentito, il vento della follia per il troppo dolore. C’era uno che andava in giro cantando una canzonaccia piena di parolacce, con un fasco di vino trovato tra le macerie dell’osteria, beveva e cantava barcollando sul niente, perché non c’era più sentiero o strada, solo una pianura di fango e di acqua. Una donna passava di lì e gli disse, sibilando, ‘ma non ti vergogni?’, l’uomo si voltò appena, tese le mani come in un abbraccio, le richiuse sul niente e cadde a terra dove la donna sentì che, con la bocca mezza piena di fanghiglia, gorgogliava e piangeva a dirotto, come un bambino. I pochi sopravvissuti vagavano per quello che era stato il loro paese, si lasciavano lavare e rivestire, proprio come i bambini e stavano lì inebetiti a sentire rosari e litanie, chiacchiere e mormorii, urla di dolore di compaesani che scoprivano cadaveri. Stavano lì attoniti, estranei, ormai privi di coscienza del bene e del male, al punto che qualcuno si metteva con qualcun’altra, vedove di mogli e mariti, vedovi di rimorsi, solo cercando di risentirsi vivi. Nelle settimane successive, quando il dolore si tramutò in rabbia e furore, il Viganò fu fermato a Dezzo mentre scendeva da Vilminore con la sua auto e venne gettato a forza in un “albe” dei maiali, denudato, insultato e malmenato. ARRIVA IL RE BEBÈ E venne sera e poi mattina, un altro giorno. Un altro giorno? Ma non c’era già stato il diluvio, il giudizio universale, la fne del mondo? Di là dal fume qualcuno gridò che era arrivato il Re, il piccolo Re di un popolo morto. Guardarono per pura curiosità oltre l’acqua ancora fangosa che aveva ripreso a scorrere come niente fosse, nel suo alveo antico, come non avesse colpa, perché quella era acqua nuova, niente a che vedere con quella che si era vendicata del tentativo di fermarla, là in alto, in quel lago innaturale. Non c’era più il vecchio ponte, non c’era più niente e allora quel piccolo Re era arrivato a vedere il niente. Cosa era venuto a vedere nel deserto fangoso del disastro? Uomini sbattuti dal vento del dolore? Guardando a fatica lo videro, tra le camicie nere, un piccolo uomo su un masso enorme. “E’ un Re bebè”, disse uno, da questa parte del fume. E gli voltò le spalle.
I ROTTAMI SUL LAGO Il vento e la fumana della disgrazia erano scesi fno alla pianura. Altri morti, altro sangue, altre vite, altre case, altre urla, altri pianti. Nella parte bassa di Angolo, Gorzone e poi Corna di Darfo. Il torrente Dezzo, costretto nella ripida Via Mala, apparve all’improvviso dalla gola, con un’ondata che precipitando aveva ripreso forza e volume tale da spazzare via case e fabbriche, gente e masserizie. Sul lago di Lovere e Pisogne galleggiarono i rottami della nostra storia, della nostra memoria, senza pudore. Novant’anni fa, il primo dicembre 1923, era di sabato. E Dio pagò di sabato, quel giorno, avrebbe ripetuto quel prete. Ma Dio non c’entra in questa storia, ce l’hanno tirato dentro a forza. Perché questa è storia di uomini, di quelli che sono morti e di quelli che sono stati la causa della loro morte.
Progetto cambiato in corso d’opera Materiali non conformi. Gli scioperi. La diga riempita troppo presto. Il processo e la sentenza di condanna
L’Arciprete di Vilminore, don Bortolo Bettoni, scrisse nel Chronicon che le ragioni del disastro erano dovute a “imperizia, incoscienza e superbia umana”. Le vittime identifcate o registrate come “dispersi”, secondo la ricostruzione di Giacomo Pedersoli (“Il Disastro del Gleno” – edizione Toroselle . aggiornata nel 1998) furono 358 (226 in Val di Scalve e 132 nella bassa valle tra Angolo, Corna di Darfo. A Dezzo, Angolo e Corna di Darfo ci sono lapidi con elenchi (parziali) delle vittime. L’idea di costruire una diga nella Valle del Gleno (allora Comune di Oltrepovo, ora comune di Vilminore di Scalve) risale al 1916 quando la ditta “Galeazzo Viganò” per i suoi stabilimenti cotonieri, pensa di procurarsi energia direttamente e rileva una concessione per l’utilizzo dell’acqua del torrente Povo, che scende dalla Valle del Gleno, risalente al 1907. Ma il progetto prevedeva poi impianti di convogliamento e sfruttamento delle acque di altri torrenti (Tino, Nembo, Vo e Gaffone). Nel 1917 cominciano i lavori di preparazione, diretti da Michelangelo Viganò, che muore un anno dopo, nell’ottobre 1918. Gli subentra il fratello Virgilio Viganò che costruì la villa a Vilminore (attuale sede del Biennio). La diga doveva produrre 60 milioni di chilowattora. Nell’estate 1919 cominciano i lavori veri e propri, prima dell’approvazione del progetto che avverrà due anni dopo (marzo 1921). Progettista è l’Ing. Oscar Gmür: la diga sarà “a gravità, in muratura di calce idraulica” per un serbatoio di “circa 5 milioni di metri cubi d’acqua”. Nel settembre 1920 muore l’Ing. Gmür e subentra l’Ing. Giovan Battista Santangelo che cambia il progetto con uno ad “archi multipli”. Cambierà anche l’impresa: si passerà alla “Vita & C”.
LO SCIOPERO Molti operai furono reclutati fuori valle, perlopiù in valle di Scalve furono impiegare le donne per “portare sabbia e cemento al cantiere della valle del Gleno”. Ci fu anche la “settimana rossa scalvina”dal 18 al 26 ottobre 1919 in cui gli operai dell’impresa Bonaldi, che lavorava per i Viganò, rivendicarono le “otto ore” di lavoro. Venne chiamato da Bergamo un “conferenziere”, che venne multato dal maresciallo dei carabinieri, perché tacciato di essere “socialista”. In realtà era un “sindacalista bianco”, cattolico. Ma l’anno dopo, 1920, una quarantina di operai di Pezzolo e Bueggio, con il capolega Duci, rivendicano un aumento di salario di 3 lire all’ora per le loro 10 ore di lavoro giornaliere perché i generi alimentari sono aumentati. Il Viganò rifuta di trattare. Viene proclamato uno sciopero con otto giorni di manifestazioni, arrivano a Vilminore camion pieni di carabinieri e anche il deputato socialista Zilocchi. Ci sono 4 arresti (due di Bueggio e due di Pezzolo) per ostacolo ai camion delle forze dell’ordine. Gli operai si dividono, alcuni tornano al lavoro.
L’impresa concede un aumento dai 20 ai 60 centesimi l’ora e di una lira e venti centesimi al giorno. Arriva a Vilminore anche il Vescovo di Bergamo Mons. Luigi Maria Marelli e a Vilminore c’è anche, in vacanza presso la famiglia Bonicelli, don Angelo Roncalli. E si annota la burrascosa partenza del Curato don Antonio Donadoni con il “pretesto che prendeva troppo poco e non poteva vivere”, annota l’Arciprete. C’è una manifestazione operaia, scendono dalla vecchia mulattiera di Pianezza con “bandiere rosse e canti ribelli”. Ma poi il lavoro riprende.
LA DIGA SI RIEMPIE Nell’autunno del 1922 la diga si riempie, con i lavori in corso, parzialmente, poi svuotata e lasciata riempire di nuovo. Un operaio racconta: “Lavoravamo con l’acqua alle caviglie e nelle arcate mettevano il bitume ma nei piloni mettevano di tutto”. L’acqua cresce, gli ingegneri Lombardi e Sassi del Genio Civile nel sopralluogo del 21 ottobre 1923 si allarmano per il lago ma poi nella relazione scrivono che “non c’è nulla di anormale”.
Per 46 giorni il “serbatoio” rimane pieno e non ci sono più ispezioni. Il giorno prima del disastro il guardiano riferisce che gli venne chiesto dall’ing. Conti “se avevano messe le tavole agli sforatori per otturarli: gli operai avevano eseguito l’ordine”. Vale a dire che si faceva in modo di avere più acqua. Supererà gli sforatori di 20 cm. Alle obiezioni sulle falle della diga (l’acqua usciva dalla muraglia), il Viganò rispose: “Io ho costruito la diga per tenerci dentro l’acqua, non per lasciarla andare AL PROCESSO E LA SENTENZA Dopo la tragedia il processo andò per le lunghe, si ingolfò in “incidenti procedurali”, sospensioni tecniche, perizie, rinvii a nuovo ruolo e giunse alla conclusione soltanto nell’estate 1927.
Cento testimoni. Le accuse erano sul progetto cambiato, sul materiale usato (la malta e la calce e pietrame a secco, ferro residuato di guerra), sulla struttura (piloni non adeguatamente ancorati alla roccia), sottovalutazione delle perdite della diga, utilizzo prematuro della diga, fretta nei lavori (a cottimo), assenza di sorveglianza, costruzione senza progetto approvato, mancato collaudo. Le richiese del pubblico ministero (9 anni di carcere per Viganò e l’ing. Santambrogio), già di sé non pesanti, vennero stravolte dalla sentenza (4 luglio 1927) che infisse all’imprenditore e al suo tecnico tre anni e quattro mesi di carcere, ma due anni furono condonati, come pure la multa infitta che fu ridotta a 7.500 lire. I ricorrenti erano stati tutti “tacitati” prima del processo con risarcimento