venerdì, 1 Novembre 2024, 5:26
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BERGAMO COLPI DI TESTA a Palazzo Frizzoni…

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Una nuova rubrica che racconta il retroscena di quello che avviene a Palazzo Frizzoni (la sede del Comune cittadino) e dintorni. In questo caso si racconta di come un ex assessore della passata Giunta di centrodestra, continui a farsi passare come il deus ex machina delle decisioni che in realtà vengono prese dallòa giunta di centrosinistra.

Ma di che anno è questo sabato1

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Libro
Ma di che sabato è questo anno

Libro Editore Araberara

“Ma di che anno è questo sabato”

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Aristea Canini e Piero Bonicelli – Ma di che anno è questo sabato?
– edizioni Araberara – Nelle edicole a 14 euro.

Ognuno di noi ha il suo risvolto di copertina, l’altra faccia dell’amore e del dolore. Questo libro nasce da una sorta di contrappasso, Piero Bonicelli è più noto per i suoi scritti, le analisi politiche e di costume e gli editoriali. Aristea Canini per le sue poesie che hanno avuto riconoscimenti nazionali. Il gioco delle parti inverte in questo libro i ruoli, appunto i “risvolti” di quella che non è solo una professione, ma soprattutto una passione, quella di suscitare emozioni. Il lungo rapporto di amicizia con Alda Merini ha consentito ad Araberara, il giornale in cui lavorano entrambi gli autori, di pubblicare negli anni scorsi poesie inedite di Alda. Anche in questo volume, attraverso la cortese e affettuosa amicizia del fratello Ezio Merini, i lettori trovano quattro composizioni inedite della grande poetessa. edizioni Araberara “Infilata qui in redazione, tra un cielo rosso che viene spinto via dal sole che lo inghiotte di luce e le montagne che mi riparano dal cielo che oggi è terso e sembra una di quelle coperte da buttarsi addosso quando c’è voglia di sentire tutti i brividi del mondo. Quei brividi che io e Piero abbiamo messo in un mucchio di fogli che è diventato un libro ‘Ma di che anno è questo sabato?’ e che da sabato 14 dicembre è nelle edicole. E che se lo comprate siamo contenti, e se venite in redazione a prenderlo vi offriamo pure il caffè (senza brioche, magari vi allunghiamo un pezzo di panettone intanto che non sono ancora scaduti) e ci facciamo gli auguri. Perché in fondo ogni libro è come partorire un pezzo di anima che non è carne ma è sempre cuore”.
(Tea)

Oltre i pioppi
che urlano scomposti al cielo
il loro orgasmo di foglie,
intravedo quello che voglio
(Tea)

…cento passi e ricevi il sole
sognando fiabe azzurre,
vagabondi nella dolcezza
eretta sul cigno superbo
delle correnti lucide.
(Piero)

Se vogliamo trovare assonanza o differenza direi che Tea è per la strada, io sono per i sentieri. Questione di età, ovvio. Quando ero piccolo contavano più i sentieri delle strade, che erano dissestate dalla pioggia. Il primo pezzo di asfalto l’ho visto in paese che avevo tre o quattro anni, fine anni quaranta. Arrivava il progresso. Dopo qualche decennio abbiamo ricominciato (io per primo al mio paese, da sindaco fine anni ottanta), a ripavimentare strade e piazze del centro con il porfido e il selciato. Un ritorno sui propri passi (sui propri sassi) e sulla propria storia. Che in fondo è percorsa dagli stessi sentimenti elementari, l’odio e l’amore. Li puoi esprimere col pennino e l’inchiostro o sull’iPad, cambia la forma, ma è lo stesso sentimento di sempre. C’è chi lo esprime in prosa e chi in poesia. Il mondo è cambiato in peggio nella forma, se avessimo la pazienza di sfrondarla, coglieremmo la sostanza umana. Che sfortunatamente è soffocata dalla forma, ma resiste, basta grattare e torna viva. In fondo basta un’emozione per sentirsi ancora vivi. Noi cerchiamo di dare emozioni. C’è gente che nasce con dentro il tarlo dell’impicciarsi dei fatti altrui e poi seguono vocazioni diverse, quella del prete, dell’insegnante, del medico, dell’urbanista, del giornalista. Così io racconto in poesia la mia gente, le sue paturnie, le sue paure, le sue storie a volte improbabili, al punto da rasentare le favole, i suoi difetti che poi sono anche i miei, calati in atmosfere di convivenza, a volte confortante, spesso difficile e fastidiosa: i cortili, le cucine, le osterie, i sentieri, le chiese, le scuole, le stalle ma anche i prati, il fiume, il lago (sono cresciuto in un paese di lago) e la montagna. E dentro questo che può apparire un presepe si muovono le statuine che siamo noi, che hanno sentimenti e risentimenti, amori e odi rancorosi, giustizia e ingiustizia, rimorsi e voglie, fedi e speranze. Questo è un libro di emozioni, quelle che trasmette Tea che racconta i giorni e le notti, la terra e il cielo, sente le stagioni, racconta le storie di gente viva e di gente morta che rivive, guarda oltre la nebbia per sentirsi libera. Il lago, la montagna, la strada, soprattutto la strada che porta oltre e altrove e fa conoscere occhi di persone, ‘l’infinito in una strada da rincorrere’ e percorrere comunque, per vedere se finisce, sapendo che le strade non finiscono mai, cogliendo gli istanti che danno senso alla vita, che sfuggono, che vanno fermati, non fosse che nel sogno. E la nostra fretta che si fa furia ‘gente che corre arraffando roba in offerta come fossimo prossimi alla guerra’. E il sapore e il calore della terra (‘la terra è le mie gambe’, ‘la terra è come me, instabile e piena di fiori e il giorno dopo arida e spoglia’). E le paure (‘sono qui con due chiavi in tasca, quella del coraggio e quella della paura’) che sembrano frantumarsi in certi tramonti che hanno odore di ‘terra bagnata o profumo di birra rossa’. E le voglie che sono come il vento ‘che se ne frega dei vecchi muri’. Questo è un libro in cui ci abbiamo messo dentro la vita”.
(Piero)

Libro

 

Il fisco a Solto Collina: più tasse e meno servizi

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A Solto Collina è cambiato l’assessore al bilancio, Tino Consoli ce l’ha messa tutta ed ha trovato… le solite soluzioni: più tasse e meno servizi. I cittadini di Solto si vedono ora mettere le mani nelle tasche per l\’IMU 476.960 euro, la TASI per euro 143.000 (alcuni Comuni meno spendaccioni non l’hanno messa), l’addizionale IRPEF che viene tolta dalla busta paga per euro 80.000 e la TARI per euro 180.000. Davvero niente male, soprattutto se considerate che non si vede nel bilancio l’incasso di 73.020 euro di soldi dei cittadini che, per il mancato rispetto del patto di stabilità il Comune dovrà versare al Capo X dell’entrata del bilancio dello Stato, al capitolo 3509 denominato “versamento delle somme derivanti dall\’applicazione della sanzione di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 149 del 2011”. Insomma spremuti ben bene per pagare l’incapacità di chi amministra. Di contro il nuovo assessore al Bilancio opera alcuni tagli di spesa: meno trasferimenti per la scuola media euro 3.000, meno soldi per la Biblioteca euro 3.000, meno soldi per la Pro Loco euro 5.000, meno soldi per spazzare la neve, meno soldi per le borse di studio e così via. Sul versante delle spese in Conto Capitale invece la sistemazione delle Santelle e le buche prenderanno 70.000 euro, mentre l’abbellimento del Paese con fiori e panchine altri 10.000. Forse e se si riuscirà a vendere la ex sede di Mano Amica per 54.000 euro si potrà fare qualche altro abbellimento. La politica fiscale e gli investimenti del nuovo assessore sono chiarissimi. VIVA SOLTO disapprova, durante la nostra gestione non si erano aumentate le tasse di un solo euro ed avevamo lasciato il Tesoretto che è stato dissipato.

Viva Solto

Giuseppe Cividini

I “vecchi” lascino invecchiare i giovani

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Non sono e non voglio essere l’ avvocato difensore di nessuno anche perché sicuramente tutti sono grandi e vaccinati per spiegarsi da soli. Esprimo una mia considerazione che mi pare logica. Ogni “vecchio“ può dire al giovane: io ho fatto mentre tu hai fatto nulla o poco. La risposta, logica, sarà: bravo nonno ma tu mi racconti il vissuto di una vita intera, io è solo da poco che lavoro, lasciami invecchiare quanto te e poi mi giudicherai. Non è equo confrontare 15 o 20 anni di amministrazione con 2 anni. Anche i pomodori richiedono un giusto tempo per maturare. Distinti saluti

Giuseppe Cividini

Quella promenade chiamatela Balconata

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Gentile direttore, come ormai a tutti (quantomeno a tutti i bergamaschi) è stato opportunamente reso noto, dal giorno 19 luglio dell’anno di grazia 2014 un documento ufficiale della Repubblica certifica la definitiva ascesa di Lovere all’Olimpo delle mete turistiche nazionali. Al di là dei pur condivisibili entusiasmi di circostanza i loveresi hanno sempre avuto coscienza di vivere in un luogo privilegiato, e come tale sotto molti aspetti assai impegnativo. Ora scettici e detrattori si dovranno considerare serviti e non potranno più eccepire se non su qualche marginale caduta di stile; attenzione che peraltro, a fini onestamente costruttivi, sarebbe molto civile esercitassimo pure noi. Durante la cerimonia di presentazione del francobollo, al quale fanno riferimento le infrascritte note, Camillo Bogoni, presidente della stampa filatelica italiana, ebbe modo di pronunciare un’affermazione che, per quanto apparentemente ovvia, ha un contenuto di profonda verità. Disse, in sintesi: voi che ci vivete, siete ormai assuefatti alla bellezza del luogo, al punto che quasi non la vedete più. Ė come quando uno si alza di notte, e si aggira per casa senza accendere la luce. Lo può fare, perché conosce i suoi appartamenti a tal punto da potersi muovere senza bisogno di “vedere”. E in effetti non vede… SUL NUMERO IN EDICOLA DA VENERDI’ 8 AGOSTO

Buelli fa a pezzi il programma di Freri

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Spett.le Radazione di Araberara. Giovedì 12 Giugno si è tenuto il primo Consiglio Comunale della nuova amministrazione guidata dal Sindaco Renato Freri, seduta che ha visto finalmente la partecipazione di un numeroso pubblico. Dopo il giuramento del nuovo Sindaco, il Segretario Comunale ha illustrato i vari punti all’Ordine del Giorno per l’approvazione delle procedure previste dalla legge e, giunti al 3° punto, relativo all’esame e alla discussione delle linee programmatiche della nuova amministrazione, il Consigliere di minoranza Mirco Zambetti, dopo gli auguri di buon lavoro a tutti i consiglieri, ha letto la sua dichiarazione di voto, concentrando il suo intervento sulla ormai più volte dibattuta “questione Roncaglia”. Riporto testualmente il testo che è stato allegato alla delibera consiliare. “Questione Roncaglia. Sul vostro programma è comparsa una frase piuttosto sibillina: ‘Dopo la Roncaglia siamo convinti che sia giunto il momento storico di interrompere il processo perverso di svendere il territorio per ripianare i bilanci comunali’. Da questo assunto emerge con tutta evidenza l’intenzione di non procedere ad alcuna azione volta a cancellare dal Piano di Governo del Territorio l’AT1 denominato ‘Roncaglia’. Tutti voi Consiglieri di maggioranza e il vostro Sindaco avete firmato la petizione delle 500 firme ‘NO ALLA RONCAGLIA’ e vi siete attivati personalmente per la loro raccolta. Ora avete il dovere morale e politico di dare risposte concrete a tutti quei cittadini che hanno creduto in voi e hanno espresso il loro sostegno alle votazioni comunali, attivandovi da subito per cancellare dal PGT questo Piano Attuativo, così come più e più volte avete affermato di voler procedere in numerosi articoli sulla stampa e nei vari Consigli Comunali della passata legislatura. Sarebbe troppo comodo utilizzare gli introiti degli oneri qualitativi e di urbanizzazione (circa 800.000 euro) previsti per questo intervento per gli investimenti programmati e lasciare sulle nostre spalle la responsabilità di questa scelta urbanistica. Noi in questo progetto abbiamo creduto e ancora crediamo; l’abbiamo trasformato da semplice iniziativa residenziale (5.500 mc), che ricordo essere contenuta in quel famoso documento di inquadramento approvato dall’allora Consiglio Comunale, con il voto favorevole anche del sig, Freri Renato, nostro attuale Sindaco. La nostra amministrazione ha arricchito questo progetto con la previsione di una struttura sportiva pubblica del kayak, che avrebbe attirato nel nostro Comune tanta gente appassionata di questo sport anche a livello regionale, creando posti di lavoro e utilizzando queste importanti risorse per diminuire le tasse ed i costi dei servizi a tutti i cittadini di Ranzanico. Ora la parola passa a voi e attendo una risposta concreta”.

Dopo la lettura della dichiarazione del consigliere Zambetti e di fronte alla domanda: ‘farete o no la Roncaglia?’, il Sindaco Renato Freri non ha risposto, ha affermato di non aver mai sottoscritto la petizione, ‘dimenticandosi’ però che non solo l’ha firmata, ma ha personalmente raccolto le firme e l’ha anche presentata personalmente al protocollo comunale e quindi non si può certamente sottrarre dal mantenere le promesse fatte e comunque dare quella risposta che quella sera non ha saputo o voluto dare durante il Consiglio Comunale. E’ quindi evidente che all’interno del suo gruppo esistono molto probabilmente visioni diverse e non unanimi su questa scottante questione.

Questa risposta alla fine la dovrà dare, non tanto alla nostra futura interpellanza consiliare, ma soprattutto a tutti quei cittadini che hanno sottoscritto la petizione, ai quali ha chiesto, ottenendolo, il consenso elettorale e ai quali ha fatto delle promesse: NO ALLA RONCAGLIA! Durante il mio intervento, anch’esso allegato alla delibera consiliare, ho più volte sottolineato come la maggior parte dei punti previsti nel programma elettorale del nostro nuovo Sindaco siano in realtà già stati portati a termine dalla mia amministrazione, come ad esempio il trasporto scolastico gratuito, il doposcuola gratuito, il considerare prima casa l’appartamento dato in comodato d’uso gratuito ai figli o ai genitori … e proprio su quest’ultimo punto, il nostro Sindaco si è “dimenticato” che nel Consiglio Comunale del 23 Aprile scorso questa agevolazione era già stata inserita nelle norme dei Regolamenti TASI, TARI, IMU, approvati nonostante il voto contrario dello stesso Sindaco, dei consiglieri di minoranza Fabio Farinotti e Maria Giovanna Sangalli; prova ne è che il giorno successivo tutti i cittadini che si trovavano in questa situazione hanno ricevuto la comunicazione per il ritiro del modulo di agevolazione.

Quindi, prima vota contro, poi lo inserisce nel suo programma elettorale come uno dei punti di forza. Mah!

Per quanto riguarda poi gli investimenti programmati, anche in questo settore tante opere sono già state fatte da noi e molte altre non si potranno realizzare per i vincoli del patto di stabilità e per i divieti delle varie leggi di settore, come ad esempio la barriera a fine lago sul Cherio nei Comuni di Spinone e Monasterolo, che il Sindaco, messo alle strette in merito agli obiettivi che si volevano raggiungere con quest’opera, ha invitato il Segretario Comunale a depennarla dal programma elettorale. A tutte queste e anche ad altre domande da me poste durante il Consiglio Comunale, nessuno, dico nessuno, ha dato una risposta, tranne il Sindaco che ha risposto … di aver cinque anni di tempo per rispondere …

I vari difensori del verde credo proprio che avranno materiale sufficiente su cui riflettere.

Il tempo giudicherà nei fatti se avremo avuto ragione, speriamo prima che trascorrano cinque anni!

Sergio Buelli

Consigliere di minoranza “Continuità e Rinnovamento”

la scommessa del calcio bergamasco

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tutta Italia ha patteggiato 4 mesi di squalifica. E anche Mirko Poloni è di Trescore, cresciuto nel vivaio dell’Atalanta, e che ha giocato per tutti e tre i club orobici ha patteggiato due volte per il filone di Cremona e ha totalizzato 18 mesi di squalifica. Paolo Acerbis, portiere, per 8 anni all’Albinoleffe ha patteggiato due anni e sei mesi. Tomas Locatelli, Atalanta, due anni di squalifica Ruben Garlini, cresciuto nell’Atalanta, giocatore di Alzano e Albinoleffe ha preso 3 anni di squalifica. E nel secondo processo ha patteggiato 9 mesi Matteo Gritti, un anno all’Alzano e uno all’Albinoleffe, non era tesserato all’epoca e quindi non ha preso sospensioni ma a fine maggio 2012 è finito in carcere per 7 giorni più altri 8 ai domiciliari. Cristiano Doni, ex capitano dell’Atalanta, ex cuore della tifoseria, insomma, ex tutto, si è beccato 3 anni e mezzo grazie allo sconto in secondo grado Carlo Gervasoni, difensore Albinoleffe, 5 anni di squalifica E poi c’è la tempesta Albinoleffe nella vicenda delle inchieste Cremona-bis, dove l’Albinoleffe piazza il record di 12 coinvolti, unica squadra italiana. Patteggiarono: Joelson, Acerbis, Gervasoni, Kewullay Conteh, Francesco Ruopolo, Antonio Narciso, Dario Passoni e Marco Cellini mentre sono stati condannati Davide Caremi, Mattia Serafini, Roberto Colacone e Vincenzo Jacopino. Per l’Atalanta patteggiarono: Joelson, Doni, Conteh, Ruopolo, mentre Riccardo Fissore viene squalificato per 3 anni e 9 mesi, ridotti dal Tnas a 14 mesi. Nel terzo filone di indagini tocca agli ex atalantini Ferdinando Coppola, 4 mesi di stop, Andrea Masiello, patteggiò 26 mesi, e il tecnico Antonio Conte, 2 mesi di squalifica. Sia per l’Atalanta che per l’Albinoleffe vengono coinvolti Luigi Sala e Davide Bombardini. Il filone inchiesta di Napoli coinvolge altri tre bergamaschi, Passoni che ha patteggiato Il capo della cupola con base a Singapore avrebbe ottenuto ‘il controllo finanziario dell’intera società calcistica Albinoleffe’. Insomma, oltre al tessile, in Cina… si è trasferito anche il calcio seriano 33 GIOCATORI COINVOLTI NELLO SCANDALO SCOMMESSE

Bergamo non sarà capitale della Cultura 2019 ma se non altro è capitale del calcio scommesse 2013. Si è chiuso con un primato non proprio di quelli da fregiarsi e sfregarsi le mani il 2013 bergamasco. Che ha sancito numeri da guinness dei primati per la pedata orobica. Ammontano a 33 gli ex calciatori e allenatori di Atalanta, Albino Leffe e Alzano coinvolti dal 2011 ad oggi nelle indagini sul calcio scommesse. E fatte le debite proporzioni sui numeri degli abitanti di città e provincia l’indice è altissimo, troppo alto. Le austere e silenziosa mura di Città Alta incassano (non i soldi delle scommesse) ma il brusio di voci che circolano tra quartieri e vicoli, senza alzare mai troppo la voce, che i bergamaschi abbassano la ‘crapa’ e lavorano sodo. Un po’ come i calciatori, che nel pieno solco orobico facevano… la doppia giornata, in campo a sudare a caldo e in ricevitoria a sudare …a freddo. Ecco la lista dei 33:

Thomas Manfredini (che però ne è uscito pulito, nel 2011 condannato in primo grado a 3 anni e prosciolto in appello)

Achille Coser (cresciuto nell’Albinoleffe per cui ha giocato) Nicola Ventola, Atalanta (colpevole in primo e secondo grado, oltre tre anni, per essere riabilitato dal Tnas)

Nicola Ferrari, ex Albinoleffe (colpevoli in primo e secondo grado, oltre tre anni, per essere riabilito dal Tnas) Questi sopra sono quelli che ne sono usciti più o meno puliti. Ed ecco l’elenco degli altri 29, nove tesserati per l’Atalanta, nove per l’Albinoleffe, nove per entrambe le squadre,

 Silvio Giusti per l’Alzano (nel 2001) e Giuseppe Signori per il Leffe. Signori che detiene anche il poco onorevole record, di 5 anni di squalifica, la condanna più lunga per un bergamasco.

 Filippo Carobbio, cresciuto nell’Atalanta, poi all’Alzano e all’Albinoleffe ha chiesto e ottenuto ben tre patteggiamenti per un totale di 26 mesi di squalifica. Carobbio il grande pentito della valle Seriana, sino a qualche anno fa valle dell’oro non solo nel tessile, ma anche nel calcio, con Albinoleffe e Alzano a farla da padrone e a succhiare leadership alle grandi città del nord. Adesso la fine. Carobbio ha avuto l’onere e l’onore (?) di tirare in ballo per primo nientemeno che Antonio Conte (pure lui con un breve passato, ma da allenatore, nell’Atalanta e poi anche a Siena) per il pastrocchio Albinoleffe-Siena. Carobbio che sta scontando una squalifica sino al 31 luglio 2014. Ma c’è un’altra valle che è terra fertile per il calcio scommesse, la Val Cavallina, Bortolo Mutti, di Trescore, allenatore conosciuto in, Silvio Giusti condannato a 3 anni e 9 mesi e l’allenatore Andrea Agostinelli che ha preso un mese di stop. Il filone di Bari invece coinvolge con un nuovo patteggiamento Masiello e poi tocca a Corrado Colombo, cresciuto nell’Atalanta, che si becca 3 mesi di squalifica. E l’ultimo filone, quello delle scorse settimane coinvolge l’attaccante Davide Bombardini e Nicola Mingazzini, prima Atalanta e poi Albinoleffe. Bergamo ne esce con le ossa rotte. Ma se ne parla di malavoglia, qui si abbassa ‘la crapa’ e si va avanti, dove non si sa, il calcio annaspa e non solo l’Atalanta. Che finisce sotto i riflettori nazionali e oltre confine non per i risultati calcistici che ormai si sono livellati sul fronte medio-basso ma per quelle scommesse che portano o dovrebbero portare il binomio ‘adrenalina-soldi’. Secondo Repubblica che ha dedicato alla Bergamo delle scommesse una pagina allo stadio Kennedy di Albino i giocatori vendevano agli scommettitori asiatici anche le amichevoli. Secondo le testimonianze del maneggione singaporiano Wilson Ray Perumal, arrestato in Finlandia per incontri di calcio manipolati Eng Tan Seet, detto ‘Dan’ il capo della cupola con base a Singapore avrebbe ottenuto ‘il controllo finanziario, seppure in modo occulto, dell’intera società calcistica Albinoleffe”. Insomma, oltre al tessile, in Cina si è trasferito anche il calcio seriano.

 

VAL DI SCALVE – E si fece buio su tutta la valle

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E si fece buio su tutta la valle

Un primo dicembre nebbioso, piovoso, di 90 anni fa. Era fnita da poco la messa nella chiesa di Bueggio. Le donne erano tornate a casa e stavano facendo bollire sulla stufa un pentolino di latte per la colazione dei ragazzi che dovevano andare a scuola. Erano passate da poco le sette del mattino e dai camini delle case usciva il fumo buono del caldo consolante delle cucine con quegli odori di una volta, un misto di latte che bolle, formaggi che si lasciavano andare nelle moscaröle e panni stesi sopra la stufa, gli uomini che prendevano su la loro sacca del lavoro con la schisceta dove c’era il pane e qualcosa da mandargli dietro, una bottiglietta di vino lungo. I ragazzi cercavano qua e là libri e quaderni per preparare la cartella, rumori, poche parole, un saluto frettoloso, usci che sbattono.

E si fece buio su tutta la valle

IL VENTO FRADICIO Ma perché d’improvviso sbattono anche le ante delle fnestre? C’è un vento sconosciuto, innaturale per un dicembre appena spruzzato di neve qualche giorno prima. Piove sul mondo, su quel piccolo mondo antico che ha appena sentito la campana. Sul campanile c’è un uomo: aggiusta tetti per campare, l’altezza non gli mette le vertigini. Ha avuto i suoi amori e i suoi dolori ma a 38 anni ha una famiglia, dei fgli. C’era un amore lontano, una ragazza e per lei andava spesso giù nel bosco a raccogliere patüss, foglie secche per fare strame nelle stalle dove le bestie ruminano pacifche, con l’agitarsi inquieto, lì vicino, del maiale, il salvadanaio della famiglia e il muoversi circospetto delle galline. Quell’uomo alla sua ragazza di allora faceva fare un fgurone, l’unica che riuscisse a raccogliere tanti sacchi di foglie secche, un record. E nessuno in casa capiva come facesse. Lo sapeva lui come faceva, che lavoravano in due e pensavano al giorno in cui si sarebbero messi per conto loro. Era stato il suo primo amore e certi giorni i primi amori ti tornano in mente all’improvviso. Lui aveva avuto tutto il tempo di innamorarsi di un’altra ragazza, bellissima, di un altro paese, di Colere e avevano dei fgli che venivano su bene, adesso che lui aveva 38 anni ed era lì sul campanile a caricare l’orologio che segna il tempo che passa e già si prepara a contare il tempo che verrà. Dall’alto di quel campanile sente il vento, quel vento fradicio di giorni che non ha mai vissuto e che non vivrà mai più. E alza la testa a guardare su nella valle dove nella nebbia si dovrebbe vedere la grande muraglia della diga.

IL CAMPANARO DI BUEGGIO Una diga non fa vento, questo lo sanno tutti. Lui fa il campanaro e il parroco lo conosce bene, ha discusso con lui giorni interi. Quella diga sta lì sopra la testa, l’hanno costruita come in paese tutti sanno e però nessuno dice, perlomeno non ad alta voce, una diga nata male e cresciuta peggio, con ruberie di ogni genere. Il prete lo ha rassicurato e poi dal pulpito ha rassicurato tutti, quella è opera dell’ingegno dell’uomo benedetto da Dio, guardatela là in alto, sembra abbia le braccia aperte e par che dica, vi proteggo io. Da cosa, da chi? Ma dalla miseria, dalla fame, da tutto e da tutti. La gente ha ascoltato l’omelia, allora mica si poteva dire quello che si pensava, il parroco di un paese era Dio in terra, quello che diceva doveva essere presa per parola di Dio. Ma quello che diceva quella domenica alla messa grande non andava bene, perché quella muraglia con gli archi aveva nella pancia un lago da far spavento e l’acqua usciva dai muri con getti lunghi, innaturali, nelle fessure che non dovevano esserci in una diga, e sparavano l’acqua gelata a decine di metri. L’uomo è ingegnoso ma è anche avido, il prete si dimenticava dei peccato che gli raccontavano nel confessionale, siamo tutti peccatori e fgurarsi se gli ingegneri, i capomastri erano stati concepiti senza peccato. GLI USCI SBARRATI Il prete era in chiesa quella mattina, a recitare il ringraziamento, dopo la Messa, adesso che era restata una vecchietta sul fondo della chiesa, ma se ne sarebbe andata anche lei, tra poco, anche se a casa non aveva più nessuno che l’aspettava e per questo stava ancora lì: quando a casa non ti aspettano, non ti resta che aspettare a tua volta che fnisca, e dopo c’è solo da sperare che non siano tutte balle, che ci sia un paradiso o se va male un purgatorio che nemmeno ci si vuole pensare alla terza alternativa, dopo tutto quello che si è passato. Anche il prete sente sbattere forte i vetri dei fnestroni della chiesa, in alto, sopra il cornicione. Guarda in su, caso mai Dio volesse dargli un segno particolare, in codice, da decifrare, qualcosa che deve fare e alla svelta, per la salvezza delle anime che gli sono state affdate e dei corpi che le contengono. Le ante delle fnestre sbattono, volano via le lastre di ardesia, gli usci emettono scricchiolii, nemmeno ci fossero spiriti che vogliono entrare, fuori si sentono rumori, cose che volano via per sempre, attrezzi, secchi, vasi, pezzi di legna, carriole, stracci. Dalla stalla arrivano grugniti, muggiti, belati e l’abbaiare disperato del cane legato alla catena, che tira e tira che sembra voglia strozzarsi per conto proprio. Gli uomini e i vecchi spingono l’uscio per andare a vedere, l’uscio sembra inchiodato allo stipite del vento. L’AGONIA DEL PAESE Ma il primo a sentire il vento della morte e a vedere il fumo della disgrazia fu quell’uomo sul campanile. La valle del Gleno è prima di una nuvola nera come la pece e sotto gli alberi si piegano come fli d’erba, si spianano a terra come per un furioso inchino verso la valle, come se volessero mettere un tappeto al passaggio di un Dio. Un Dio di vendetta, da antico testamento, che manda il diluvio, sulla terra, per azzerare tutto e cominciare tutto da capo, un’altra volta. Un ragazzo esce dalla cucina, come fanno i ragazzi che non fanno calcoli, hanno tutta la vita davanti e non sembra ci sia forza al mondo capace di fermarli. Guarda su e vede arrivare qualcosa di informe, un mostro di acqua, fumo e vento che sta per precipitargli addosso, sta per cancellare il paese. Passa di corsa un uomo. Il ragazzo lo guarda: un uomo che corre fa ridere, i vecchi (perché per i ragazzi gli uomini sono tutti vecchi) non devono correre. Quello gli grida di scappare che sta venendo giù la diga. Il ragazzo ci mette un momento a capire, come fa una diga a venir giù, quel vecchio che corre deve essere matto. Poi lo riconosce. E’ lo zio. Il ragazzo grida qualcosa ma la sua voce si perde nel vento che adesso fa rumore facendo suonare tutte le imposte, le tegole, i camini, gli usci, gli animali, gli uomini del paese, un paese che si lamenta in un coro d’agonia prima di morire. Il ragazzo adesso ha capito che sta per arrivare la fne del mondo, del suo piccolo mondo giovane e già antico: corre dentro, l’uscio spalancandosi sbatte contro il muro, la mamma lo guarda e gli occhi cambiano espressione, capisce senza sentire, va verso la cuna che sta li vicino al caldo della stufa, prende in braccio l’altro bambino, fanno per uscire, ma la porta si è richiusa sbattendo di nuovo, non si muove, non si apre più. Scappano su per le scale di legno, verso il solaio.

IL CAMPANILE CHE CAMMINA Quell’uomo in cima al campanile vede, dietro al vento, arrivare un’ondata tumultuosa di acqua marrone, fango, alberi, roccia, pezzi di ferro e cemento. Resta lì affascinato e atterrito. Il diluvio passa sopra le prime case, arriva alla chiesa che si è già spaccata in due come un guscio di noce. Il campanile cammina sotto i suoi piedi, dritto, va avanti verso il burrone della valle. E lui là in alto che vede il mondo, il suo piccolo mondo, i suoi amori e i suoi dolori, la sua vita, persi. Per sempre. Crolla tutto, anche il campanile, dopo aver camminato impettito per una cinquantina di metri. E’ la fne. Si troverà solo un frammento di campana. La gente cerca di uscire dalle trappole che sono diventate le case. La fumana è passata in un attimo, allargandosi sui prati, scavando, spaccando e trascinando tutto, case e bestie, uomini e bambini. E’ già passata, il diluvio è passato. Chi è sopravvissuto ha gli occhi sbarrati, di chi ha visto in pochi secondi il principio e la fne, l’alfa e l’omega. Non si esce dalle case, il fango è alto due metri contro gli usci. Grida e richiami, ci si conta e manca qualcuno. Nomi che risuonano nella desolazione, che non hanno risposta. Dai paesi alti sulla valle la gente ha visto i vetri delle fnestre andare in frantumi. Ha pensato a qualche ragazzata ed è uscita in tempo per vedere un banco di nebbia scura con il fragore alto di una montagna che frana, come su una balconata naturale, sui poggi, a guardare giù il disastro. Lo chiamano così, da subito. Ed è un epitaffo per le centinaia di morti.

LA NEBBIA PRENDE FUOCO Una colonna di fuoco. La nebbia che prende fuoco, gli alberi che volano come uccelli, il mondo alla rovescia. L’antico testamento rievocato dalle prediche dure dei preti si è materializzato, ecco, l’inferno sarà così, acqua melmosa e famme alte che cercano di incendiare il cielo. Sono le centrali che esplodono. Quel miracolo della luce dei busitì dol Viganò, quelle lampadine che si accendono con un giro di manopola, senza olio, senza carburo, era contronatura e Dio si è vendicato. Prima che arrivi l’ondata i boschi si spianano arrendendosi al cataclisma. C’è gente che già fruga nel fango. I bambini sono i primi a riprendersi: trovano le canne dell’organo della chiesa luccicanti nel grigio del mare in tempesta. Se le portano dietro come bottino di una guerra mai dichiarata. Il prete verrà trovato nella palude di fango che era stata prato. Uno che passa frugando disperato cercando i suoi, vede spuntare qualcosa che sembra carne di animale: scava con le mani nella melma molle e lo tira fuori, che non si capiva chi era e cos’era, carne nuda insultata, la mente annichilita dalla pubblica sconfessione, di quel Dio che soleva dire che non era obbligato a pagare tutti i sabati. Dio quel giorno ha pagato di sabato.

IL VIGANÒ A VILMINORE Il Viganò, il proprietario della diga, è a Vilminore, nella sua villa all’ingresso del paese. La Marina sta spazzando vicino all’orto quando sente un rumore e grida qualcosa alla sorella Catì, senti la valle. I vestiti si fanno fradici, come piovesse a dirotto, pensano si sia rotto il canale di S. Maria, che viene già dalla diga. In quel momento esce sul cortile il Viganò e tutti vanno a guardare giù la valle. C’è una montagna nera che avanza, le piante si spianano. Poi un bagliore, come un fulmine nella buio della valle, brucia la centrale di Valbona. Il Viganò si è allungato per terra e batte disperato la testa sui sassi. Gridano e piangono tutti. Sapevano tutti che quando il Viganò partiva col suo mulo per salire alla diga, c’era un impiegato di Milano che telefonava agli impiegati e “così coprivano gli imbrogli, perché il cemento, invece di andare nella malta, andava da altre parti…”. LA CHIESETTA SPACCATA C’è un ragazzo che è stato svegliato dalla nonna. Era un ragazzo duro a svegliarsi. Ma quella mattina doveva andare per legna e la nonna gli aveva rovesciato le coperte. Freddo cane. Doveva scendere a Dezzo dove con suo fratello sarebbero saliti nel bosco. Con addosso la giacchetta del lavoro e il suo fagottino della colazione si avvia, ancora assonnato, per la strada che scende alle Fucine. Passa la curva e viene sbattuto indietro dal vento. Seduto per terra, intontito, vede una fumana gialla sboccare improvvisa da destra, dietro il masso che divide il torrente Povo, che vien giù dalla valle del Gleno, dal fume Dezzo, vede la chiesetta del miracolo spaccarsi, i mozziconi di muro bagnati, le famme salire verso le nuvole nere. Un uomo viene su dalla strada marrone di fango e grida agitando le mani. Il fragore dell’acqua. Non si sente, l’uomo ha la bocca aperta ma le parole sembrano non riuscire a farsi suono. Il ragazzo si mette a gridare anche lui e non sente nemmeno se stesso. L’uomo corre in salita, ansima, arranca, arriva lì vicino e urla: ‘scappa, scappa, è venuto giù il disastro’. Il disastro. ‘Quale disastro?’ ‘La diga, scemo, scappa’.

DEZZO. LA PRIMA ONDATA Al Dezzo l’alba era tetra come certi giorni di inverno che nessuno ci può far niente e si vive aspettando che passi la dura invernata e l’orto e il prato diano di nuovo di che campare, che quella diga di lavoro lì in valle ne aveva dato poco. Della diga si sapeva solo che faceva acqua dalle parti sbagliate. A Dezzo c’era gente che non dormiva in casa da settimane, si era fatta ospitare dai parenti nei paesi alti, quella lì si spacca e se non si spacca quella c’è il masso sopra il paese che viene giù e una notte ti entra in casa facendoti fare la fne del topo. Chi era rimasto non aveva visto la diga da vicino, c’era ben altro da fare che salire a guardare delle muraglie di cemento che avevano fatto un lago come non avevano mai visto, che quelli erano tempi che non ci si muoveva da casa se non per necessità o per dovere, mica si andava a fare la gita sul lago per vedere l’effetto che faceva. Un lago in cima alla montagna non va bene, Dio non ha fatto la terra mettendo il mare in montagna e se non l’ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. Un uomo era a letto ammalato, male di stagione, anche chi è abituato a stare nel buio delle miniere, subisce l’insulto di un’infuenza. Vede spalancarsi l’uscio, lo prendono su con le lenzuola e lui grida ‘ma cosa fate? Lasciatemi stare’ e loro niente, urlano e lo portano via, fuori di casa. E là fuori di casa, da quella portantina traballante, vede le case sull’altra sponda di Dezzo andare giù come birilli con letti e credenze che emergono e scompaiono. IL RITORNO DELL’ONDATA C’era uno quasi in mezzo alla fumana e aveva la bocca aperta in un grido silenzioso, emergeva e scompariva, alzava un braccio e l’acqua glielo richiudeva. Era attaccato a una pianta che si è piegata all’evidenza e se lo è portato via. Il masso della casa del curato aveva salvato mezzo paese. Sembrava passato tutto, la gente sui prati correva giù per scavare nel fango. E’ passata, è passata. No, ecco che l’ondata torna indietro. Era arrivata alla strozzatura della Via Mala, in un posto chiamato Riina di Cà, lì si era imbizzarrita, non aveva trovato sbocco ed era tornata sul paese spazzando via quel che era rimasto. Sembrò una crudeltà, un inferire della catastrofe sui sopravvissuti della prima ora. Passò, alta di nuovo come una casa e si portò via quello e quelli che aveva trovato allo scoperto.

UNA SPERA DI SOLE C’era una donna che scavava nel fango. L’ondata le passò sopra e incredibilmente la lasciò ancora lì, sul mucchio di fango che copriva quella che era stata la sua casa, con le unghie ancora piantate nella terra sporca che aveva seppellito tutto, anime e corpi. Questo vide quell’uomo dentro il suo lenzuolo sporco, nel posto dove l’avevano lasciato i suoi soccorritori, già ripartiti per salvare altri compaesani. Da tutta la valle accorreva la gente piangendo, gridando, spintonandosi, aiutandosi, che sembrava di essere sotto la torre caduta di Babele, puniti da Dio per i peccati di tutte le generazioni che c’erano state, pensando che non ci sarebbe più stato niente dopo, perché di sicuro quello era il giorno del giudizio universale. C’era gente che cercava di passare il fume, che si era fatto lago, con delle scale di legno, ma si rovesciavano e quelli annaspavano nell’acqua torbida, che nessuno sapeva nuotare, perché non c’era mai stata tradizione né necessità di impararlo, in montagna. Poi, come una beffa, no, come una promessa di armistizio, se non proprio di pace, uscì d’improvviso una spera di sole, come niente fosse tornava il sole. E illuminò quella donna che scavava nel fango e un uomo, lo riconobbero, si chiamava Battista, che piangeva su un mucchio di fango e diceva piano, come non volesse disturbare, ‘qui sotto ci sono i miei’ e parlava come se lo potessero sentire, ‘aspettate che cerco di tirarvi fuori’.

LA PAZZIA DEL DOLORE Ma quel sole era un sole malato. Arrivava un altro vento che nessuno aveva sentito, il vento della follia per il troppo dolore. C’era uno che andava in giro cantando una canzonaccia piena di parolacce, con un fasco di vino trovato tra le macerie dell’osteria, beveva e cantava barcollando sul niente, perché non c’era più sentiero o strada, solo una pianura di fango e di acqua. Una donna passava di lì e gli disse, sibilando, ‘ma non ti vergogni?’, l’uomo si voltò appena, tese le mani come in un abbraccio, le richiuse sul niente e cadde a terra dove la donna sentì che, con la bocca mezza piena di fanghiglia, gorgogliava e piangeva a dirotto, come un bambino. I pochi sopravvissuti vagavano per quello che era stato il loro paese, si lasciavano lavare e rivestire, proprio come i bambini e stavano lì inebetiti a sentire rosari e litanie, chiacchiere e mormorii, urla di dolore di compaesani che scoprivano cadaveri. Stavano lì attoniti, estranei, ormai privi di coscienza del bene e del male, al punto che qualcuno si metteva con qualcun’altra, vedove di mogli e mariti, vedovi di rimorsi, solo cercando di risentirsi vivi. Nelle settimane successive, quando il dolore si tramutò in rabbia e furore, il Viganò fu fermato a Dezzo mentre scendeva da Vilminore con la sua auto e venne gettato a forza in un “albe” dei maiali, denudato, insultato e malmenato. ARRIVA IL RE BEBÈ E venne sera e poi mattina, un altro giorno. Un altro giorno? Ma non c’era già stato il diluvio, il giudizio universale, la fne del mondo? Di là dal fume qualcuno gridò che era arrivato il Re, il piccolo Re di un popolo morto. Guardarono per pura curiosità oltre l’acqua ancora fangosa che aveva ripreso a scorrere come niente fosse, nel suo alveo antico, come non avesse colpa, perché quella era acqua nuova, niente a che vedere con quella che si era vendicata del tentativo di fermarla, là in alto, in quel lago innaturale. Non c’era più il vecchio ponte, non c’era più niente e allora quel piccolo Re era arrivato a vedere il niente. Cosa era venuto a vedere nel deserto fangoso del disastro? Uomini sbattuti dal vento del dolore? Guardando a fatica lo videro, tra le camicie nere, un piccolo uomo su un masso enorme. “E’ un Re bebè”, disse uno, da questa parte del fume. E gli voltò le spalle.

I ROTTAMI SUL LAGO Il vento e la fumana della disgrazia erano scesi fno alla pianura. Altri morti, altro sangue, altre vite, altre case, altre urla, altri pianti. Nella parte bassa di Angolo, Gorzone e poi Corna di Darfo. Il torrente Dezzo, costretto nella ripida Via Mala, apparve all’improvviso dalla gola, con un’ondata che precipitando aveva ripreso forza e volume tale da spazzare via case e fabbriche, gente e masserizie. Sul lago di Lovere e Pisogne galleggiarono i rottami della nostra storia, della nostra memoria, senza pudore. Novant’anni fa, il primo dicembre 1923, era di sabato. E Dio pagò di sabato, quel giorno, avrebbe ripetuto quel prete. Ma Dio non c’entra in questa storia, ce l’hanno tirato dentro a forza. Perché questa è storia di uomini, di quelli che sono morti e di quelli che sono stati la causa della loro morte.

Progetto cambiato in corso d’opera Materiali non conformi. Gli scioperi. La diga riempita troppo presto. Il processo e la sentenza di condanna

L’Arciprete di Vilminore, don Bortolo Bettoni, scrisse nel Chronicon che le ragioni del disastro erano dovute a “imperizia, incoscienza e superbia umana”. Le vittime identifcate o registrate come “dispersi”, secondo la ricostruzione di Giacomo Pedersoli (“Il Disastro del Gleno” – edizione Toroselle . aggiornata nel 1998) furono 358 (226 in Val di Scalve e 132 nella bassa valle tra Angolo, Corna di Darfo. A Dezzo, Angolo e Corna di Darfo ci sono lapidi con elenchi (parziali) delle vittime. L’idea di costruire una diga nella Valle del Gleno (allora Comune di Oltrepovo, ora comune di Vilminore di Scalve) risale al 1916 quando la ditta “Galeazzo Viganò” per i suoi stabilimenti cotonieri, pensa di procurarsi energia direttamente e rileva una concessione per l’utilizzo dell’acqua del torrente Povo, che scende dalla Valle del Gleno, risalente al 1907. Ma il progetto prevedeva poi impianti di convogliamento e sfruttamento delle acque di altri torrenti (Tino, Nembo, Vo e Gaffone). Nel 1917 cominciano i lavori di preparazione, diretti da Michelangelo Viganò, che muore un anno dopo, nell’ottobre 1918. Gli subentra il fratello Virgilio Viganò che costruì la villa a Vilminore (attuale sede del Biennio). La diga doveva produrre 60 milioni di chilowattora. Nell’estate 1919 cominciano i lavori veri e propri, prima dell’approvazione del progetto che avverrà due anni dopo (marzo 1921). Progettista è l’Ing. Oscar Gmür: la diga sarà “a gravità, in muratura di calce idraulica” per un serbatoio di “circa 5 milioni di metri cubi d’acqua”. Nel settembre 1920 muore l’Ing. Gmür e subentra l’Ing. Giovan Battista Santangelo che cambia il progetto con uno ad “archi multipli”. Cambierà anche l’impresa: si passerà alla “Vita & C”.

LO SCIOPERO Molti operai furono reclutati fuori valle, perlopiù in valle di Scalve furono impiegare le donne per “portare sabbia e cemento al cantiere della valle del Gleno”. Ci fu anche la “settimana rossa scalvina”dal 18 al 26 ottobre 1919 in cui gli operai dell’impresa Bonaldi, che lavorava per i Viganò, rivendicarono le “otto ore” di lavoro. Venne chiamato da Bergamo un “conferenziere”, che venne multato dal maresciallo dei carabinieri, perché tacciato di essere “socialista”. In realtà era un “sindacalista bianco”, cattolico. Ma l’anno dopo, 1920, una quarantina di operai di Pezzolo e Bueggio, con il capolega Duci, rivendicano un aumento di salario di 3 lire all’ora per le loro 10 ore di lavoro giornaliere perché i generi alimentari sono aumentati. Il Viganò rifuta di trattare. Viene proclamato uno sciopero con otto giorni di manifestazioni, arrivano a Vilminore camion pieni di carabinieri e anche il deputato socialista Zilocchi. Ci sono 4 arresti (due di Bueggio e due di Pezzolo) per ostacolo ai camion delle forze dell’ordine. Gli operai si dividono, alcuni tornano al lavoro.

L’impresa concede un aumento dai 20 ai 60 centesimi l’ora e di una lira e venti centesimi al giorno. Arriva a Vilminore anche il Vescovo di Bergamo Mons. Luigi Maria Marelli e a Vilminore c’è anche, in vacanza presso la famiglia Bonicelli, don Angelo Roncalli. E si annota la burrascosa partenza del Curato don Antonio Donadoni con il “pretesto che prendeva troppo poco e non poteva vivere”, annota l’Arciprete. C’è una manifestazione operaia, scendono dalla vecchia mulattiera di Pianezza con “bandiere rosse e canti ribelli”. Ma poi il lavoro riprende.

LA DIGA SI RIEMPIE Nell’autunno del 1922 la diga si riempie, con i lavori in corso, parzialmente, poi svuotata e lasciata riempire di nuovo. Un operaio racconta: “Lavoravamo con l’acqua alle caviglie e nelle arcate mettevano il bitume ma nei piloni mettevano di tutto”. L’acqua cresce, gli ingegneri Lombardi e Sassi del Genio Civile nel sopralluogo del 21 ottobre 1923 si allarmano per il lago ma poi nella relazione scrivono che “non c’è nulla di anormale”.

Per 46 giorni il “serbatoio” rimane pieno e non ci sono più ispezioni. Il giorno prima del disastro il guardiano riferisce che gli venne chiesto dall’ing. Conti “se avevano messe le tavole agli sforatori per otturarli: gli operai avevano eseguito l’ordine”. Vale a dire che si faceva in modo di avere più acqua. Supererà gli sforatori di 20 cm. Alle obiezioni sulle falle della diga (l’acqua usciva dalla muraglia), il Viganò rispose: “Io ho costruito la diga per tenerci dentro l’acqua, non per lasciarla andare AL PROCESSO E LA SENTENZA Dopo la tragedia il processo andò per le lunghe, si ingolfò in “incidenti procedurali”, sospensioni tecniche, perizie, rinvii a nuovo ruolo e giunse alla conclusione soltanto nell’estate 1927.

Cento testimoni. Le accuse erano sul progetto cambiato, sul materiale usato (la malta e la calce e pietrame a secco, ferro residuato di guerra), sulla struttura (piloni non adeguatamente ancorati alla roccia), sottovalutazione delle perdite della diga, utilizzo prematuro della diga, fretta nei lavori (a cottimo), assenza di sorveglianza, costruzione senza progetto approvato, mancato collaudo. Le richiese del pubblico ministero (9 anni di carcere per Viganò e l’ing. Santambrogio), già di sé non pesanti, vennero stravolte dalla sentenza (4 luglio 1927) che infisse all’imprenditore e al suo tecnico tre anni e quattro mesi di carcere, ma due anni furono condonati, come pure la multa infitta che fu ridotta a 7.500 lire. I ricorrenti erano stati tutti “tacitati” prima del processo con risarcimento

VILMINORE Il sindaco non si ripresenta (nel 2016) “Coi soldi delle centraline (5) paga trasporto e …

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Nel 2016, alla scadenza del nuovo appuntamento elettorale, il sindaco Guido Giudici, annunciando di non ricandidarsi affiancato da un altro annuncio: “Abbiamo in progetto altre 3 centraline oltre alle due funzionanti. Due partiranno entro il 2015 e saremmo a 4.

GLI SLUM DI BERGAMO “NOI RACCOGLIAMO I COCCI DELLA SOCIETÀ

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 Oggi è la NORMALITÀ che produce il DISAGIO La Chiesa non poteva non essere là dove l’uomo vive l’estrema sofferenza, l’abbandono. Le persone non hanno bisogno solo di mangiare, hanno bisogno di essere ascoltate”.

Angoli che sembrano ingoiati da spazi di buio senza fondo, pozzi di anime immersi in brandelli di buio, vicoli che si infilano come se la città fosse una cartina geografica senza punti di arrivo. Don Fausto Resmini si muove lì, in quel fazzoletto di terra che va dalla stazione autolinee di Bergamo e si perde nei buchi neri di tutto il resto della città, in quei buchi si infilano i tossici, immigrati, senza tetto, nuovi barboni da crisi economica, per consumare un pasto caldo che Don Fausto allunga a chiunque si avvicina al suo ‘Posto Caldo’, una media di 150 pasti caldi e un rifugio per 35 posti letto dove passare la notte. In mezzo una comunità con 85-90 ragazzi, donne, uomini alloggiati a Sorisole per cercare di accendere sprazzi nei buchi neri, 17 gli educatori che cercano di trovare il filo di Arianna di un labirinto di anime e corpi. Mica è fnita qui. Don Fausto è anche il cappellano del carcere di Bergamo, dal 1992, sono passati 17 anni e davanti a lui centinaia, migliaia di carcerati, un via vai di anime e corpi da nascondere dietro sbarre di ferro. Via Gleno. Bergamo, altro anfratto di vicoli bui che scoppiano di persone, adesso in Via Gleno c’è un nuovo padiglione, ultimato già da quasi due anni, tutto nuovo, piastrelle, bagni, telecamere a circuito chiuso, una trentina di celle, c’è tutto, mancano i detenuti, ancora chiuso, per mancanza di agenti. E nel frattempo il carcere scoppia, 525 detenuti contro i 340 posti disponibili. La strada è l’opposto. Scoppia anche lei. Ma di solitudine. Strade lunghe che sembrano non finire mai. Qui a mancare non sono gli agenti. Qui a mancare è la gente che ascolta, che allunga una mano, che ti abbraccia o ti accoglie. Don Fausto Resmini è in tutti questi posti, a fare da mano, da orecchie che ascoltano, da anima che ospita, da piatto che sfama. Nato a Lurano nel 1952, prete del Patronato San Vincenzo, ordinato sacerdote nel 1978. Perché il Patronato? “Sono uno degli ultimi figli di Don Bepo, sono entrato al Patronato per ragioni di studio nel 1960 e da allora sono sempre rimasto al Patronato. Prima a San Paolo d’Argon, poi sono tornato a Sorisole, poi ancora a San Paolo come educatore e poi ancora a Sorisole. Infanzia e adolescenza passate al Patronato, prima come ragazzo che in quel momento aveva bisogno di essere tutelato e aiutato e poi mi sono assunto le responsabilità come educatore, seminarista, chierico e prete”. Perché dice che è stato aiutato quando era ragazzo? “Perché bisogna tenere conto che in quegli anni nei paesi non c’era la possibilità di frequentare la scuola media e in prospettiva di questo ero andato al Patronato già dalle elementari per avere la possibilità di proseguire gli studi. Lì poi ho conosciuto tanti ragazzi con problemi e difficoltà, con situazioni familiari problematiche e da lì man mano dall’evoluzione dell’adolescenza in poi mi sono posto moti problemi, non ultimo quello che potevo fare io per gli altri. Io non ho mai pensato che il mio rimanere al Patronato fosse legato a un progetto personale

ma sentivo che era legato a un progetto legato all’attenzione degli altri. Eravamo in un gruppo di 15, buona parte diventati sacerdoti, Don Bepo a questo gruppo teneva molto, ci ascoltava, ci convocava”. Quindici seminaristi del Patronato: “Frequentavamo il seminario ma c’era la possibilità di passare i momenti forti della settimana al patronato”. Avvertiva una diversità con i seminaristi del seminario? “Non negli studi, i seminaristi avevano attività legate alla parrocchia, legate agli incontri per le giornate vocazionali per il seminario, a noi invece era concesso di tornare al Patronato per vivere una relazione con i bisognosi, i giovani e i ragazzi, un tirocinio di vita”. Una scelta diversa: “Quando sono diventato sacerdote era il periodo in cui erano sorti problemi ai quali bisognava dare una risposta. Come farsi carico dei ragazzi provenienti dal Beccaria, da situazioni di tipo penale, allora c’erano i riformatori giudiziari ma si stava già profilando un cambiamento nel nostro diritto penale. La nostra struttura di Sorisole era già stata interpellata, avevamo allora ragazzi con problemi ma non così gravi, di fronte a questa domanda abbiamo dato una risposta affermativa e ci siamo preparati ad accoglierli”. Don Fausto fa un passo indietro: “Ripenso a Don Bepo che diceva che l’esigenza educativa si modifica con il cambiamento dei tempi, i ragazzi del Beccaria erano quindi i nuovi poveri, l’alternativa al carcere era la comunità ma se le comunità avessero risposto ‘è troppo impegnativo’, il carcere diventava l’ultima parola. Sono arrivato in strada proprio grazie ai ragazzi, negli anni ‘90 seguendo i ragazzi che scappavano dalla comunità, perché non con tutti finisce bene, non è che una comunità cambia una persona, l’aspetto educativo è un’arte di pazienza, dedizione, anche di intervento duro, non tutti questi ragazzi ce la facevano, così seguendoli ho conosciuto la strada dove si rifugiavano. Li abbiamo cercati e li abbiamo trovati in stazione e lì abbiamo scoperto che nasceva una situazione di gravità assurda. Solitudine, abbandono, esclusione. Erano gli inizi degli anni ’90, non c’era ancora il fenomeno immigratorio di oggi e cominciavamo a muoverci in questo mondo delle stazioni e della strada. Di gente che viveva e dormiva fuori, un malessere della città legato al fatto di non essere di nessuno. Un intervento che si è strutturato col tempo, i camper, la distribuzione dei pasti, dei vestiari, dell’accoglienza notturna, andare nella città a incontrare dove vivevano questi poveri”. L’anno prossimo sono 20 anni che don Fausto è sulla strada e in stazione: “Vent’anni caratterizzati dalla presenza non solo del patronato ma dell’intera chiesa di Bergamo in un luogo dove nessun’altra realtà c’era, né lo stato, né l’attività pubblica, né nessun altro”. Ma non è che siete solo voi e non la Chiesa? “No, è limitante dirlo. Noi siamo andati lì con un preciso intento, la Chiesa non poteva non essere là dove l’uomo vive l’estrema sofferenza, l’abbandono, il vescovo Roberto ha sempre fatto suo questo pensiero, non ha mai mancato di incoraggiarmi, di sostenermi, di difendermi a livello politico, è vero che c’era un sacerdote ma non a titolo personale. Sarebbe limitante dire che sono lì a titolo personale, siamo lì con impegno e servizio sapendo che la chiesa ha un ruolo importante, altrimenti saremmo assunti dal Comune”. Strada, stazione, giovani. Un quadro della situazione: “Sulla strada arriviamo a provvedere a una mensa con 150 pasti, dalle 22 alle 24 possono usufruire della mensa, un pasto caldo, consumarlo seduti dentro questo luogo di accoglienza. Noi non chiediamo i documenti e questa è un’altra di quelle sensibilità di cui la chiesa si fa partecipe, se fossimo lì a titolo pubblico lo chiederemmo, ma essere presenti a nome del vangelo non fa richiedere nulla, in quel momento qualcuno ha bussato e io gli apro e quello che ho glielo metto a disposizione ma proprio per non rischiare che arrivi qualcuno a controllarli molti prendono il sacchetto e se ne vanno nei luoghi più bui della nostra città, luoghi che non hanno niente di meno degli slum che si vedono in India, dove vediamo queste grandi periferie abbandonate a se stesse, luoghi fatiscenti che diventano rifugio della notte. Ma poi c’è il servizio collaterale di ascolto, le persone non hanno bisogno solo di mangiare, hanno bisogno di essere ascoltate ed è la cosa più diffcile, non si deve andare prevenuti, con l’idea di avere in tasca la soluzione di grossi problemi che non risolveremo. Per incontrare i poveri bisogna abbassarsi, mettersi a disposizione”. Ma la gente che arriva in stazione è figlia di chi? “Quando abbiamo iniziato erano italiani, adesso i tempi sono cambiati, il 55-60% sono stranieri, molti in Italia da anni, qualcuno lavorava e causa crisi è rimasto senza lavoro, poi senza casa e alla fine si è trovato lì, di tornare al proprio paese da sconfitti neanche a parlarne, non se la sentono. E poi ci sono i ragazzi di colore che sono la nuova immigrazione, sono venuti a lavorare in nero, avevano trovato alloggio presso i datori di lavoro magari in un garage, poi è arrivata la legge che dice che chi ospita i clandestini è perseguibile penalmente e poi è arrivata anche la crisi economica che ha fatto il resto. Non erano portatori di disagio, la legislazione li ha obbligati all’esclusione e hanno bisogno di tutto, dal pasto al vestito, alla doccia, all’accoglienza notturna. Le persone non possono e non devono essere abbandonate, mai”. Centocinquanta pasti e il centro di ascolto, chi vi cerca dove vi trova? “Al mattino c’è il camper in fondo alla stazione delle autolinee, ben visibile, vicino alle panchine che sono diventate la casa di tanti emarginati, il camper fa un po’ di tutto, da un lavoro di ascolto al farsi carico delle situazioni di salute, dall’accompagnamento al Sert, a portarli all’ospedale, alla Caritas, ai colloqui con le comunità. Da soli non andrebbero mai. Sulla strada poi abbiamo 3 educatori che fanno servizio mattino e pomeriggio, la notte ci sono 60 volontari sulla strada, ogni volontario fa una notte e noi sacerdoti siamo in due, con me il vescovo ha mandato Don Marco Perucchini. Il turno di notte finisce all’1,30. Siamo in stazione fino a mezzanotte, poi ci vuole tempo per portare le persone che vengono a dormire in Comunità a Sorisole, sistemarle, insomma, all’1,30 si chiude perché alle 7 del mattino si torna in strada”. Sorisole, una comunità-paese: “C’è un dormitorio, un reparto di degenza per i malati e un container per fare dormire altra gente”. Spazio anche e soprattutto per i minorenni: “Un ragazzo che compie un reato a diciassette anni e mezzo, diventa maggiorenne durante il suo iter penale, intanto che sconta la pena detentiva, sa che per rientrare in società ha bisogno di un lavoro, di una casa, c’è tutto un cammino che è la scommessa futura. Abbiamo 15 ragazzi provenienti dal carcere minorile, 25 con situazioni di grave marginalità, poi ci sono gli stranieri portati dalla Questura, la gente che arriva dalla stazione, in tutto 85-90 persone. Gli educatori sono 17, laici e regolarmente assunti. Insomma una comunità che diventa un piccolo paese attorno a chi deve provare a ritrovare un pezzo di vita”. Sta succedendo qualcosa ai ragazzi o è normale che il disagio nei minorenni sia in costante aumento? “Se una volta i problemi, il disagio e la devianza caratterizzavano coloro che avevano situazioni gravi a livello famigliare e sociale, oggi il disagio è legato alla normalità. Un mondo quello degli adolescenti che non solo è in fermento ma è in cambiamento, se pensiamo a cosa porta l’uso delle sostanze stupefacenti, ai luoghi dove si spaccia, dove vivono le loro trasgressioni, ci sono reati che non esistevano anni fa, penso alla violenza negli stadi, ai reati a sfondo sessuale, alla violenza di bande, non vuol dire che tutti sono così. C’è un cambiamento con un mondo che ha fatto un salto di qualità, che non è più legato solo al disagio sociale ma alla normalità”. Famiglie cosiddette normali che occupano un grado sociale secondo loro importante con figli coinvolti in una situazione di devianza. Come fa un genitore ad accorgersene? “Prevenzione. Il problema è che i genitori dovrebbero essere molto più attenti al mondo dei fgli, non sottovalutarlo, i genitori dedicano poco tempo ai loro figli, non dobbiamo aspettare le scuole superiori, si deve cominciare dalla 5ª elementare. Pensiamo a cosa noi diamo ai nostri figli in termini di beni economici ma a quanto poco instauriamo delle relazioni affettive, c’è una povertà affettiva che fa paura. Ci sono genitori che lavorano giorno e notte ma non hanno una relazione con i figli”. Un mondo che cambia: “La scuola, la chiesa stessa, gli oratori percepiscono un cambiamento radicale rispetto a vent’anni fa, già dalla scuola elementare adesso c’è un’inquietudine fortissima, è un trapasso non solo culturale ma esistenziale, alla base c’è la trasformazione della famiglia”. E arriva il gruppo: “E nel gruppo fai tutto, così capita che il sabato sera solo per fare qualcosa di diverso o forse solo per un momento di esaltazione per il gruppo, vanno in qualche posto, bevono, fumano qualche canna e cominciano a prendere di mira qualcuno, picchiano, rapinano ma per fare una serata diversa, non c’è motivazione. Poi li prendi da soli e non li riconosci più, nel contesto del gruppo fanno cose impensabili ma il gruppo non deve essere il luogo dove si cresce”. Differenza tra i ragazzi di città e quelli di provincia? “Nessuna, dai 16 anni in poi si assomigliano tutti”. Per lei niente parrocchia: “Nelle parrocchie il lavoro dei sacerdoti è nell’ottica della prevenzione, il mio servizio è invece quello di raccogliere i cocci. Sono due cose diverse. Fare prevenzione è importantissimo, se non ci fossero gli oratori non so come faremmo, impedire di arrivare al limite è importantissimo, anche se nella società il mio servizio è visto come più attuale, l’oratorio avvicinando i giovani e i bambini compie un’opera preziosissima”. Non le è mai capitato che quando vengono da lei la sera, qualcuno al posto di un posto caldo cercasse Dio? “Il problema è che non si cerca mai Dio in astratto, lo si cerca passando attraverso dei gesti, delle accoglienze, dei silenzi, degli sguardi, delle attenzioni, non si cerca mai un Dio astratto, Dio è sempre concreto, mi creda, mi creda davvero”. Lei è cappellano del carcere dal ’92: “Sono entrato come volontario nell’88, adesso il carcere aprirà una nuova struttura, preti e cappellani hanno un ruolo importante perché il cappellano è cercato quotidianamente dai detenuti, non solo cristiani, ma anche musulmani, in carcere avere altre fedi non è discriminante, il cappellano deve rendere presente l’azione di Dio e della chiesa, c’è un’azione della chiesa quotidiana, anche per chi non è nella nostra fede. Ciò che colpisce quotidianamente lo straniero è il gesto di carità, di amore, il fermarsi e l’ascoltare. Non sempre nel paese da dove venivano avevano questa cura, anche se devo dire che dal paese da dove venivano non dormivano per strada, c’era poco ma c’era per tutti, c’era molta più dignità”. La Chiesa vicina a Don Fausto e Don Fausto ci tiene a dirlo e racconta un episodio particolare: “Il vescovo Francesco Beschi appena nominato mi ha detto subito ‘voglio rendermi conto e toccare con mano la strada’, è rimasto una notte per strada, è salito sul camper, ha fatto il giro di tutti quei luoghi, di prostituzione, di disagio e di rifiuto della città, e questo gesto è stato come porre un punto, come dire ‘noi vogliamo continuare ad esserci’. Io capisco che sfugga a molti, perché tante volte il servizio si giudica come si giudica la politica, il ruolo della Chiesa magari si vede poco dal fuori ma è molto forte e io la Chiesa l’ho sentita sempre molto vicina”. A forza di maneggiare cocci non si è mai tagliato? “Sì ma non siamo lì a titolo personale, siamo lì a titolo del vangelo, quando succede mi dico ‘domani riparto’”. Per Don Fausto non è il cibo quello che la gente cerca da lui. “No, nella città potrebbero recuperare sempre qualcosa, ogni mattina bussano ai monasteri di clausura, potrebbero benissimo recuperare qualcosa, il problema è la relazione, attraverso la nostra presenza sentono di appartenere a qualcuno. Senza relazione l’uomo muore tutti i giorni. D’accordo cercare il pasto ma quello di cui davvero sentono bisogno è qualcuno con cui parlare”. C’è qualcuno di loro che ha scelto di fare questa vita? “Nel passato sì, oggi no, si sono trovati dentro e può capitare a tutti”. Una storia a lieto fine: “Renato che adesso lavora, era un alcolizzato sulla strada, agli ultimi sgoccioli, con il nostro aiuto e la sua volontà si è tirato fuori, è venuto a Sorisole, si è recuperato, ha il suo appartamento, lavora per il Comune, ma ogni domenica, ogni minuto libero lo passa qui da noi come educatore anziano. Per il resto il nostro lavoro non è legato al recupero immediato, i risultati non li vediamo noi ma le comunità di accoglienza dove inviamo i ragazzi”. Non sogna mai un calice intatto, una parrocchia? “Io non è che sogno la parrocchia, sento che la mia parrocchia è la strada e il carcere, non mi sento diverso dagli altri, anzi, mi sento e sono pienamente inserito. Nella Chiesa ognuno ha la sua ministerialità e ci sosteniamo a vicenda, gli altri parroci non mancano di aiutarmi e sostenermi”. Don Bepo sarebbe contento? “E’ contento. Quello che secondo i suoi tempi ha realizzato cercando di andare incontro ai bisogni dei poveri e degli emarginati, oggi continua”. Don Fausto deve tornare fra i suoi ragazzi, comincia a far buio e la stazione chiama: “Prima però fatemelo dire, se c’è qualcuno che vuole mettersi in cammino noi siamo qui. Li aspettiamo. Lo scriva”. Lo scriviamo.