venerdì, 1 Novembre 2024, 13:12
Home Blog Pagina 1978

Nella vita, come nella scultura, bisogna togliere… sono un moscerino nel pianeta, ma almeno a uno che sta morendo, gli prendo la mano e lo aiuto a morire”

0

 

Mauro Corona, scultore, scrittore, parte di un bosco, albero, pianta, montagna, artista e altro, molto altro. Una concezione di vita particolare, con l’anima che va colta e il corpo che quasi va da solo, in mezzo a una montagna o anche sotto una valanga, partiamo così: “Sì, Io sono finito in una valanga perché avevo capito che veniva giù, ma come quelli del Vajont ho voluto dire: mah forse… e invece mi ha preso ed il mio amico è morto lì, stesso punto perché l’altro sì e io no? Questo segno di matita che è la vita, un segno curvo, chi più lungo chi più corto, chi non parte nemmeno, il suo era finito lì, probabilmente aveva da fare altra roba nell’altro mondo, oppure io sono uno sfacciato, fortunato”. Scultore senza studi ma con una guida particolare, Mauro lo capisce dal suo primo lavoro, il più importante. “La Via Crucis di Massa Cile, e non ho nessun problema a dire che quello è il mio più bel lavoro, non come tecnica, lì a digiuno di tutto ho fatto una Via Crucis ottima e senza tecnica, senza niente e da lassù mi ha guidato la mano, non c’è niente da fare, perché non è possibile fare una via Crucis a digiuno di tutto, come se tu ti metti lì a fare una Via Crucis, lì io mi sentivo guidare da qualcosa, che mi diceva taglia lì, in tre mesi l’ho fatto, oggi che ho la tecnica mi ci vorrebbe un anno per fare 14 pannelli”. E tu da lì hai deciso di abbandonare casa tua? “Sì perché ho capito che mi potevo mantenere, e questo grazie a un tizio, Renato Gaiotti che non l’ho più sentito e mi ha dato fiducia e lo meritava perché la riconoscenza è un sentimento di neve, quando arriva il sole si scioglie la neve e si scappa pur di non doverti dire ‘te lo devo’”. Corona le sue notti le passa coi libri, in mezzo al mondo delle valli. Leggi sempre di notte? “Quasi sempre, io dormo tre ore. E come disse Borges, non c’è nessun libro cattivo, perché anche se è una porcheria, c’è una riga che ti può sconvolgere la vita, e perciò qualsiasi incontro, anche noioso, però ti può arricchire, guai selezionare l’amicizia, un gesto di arroganza, insopportabile e imperdonabile, si qui vengono anche delle persone noiose che ti tirano le palle lunghe, ma io devo essere tollerante e capire perché uno si comporta cosi, ci saranno delle cose alla base, avrà avuto una vita infelice, forse non sarà riuscito a leggere un libro, le persone non vanno subito tranciate, poi chiaramente se uno mi annoia la prossima volta cerco di evitarlo, ma non con cattiveria. Guai al mondo, bisogna aspettare, anzi io ho ricevuto le più grandi lezioni da analfabeti, mio nonno che mi diceva, quando incidi un albero per fare l’innesto tu devi mettere le mani cosi, perché prende paura l’albero e gli viene la febbre, mio nonno era analfabeta ma questa qui è letteratura, era un signore un metro e 95, lui mi diceva servono 100 quintali di legna, se facevi 101 ti spaccava le mani, quel quintale lì serve ad altri, tutta una lezione, andavamo a rane per mangiare, ne volevo prendere di più e impacchettarle, niente da fare, calcolava anche le rane”. Certo che fa impressione che in tempi di povertà la gente calcolasse l’essenziale. “Perché dovevano vivere con quello e dovevano stare attenti alla natura, dovevano averla sempre, quindi non distruggevano un bosco come un mio amico che arriva qui in Ferrari per distruggere boschi, io gliel’ho detto, tu devi prendere quello che ti serve per vivere, 5 milioni al mese, va bene, ma non 15, e qui bisogna educare i bambini”. Sì, siamo cosi ci accorgeremo quando saremo sull’orlo del precipizio, allora da animali feriti che hanno il sentore della morte… “Lo diceva Rudolf Stainer nel ‘23, ha fatto più di 5000 conferenze, aveva previsto la mucca pazza nel ‘22 quando l’animale verrà cibato con l’altro animale impazzirà, leggetevi Stainer” E’ vero che con Sgarbi hai litigato? “Non proprio, è venuto una po’ di volte, poi se l’è presa perché avevo una scultura non finita che rappresentava una maternità e mi ha chiesto quanto volevo, metti che gli ho chiesto mille euro, e lui mi ha detto: ‘no ti do la metà perché non è finita’ e io ti do metà scultura, ho preso la motosega e l’ho segata”. Il tuo amico Marco Paolini ha portato in giro “Vajont”. “Si Paolini abitava qua in Vajont e il primo spettacolo durava 20 minuti, poi lo ha arricchito, c’è dentro di tutto, tre bevitori che raccontano pezzi di anima di chi allora c’era, leggera, ma che si infila dappertutto”. E poi i libri che escono e arrivano dappertutto, te li ritoccano gli editori? “No, neanche una parola”. Quindi una grandissima fiducia? “Mah! forse fretta”. Corona racconta aneddoti: “Io ho avuto fiducia nelle persone che mi hanno dato fiducia, Einaudi, adesso Mondadori, ha creduto in me, ma prima sapevo che c’era qui in zona la Feltrinelli, vado lì con il malloppo, mi avvicino… ‘mi scusi vorrei…’. ‘No guardi se vuole un autografo li c’è Tabucchi’, ‘ah va bene! mi scusi’, Avevo il malloppo nello zaino e allora sono andato da Tabucchi e mi sono fatto firmare il libro”, E con Mondadori quanti libri ti sei impegnato a scrivere? “Tutti quelli che farò, eh si la riconoscenza è un sentimento di neve, ne ho più di due o tre, fabe per bambini, di gnomi cosi ecc quello è bello”. Tu e il vino, un rapporto strano, ultimamente però in un tuo libro dici che è un prezzo che si può non pagare: “Sì, bisogna usarlo ma non pagarlo, bisogna insegnare ai bambini la conoscenza, il dominio della cosa, perché anche io ho sempre bevuto, però faccio anche dei mesi solo con acqua, perché voglio vedere con me stesso… non si può essere succubi di una cosa. Io oggi ho acceso il toscano, ma erano settimane che non lo accendevo, prima fumavo 4-5 pacchetti di Camel al giorno fno all’anno scorso. Una mattina mi sento un cumulo dentro mentre corro e mi sono detto basta, ora non fumo più e non ho più fumato e non ho avuto drammi né traumi, io ho detto non fumo più e non ho più fumato, ogni tanto accendo la cicca ma senza respirare”. Anche se oggi non c’è più la passione per il vino, ma c’è lo stordimento del vino. “Mi sono accorto che i giovani bevono da matti, vogliono farsi male, bevono male, perché se noi andiamo a pranzo, ci beviamo una bottiglia di Cabernet e ce la raccontiamo per ore tranquilli e invece i giovani si annientano, l’ho visto a Milano l’altra sera, c’erano diversi miei amici che scrivevano li alla Bocconi, gente piena di soldi e molti con cocktail di superalcolici, io mi sono bevuto le mie due bottiglie di bonarda, so che cos’era. Questi qua mischiavano wiskhy e coca cola a manetta. E poi anch’io non sono un grande esempio. Un giorno in una scuola a Trento dove mi avevano invitato a parlare al termine della lezione mi sono infilato in un bar a bere whisky, i ragazzi mi hanno seguito e bevevano anche loro, se lo fa una scalatore allora vuol dire che non fa male. Un’altra volta mi sono arrampicato in California, sono venuti a farmi un’intervista e li ho stesi, abbiamo bevuto una quindicina di prosecchi”. Con tuo padre nei tuoi libri a volte sei andato giù pesante, soprattutto nel tuo libro sul vino: “Se le merita, se le merita, però in questo libro sul vino lo prendo in braccio, quando mi ha dato un destro sono finito di là nella strada ed ho sfondato una porta, una vita di pacche e di botte, adesso basta gli ho detto, gli ho dato io un destro, lui era venuto su in mutande, perché picchiavo alla porta per avere da bere, erano le tre di notte e gli ho tirato il destro ed è finito in fondo alle scale e poi ho guardato se si alzava e ho visto che gli usciva un po’ di sangue dal naso, a me usciva dall’orecchio, ‘ah’ mi fa in italiano ‘il giovanotto è diventato coraggioso, ho un po’ di arretrati da darti se vuoi incominciamo’, ero deciso, e lui: ‘e se prendo la doppietta?’ Vediamo chi arriva prima a prenderla, gli ho detto, ma poi ho capito, questo braccio mi pesa come il piombo, oggi a distanza di trent’anni, perché allora ne avevo venti, questo braccio me lo segherei e memore del colpo, sei mesi dopo, abbiamo fatto ciucca entrambi. Ma lui era così, una volta abbiamo portato mia mamma all’ospedale, mi chiama mio fratello alle tre, dobbiamo portare all’ospedale la mamma che ha la testa rotta, cosa aveva fatto: di notte lui gli ha chiesto di trovargli le sigarette, lei è uscita dalla porta sotto, lui aveva dei sassi sulla finestra, per colpire i gatti di notte che miagolavano, e glieli ha tirati in testa perché lei non andava a prendere le sigarette ed era lì quasi morta, quasi in coma e anche all’ospedale abbiamo detto che dal tetto vecchio della stalla è caduto un sasso. Glielo abbiamo detto, adesso basta e lui ti guarda con quegli occhi, ti fulmina, ‘adesso basta perché se no ti mandiamo dentro’, e si è calmato un po’ ma non tanto, forse la cultura, l’educazione, i fallimenti, l’essere stato piantato dalla moglie, dopo sette anni o otto rimettersi insieme, non le digerisce queste cose, però lui c’è ed è così. L’albero che non dà frutti va tagliato, è scritto nel vangelo ma non è mica vero, bisogna lasciarlo li perché è comunque un albero anche se non da frutti, ti dà già il frutto di essere albero”. Simon Vail ha detto che la distruzione del passato è forse il più nostro grande crimine. “Sono d’accordo, ma non è che doveva essere cosi perché ha una durata, è un fiume la vita, non puoi metterti li con le mani a frenare il fiume. I ragazzi hanno il cellulare, le automobili, sanno quanti peli ha sul culo Schumacher… non c’è niente da fare… e allora… non lo so… Grignaschi era uno che ne sapeva, se ti leggi ‘immigrazioni’, forse uno dei più bei libri, tutto il passato è un abisso fosco e spaventoso, ciò che è entrato in quel crepuscolo non esiste più, e non è nemmeno esistito. Il passato è come noi con il Vajont, ma non bisogna usarlo a fni di rivalse o di pietismi, lo si ricorda per fermare un’epoca, come noi abbiamo trovato le scritture egiziane”. Ma non credi che ci si sia accorti di te perché ci sono delle radici che non possono essere recise? Nei tuoi libri c’è in fondo una memoria che non è mai nostalgia, ma documento. “Nostalgia mai, qualche volte mi scappa, io dico sempre: un libro è un’intervista non richiesta, tu di un autore conosci vita morte e miracoli, non vuole dirtelo ma te lo dice inconsciamente. Quando leggi un libro capisci come è chi l’ha scritto, lui lo ha fatto per colpire il lettore, ma inconsciamente è lui… ve lo giuro, io sono più quello dei miei libri che quello che fa lo spavaldo per difendersi dalla timidezza, faccio lo spaccone ma è solo a fn di protezione, e invece nei libri trovi la persona e non c’è…”. Nei tuoi racconti ci sono molti tipi originali… “Si i miei maestri”. Ma perché in fondo se anche io penso al mio paese, le nostre comunità erano piene una volta di tipi originali, e oggi pare che ci sia un’omologazione? “Un appiattimento, è il famoso globalismo, ma non lo si deve combattere spaccando vetrine altrui, Qui c’era gente di un’originalità, c’erano musicisti, c’era uno che cantava la Tosca dalla A alla Z, ma proprio perfetta, c’era gente di cultura, gente che leggeva, ho libri del 1700 ereditati da mio nonno, oggi invece c’è un appiattimento anche perché la gente, i ragazzi non hanno più voglia, o vogliono diventare famosi, quindi pezzi unici, capito che non lo potranno mai… se non qualcuno di quei poveri diavoli che vanno al Grande Fratello, perché anche questa è cattiva cultura, la tv ha rovinato i ragazzi, l’uomo che non deve chiedere mai, il tonno che si taglia con un grissino, queste cagate varie, ti lascio tre giorni senza cibo e dopo il tonno è buono comunque anche se lo tagli con l’ascia, e questa… e questi ragazzi che non sono mone, hanno capito e dicono va beh non posso arrivare li però ci provo, e quando fanno il concorso di bellezza Miss Italia, Miss Paese, Miss Valtellina che non sanno neanche dove è… non ci arrivano e si appiattiscono e allora cosa fanno, va beh mi adeguo: il cellulare, la macchinina, la morosetta, questo non voler più provare a fare le loro cose perché gli hanno insegnato che le devono fare solo in funzione di diventare famoso, uno non può più suonare la chitarra perché non può diventare John Lennon. Suona la chitarra perché ti piace, no, la suono perché voglio diventare… e questo è il cataclisma e qua è colpa dei mezzi pubblici: tv, giornali, riviste, sfilate di moda… Mi girano i coglioni, giro la tele perché mi documento… sono abbonato a tre, quattro quotidiani e vedo che danno una notizia ma almeno equilibrate le notizie, danno la notizia di una barca che sprofonda con 80 persone morte, un secondo dopo Pitti Moda a Milano, stride, fate un programma di moda che chi lo vuole guardare lo guarda, vuol dire che non gliene frega niente, la moda va staccata dalla tragedia, quanto meno per il rispetto, capisci, ma siccome il rispetto non c’è, mettono un minestrone, è cosi, non posso mettere apposto il mondo, però le vedo”. Tu come ti sei difeso dall’omologazione? “Perché ho imposto la mia legge, tra virgolette, senza arroganza io sono andato a ritirare il premio San Vidal a Venezia, avevo vinto un premio con la Tamaro, lei prima con Sempre Bartali, un bel tipo lei, grandiosa, ha bevuto anche 5 o 6 prosecchi con me, entro cosi con il mio zainetto, e mi fanno, dove va lei? qui. No, no lei non può entrare. Va beh allora arrivederci, però poi gli ho dato la stoccata: l’assegno però me lo mandate a casa, erano 7 milioni a quei tempi, allora, hai visto, siccome io non ero con il frac, con i calzoni, mi hanno cacciato via, io mi sono difeso in questo modo imponendo la mia volgarità, però quando hanno cominciato a parlare di libri, ho rinunciato a tante cose per salvare la mia naturalità, la chiamo cosi, non è una recita, e questa naturalità di dire le tue debolezze, prima di affrontare una situazione, devi metter sul piatto il fallimento, allora ti salvi”. Un Mauro Corona natur? “Naturale, predico sempre ai ragazzi, siate naturali ragazzi, non puoi conquistare una donna e dire, io sono il maschio, perché se sprofondi, è una tecnica anche vigliacca la mia, però dà i suoi frutti, non ho mai affrontato una situazione col vincere, non ho mai scritto attaccando la montagna, chiedendo permesso se ci lasciava salire, e cosi con donne e così con i racconti, scrivevo e bruciavo quello che scrivevo, ho bruciato 200 racconti, foto di infanzia, l’album di matrimonio, che mia moglie non me lo ha più perdonato, e io gli ho detto: ne facciamo un altro matrimonio e lo rifacciamo, quello impossibile Quindi quando tu dici: ci si può difendere dall’omologazione? Con una formula, la tua naturalità, presentarti come sei”. Ma si è avvantaggiati qui rispetto a Milano? “Qui devi sviluppare il bosco che hai dentro di te, non puoi dire, trovare la scusa, Corona è fortunato… io non ho mai visto la Pietà di Michelangelo però sapere che esiste mi fa vivere meglio e non andrò mai a vederla, non voglio rovinarmi questo mistero, l’ho vista purtroppo sui libri ma da vicino no, non vado a vedere perché mi rompe un sogno perché voglio morire sapendo che c’è la Pietà di Michelangelo e mi fa stare bene, è la tecnica degli uomini che vogliono sempre impostarsi, non me ne frega più niente, ho fatto vie nuove, ne ho fatte più di 300, perché volevo impossessarmi, volevo andare a vincere, adesso vado su montagne che ho fatto 30/40 volte, non voglio più scoprire, impossessarmi, accumulare, non posso, e quindi uno che sta a Milano… io ci sono stato l’altro ieri, e mi sono seduto li davanti al Duomo e guardavo gli alberi umani che passavano e mi dicevo: forse quello ha dei problemi chissà dove va quello con quella borsa, era un arricchimento incredibile, ma devi arrivare a quello se no, e invece dobbiamo catturare, vedere questo, quell’altro…”. Ai tuoi figli pensi di essere riuscito a trasmettere questa scuola di vita? “Si, fino ad un certo punto, perché poi ora adesso, due sono a Roma a vedere la Cappella Sistina, perché mio figlio fa la scuola di scultura accademica, e va anche bene, perché se a 20 anni non hai la curiosità, sei morto, però sanno anche sottrarsi, ma questa non è una fortuna, perché non sono cosi stronzo da dire che i miei figli stanno bene, li ho educati bene. Non ho detto fate cosi, se tu dici fai, non puoi dire ad un ragazzo non devi bestemmiare e poi tu bestemmi, adesso loro hanno un bagaglio, se lo usano bon, se no uscirà l’animale che è in loro”. Insisti molto su questo fatto… “Perché ho avuto un’infanzia, ma tutta una vita, che difficilmente sorrido e tiro le pacche, sono un uomo allegro, diceva Balzac: solo gli sciocchi sorridono alla mattina e a colazione. Questo per dirti che il bosco interiore va coltivato, perché tutti non possono andare a dormire sugli alberi come me, sì lo faccio ancora in primavera, perché mi sento più vicino al cosmo, al creato, alle anime dei morti, le notti di primavera nelle radure li senti li attorno e se ti concentri un po’ senti le voci di questi folletti, gnomi, sono i nostri morti, sento il mio corpo che si adegua alla terra che non ha più freddo, non ha più paura, trovi giovani che hanno paura a dormire fuori ma che discorsi sono questi…”. Un grande scrittore ha detto non calpestare questi fori, ma per il vento è inutile poiché non sa leggere. “Sa leggere. il vento. Una volta o due all’anno organizza un pullman e venite qui, perché no? facciamo scuola all’aperto, facciamo un percorso, facciamo vedere ai bambini che ogni albero ha una propria storia, non costa mica bilanci eccessivi, il costo di un pullman, e invece i docenti non lo fanno perché devono ritirare la paga e basta, questa è la realtà. Voglio dimostrare che con lo scarto di legno, quello che chiamano scarto, si può fare una libreria, ma tu prova a proporre una libreria, li nei salotti dove tutto è lucido e di moda, ti ridono in faccia, qua c’è la forza della terra di Dio nel tronco cosi come è, se gli metti le mani addosso senti l’energia che viene fuori, e non dare mai vernice al legno, se no gli uccidi il fluido, ma non perché non esce più, ma perché si sente offeso e chiude la porta”. Un legno vivo? “Ci parlo, qualsiasi scheggia, io ti faccio un folletto. Non esiste il legno di scarto, o faccio fuoco, che è la stessa roba anzi forse vale di più, perché dà calore, vita”. La tua grande passione della montagna? “Quella è nel DNA, sai, una roba ricevuta, chi scala vuole imporsi, la vera montagna è camminare con le mani in tasca, sederti su una cima e aspettare, ascoltare, sono quelle le mie vere scalate. L’arrampicata è una paura che ha l’uomo e vuole imporsi, io aspetto il tramonto su una cima e se mi va dormo li, e la terra sembra una montagna che mi abbracci e sto li e ascolto: senti il picchio che lavora di notte, senti i guf, senti Dio perché devo tornare a casa se non ho nulla da fare, se ho un appuntamento con te, ma per vedere la partita no, sto li. Eh no, non rinunciano alla partita o alla Formula 1, eliminati. Con questi amici andrò a bere vino al bar e basta”. E trovi spesso Dio? “Si e se vi siete accorti lo abbiamo anche qua in questa chiacchierata, però…”. Quindi la montagna come godimento. Ma devi avere una ricchezza che stiamo perdendo tutti, che è la ricchezza del tempo. “E’ questo che dico ai giovani, investite in tempo libero, ma se tu il tuo tempo lo devi usare tutto per diventare qualcuno… se alla fne hai un pasto al giorno e tempo libero, l’umanità starebbe meglio. Prima non era così, quando scalavo all’inizio contava il riconoscimento degli altri. Io sono stato una carogna, ho umiliato un alpinista, sono passato dove lui non è riuscito a passare, però devo dire che ho rischiato la pelle, perché se volavo ero steso, però questa non è una scusante, è un’ulteriore imbecillità, perché perdevo tutte quelle piccole cose… meglio essere qua con voi a bere un litro di vino”. Però essere cosi staccati dalle cose è veramente un gran dono. “Non è semplice, un mio amico plurimiliardario, potrei farvi il nome, mah, anzi posso anche farvelo, Zanussi, lo portavo ad arrampicare, gratis chiaramente, su una via in Civetta la via Tissi. Questo qui aveva dei cani, quelli che tirano le slitte, gli aski, aveva una cucciolata a Cortina e, dopo una vita di arrampicate, (mia fglia Melissa aveva otto o nove anni, adesso ne ha 21) gli ho detto me ne daresti uno per mia figlia (Melissa aveva otto o nove anni, adesso ne ha 21)? 800 mila lire, mi fa, io non li avevo se no per mia figlia glieli avrei dati, adesso li avrei ma mia fglia non lo vuole più il cane, abbiamo quel trovatello lì, ma ti cadono le palle sai, e non l’ha fatto per cattiveria, è che lui è cosi geneticamente, cresciuto in famiglia dove non bisognava dare nulla, neanche l’aumento di 5 lire all’operaio, e questo qui è emblematico, che roba, no io non sarò mai un artista, non vorrei fare nomi ma artisti famosi che si fanno pagare 3 o 4 mila euro un disegno, roba così, e io dovrei star qui con voi e dirvi, dammi 150 euro, mi taglio le mani piuttosto, prendetevi tutti i disegni che trovate lì, che io ne torno a fare altri perché a me servono a passare il tempo e a divertirmi, dopo dove vanno non mi interessa, anzi mi interessa che li abbiate voi in questo caso. E’ semplice vivere e invece c’è gente, è la cultura, la tradizione, la crescita… Diceva F. Monreal: la storia di Bordeaux è la storia del mio corpo e dell’anima, e qua siamo sempre cresciuti nella miseria, nel tener conto di non dare, io ho voluto rivoluzionare questa cosa cosi, perciò io lo faccio con il cuore di cominciare a rompere la tradizione, che a volte è negativa, quasi sempre”. Sei quasi sempre nella tua baita, in mezzo ai monti? “Ogni sera in baita, stufo delle persone. La gente arriva qua per farsi firmare un libro, e mica li puoi cacciare via, ma poi indagano, sono cattivi, cominciano a dirti, ma li hai fatti proprio tu i tuoi libri? No ho una vecchietta che mi fa i libri”. Molti mi chiedono come tu riesci a rimanere naturale dentro in questo mondo editoriale. “Perché scappo, mi sottraggo, io sono andato a Francoforte, perché ho due libri tradotti in tedesco, ed era giusto che andassi li con la Mondadori a presentare questa mia vita, questi libri, ma poi torno subito qui. Ho rinunciato a programmi tv, non mi interessa proprio, si viene qua e si chiacchiera, vedi questo qua è il mio comportamento, che a volte dico anche altre cose, magari mi sveglio con una giornata no e dico anche cose più cattive a volte, ma è cosi”. Bello anche quelli che dicevi alle montagne: si deve chiedere il permesso… “Non abbiamo vinto nulla, ci ha solo lasciato passare, perché era gentile ed è per quello che io odio il chiodo forato, perché tu distruggi, stupri, tu prendi una donna che non te la dà e la violenti, è la stessa tecnica, è solo che per la donna ti condannano ed è giustissimo, la montagna no, ti permettono di sforacchiare tutte le pareti, se la montagna in quel momento ti dice alt, torna giù, abbi l’umiltà. No devo forarla, allora tiriamola giù con la dinamite. E’ l’arroganza dell’uomo che vuole sempre vincere in tutto”. La montagna è una maestra di vita? “Si, l’umiltà, la serenità, la dolcezza, la montagna non tira scherzi, se ne sta li, sento della montagna assassina, siamo noi gli assassini di noi stessi, e basta, la montagna è dolce, il torrente, io l’ho detto in un libro, quando è morto uno ragazzo, uno scout, perché non ha capito la voce, quando piove otto giorni il torrente diventa tumultuoso, perché fa casino, perché ti dice attento perché sono pericoloso, sono incazzato, non attraversarmi, i ragazzi non leggono questa voce, il libro della natura. Se sotto la parete c’è un ghiaione immenso la montagna mi dice che è friabile e che quindi se vado su di là rischio di cadere, perché si stacca”. Per ascoltare le voci bisogna far silenzio e la montagna da questo punto di vista aiuta. “Ma la montagna e i boschi sono interiori”. Tempo fa hai detto che è 25 anni che sei sposato e sono 25 anni che non dormi con tua moglie. “Con la moglie si va a scopare, non a dormire, i camosci dormono soli. Io alle donne non ho mai fatto del male, ma neanche mi comandano, cioè il senso del basti tu, ti basti, non hai bisogno di una donna o delle cosce per dormire, ma hai bisogno dell’essenziale, come scolpire, devi tirar via, c’è poco da fare, insomma uno che dipende dall’amore vuol dire che è come l’alcolista che non beve più, è più schiavo di prima, l’alcolista che non può nemmeno condire l’insalata, che se gli arriva l’odore del vino ci ricade di nuovo, quello è più schiavo di prima, farebbe meglio a bere. E’ la dipendenza che io non sopporto, bisogna che l’uomo abbia coraggio, questa non è una cosa da supereroe, bisogna abbassarsi , questa è la tecnica di salvamento, non puoi vivere la tua vita dipendendo da qualcosa, se no sei finito, e allora la tecnica del vincitore è quella di perdere, quello che predico nelle scuole.

Alle sorgenti della coca

0

Alle sorgenti della Coca

Co l o m b i a , B o l i v i a , Perù. Pezzi di mondo diversi. Pezzi di mondo dove la cocaina dà e ha dato da mangiare a tutti e continua a darlo. Giorgio Fornoni è andato nei tre Stati, si è infilato in mezzo a guerriglieri, carceri, montagne e foreste a cercare l’origine della coca, ecco il reportage straordinario di quello che ha raccolto.

Bolivia: rapporto dal carcere

«Ero incinta di otto mesi, mancava molto poco alla nascita del mio bambino. Quando mi hanno chiuso dentro ero disperata. Non capivo cosa stava succedendo… Ero su una corriera… c’era una borsa… hanno creduto all’autista e agli altri, invece che a me. Prima mi hanno messo in una cella, nel posto di controllo di Mamuro, poi a Chimorè, nel carcere di Chimorè… Quando mi hanno chiuso dentro continuavo a ripetere “Perché proprio io? Non vedete in che stato sono? Non sono di queste parti, vengo da Montero, non ho famiglia, non ho una madre né tanto meno l’aiuto di un padre. Io voglio uscire di qui”. Mi hanno detto che ero venuta a comprare. “Come a comprare?”, ho risposto. “Non ho neanche i soldi per mangiare…”. E così, dopo due giorni, hanno rilasciato gli altri passeggeri della corriera e mi hanno tenuto dentro. Io non avevo nemmeno i soldi per un avvocato e così mi hanno portato qui. E quando è nato il mio bambino, dopo un mese che stavo a Chimorè, non avevo neanche un pannolino per fasciarlo… sono venuta qui il 28 di ottobre, dopo un mese dal parto. Stavo ancora molto male, non avevo soldi, non avevo di che procurarmi da mangiare… perché tutto qui funziona solo col denaro, nessuno mi aiutava. Non so come, ma è passato. Ora non so cosa succederà, se riuscirò mai a tornare libera. Ma io voglio uscire di qui, perché non ho avuto l’affetto di una madre né di un padre e dunque voglio essere madre e padre per il mio bambino. Non mi aiuta nemmeno il padre del mio bambino. Questa è la mia storia, tutto quanto posso dire. Perché qui c’è soprattutto gente di campagna, madri che hanno 5, 6 figli, ci sono tanti bambini. E’ gente che non sa difendersi, sono ignoranti, molti non sanno leggere né scrivere e così non possono nemmeno difendersi. Gente di campagna, quando i veri trafficanti di droga, i veri colpevoli restano liberi. Quelli che ci ingannano e guadagnano sulla nostra pelle e se ne restano fuori. Qui c’è gente condannata per poche decine di dollari. Quelli che hanno i soldi vivono tranquilli, se sono presi escono dal carcere il giorno dopo. Con 1000 dollari escono quando vogliono e qui restano quelli in attesa di sentenza come me. Sono in carcere da più di otto mesi, nove dal 6 di agosto…» Questa è la tragica testimonianza di una giovane donna, Gabriela, rinchiusa nel carcere di San Sebastiàn di Cochabamba, una città delle Ande boliviane, in nome della legge 1008. La legge 1008 Distesa in una conca tra l’altopiano andino e la selva, Cochabamba è la città più moderna della Bolivia. Negli ultimi anni ha avuto uno sviluppo travolgente rispetto agli standard del paese e il fatto che sia il terminale naturale della produzio ne di coca non vi è certamente estraneo. I suoi 400 mila abitanti sono orgogliosi del grande Cristo della Concordia, che benedice dall’alto la città e le sue tante contraddizioni. Divisa tra voglia di sviluppo e stridenti contrasti sociali, la Bolivia vive in fondo il dramma di tutto il sud del mondo. Che deve fare i conti ormai non solo con i tanti problemi interni ma anche con le imposizioni del mercato globale. La legge 1008 anti-coca è stata approvata su diretta pressione degli Stati Uniti per ottenere l’ambita “certifcazione” annuale che apre i prestiti internazionali alla Bolivia. Ho seguito uno dei raid quotidiani che i “leopardos” dell’Umopar, le squadre speciali addestrate dall’ente antidroga americano, compiono nelle foreste dell’immenso Oriente boliviano, per colpire alla fonte la produzione di coca e cocaina. E che hanno portato nella regione del Chapare, al confine con l’Amazzonia, un clima da guerra civile. I “pisacoca”, i pestatori di coca, sono campesinos o ex minatori che guadagnano poche migliaia di lire a notte, lavorando una foglia di quella magica pianta che dona 4 raccolti l’anno, cancella da secoli la fame, il freddo, la fatica degli indios, rappresenta la nuova ricchezza e la maledizione di tutti i paesi andini. Poche ore di marcia e i “leopardos” scovano la loro preda. I cocaleros sono già fuggiti, ma hanno abbandonato il campo solo da pochi minuti. I soldati bruciano tutto. Pozze di macerazione come quelle incontrate nascono e muoiono ogni notte, a decine, in tutto l’immenso Eldorado verde della selva andina. Vi si ricava poco più di un chilo di “pasta basica” che verrà poi raffinato altrove. Valore locale: circa 300 euro, destinato poi a crescere di 200 volte sul mercato internazionale della cocaina. Si calcola che le piantagioni della Bolivia forniscano annualmente 150 mila tonnellate di foglie di coca, una buona fetta dell’intera produzione andina. Il settore dà lavoro più o meno diretto a non meno di 50 mila campesinos. Il grande imbroglio della legge 1008 nasce anche dalla obiettiva difficoltà a distinguere tra la coca prodotta per l’uso tradizionale, permessa entro certi limiti, e quella destinata alla produzione di droga per l’estero. Nonostante la guerra dichiarata ai cocaleros, le coltivazioni sono cresciute negli ultimi anni da 10 mila a 50 mila ettari. E nonostante le grandi quantità sequestrate, escono dal paese dalle 4 alle 600 tonnellate di cocaina l’anno. Con un giro di affari, per l’economia sommersa boliviana, stimato nell’ordine dei 2 miliardi di dollari. E’ da posti di controllo come la “Trinca” che nascono gran parte delle storie e dei drammi personali che si possono ascoltare nel carcere di San Sebastiàn. Un carcere modello? Sono entrato in questo carcere, che è suddiviso in due sezioni, maschile e femminile, accompagnato dai rispettivi cappellani. Don Giuseppe Ferrari, prete della diocesi di Bergamo; era rettore del seminario, però trovava il tempo anche per fare da cappellano nel carcere femminile. Questo è uno strano carcere senza sbarre, dove 400 donne e bambini vivono in un’atmosfera da mercato paesano. La legge boliviana prevede infatti che i detenuti già condannati possano ospitare dentro il carcere i propri familiari. Ma l’80% delle detenute è in attesa di giudizio, alcune da oltre un anno. Il sovraffollamento, la fatiscenza delle strutture, le condizioni di vita nel carcere femminile di San Sebastiàn hanno provocato proteste, scioperi della fame, donne incatenate alle inferriate. Alcune detenute sono arrivate addirittura a cucirsi le labbra. Chiedevano la celebrazione più rapida dei processi e la possibilità, pur prevista dalla legge ma raramente applicata, dell’extra-muro, il lavoro fuori dal carcere durante il giorno. «Dicono che questo è un carcere modello – dice Eleonora Cardoso – E’ una menzogna: questo è un deposito di persone. Ma dov’è la giustizia qui in Bolivia? Ogni giorno vediamo entrare e uscire i veri trafficanti. Arrivano con grosse macchine, concordano il minimo della pena prevista». «Qui ci trattano male – fa eco Rosana Claro – non abbiamo nemmeno dove riposare. La giustizia non va avanti, si dimenticano di noi. Le nostre carte sono sempre in ritardo, i processi sono fermi. Sono in carcere da due anni e mezzo, con una condanna di cinque anni e quattro mesi e nessuna possibilità di poter uscire a lavorare. Non c’è nessuno che mi aiuti e invece io devo guadagnarmi la vita per sostentare me stessa e i miei figli. Loro sono fuori di qui, abbandonati a se stessi, non posso tenerli con me per via del sovraffollamento del carcere. Siamo in tante e dobbiamo dividerci le già poche possibilità di lavoro che esistono… I veri colpevoli non sono qui, sono fuori, liberi di continuare ad arricchirsi e sfruttare la povera gente». Con la famiglia La sezione maschile di San Sebastiàn è dall’altra parte della piazza. Entro accompagnato dal cappellano, un missionario svizzero. A prima vista non si capisce chi siano i detenuti e chi gli ospiti. Poco più di 2000 metri quadrati per oltre 1000 persone. I detenuti ricevono un contributo statale di 15 centesimi di euro al giorno per la sussistenza e dunque devono arrangiarsi da soli. Negli ultimi anni, l’applicazione della legge 1008 ha fatto raddoppiare la popolazione carceraria boliviana. Quattro detenuti su 5 sono in attesa di giudizio. Anche qui, donne e bambini condividono con i reclusi le restrizioni di un carcere, e questa atmosfera surreale tempera in parte la severità della legge. Nel labirinto delle loro celle, a sorpresa, trovo anche un europeo, un ragazzo norvegese. «Sono qui da due anni – mi dice – condannato a 6 anni e 8 mesi. Senza droga, senza prove, solo per i miei precedenti. Tutto per via della legge 1008. Viviamo chiusi in uno spazio ristretto, letteralmente uno sopra l’altro, e così dobbiamo imparare a convivere, come in una grande famiglia. Quando si vive in una casa di 1700 metri quadri, 400 detenuti, 150 donne, 150 bambini, più la gente in visita, ci si possono fare anche dei nemici. E questi siamo costretti a incontrarli anche 10, 20 volte al giorno, per via dello spazio a disposizione. Io credo che sia un bene non dividere le famiglie, permettere che restino unite. C’è almeno questo vantaggio qui, che l’uomo soffre meno, ci si fa coraggio a vicenda, la famiglia resta unita”. C’è anche il detenuto ricco, Alberto Harteaga: «Ecco qua, sono stato condannato a 13 anni senza che mi abbiano trovato addosso un grammo di droga o di sostanza controllata. Per una delazione mi han chiuso qui, ci sono da 3 anni e me ne hanno dato 13, senza aver trovato un milligrammo di droga. Quella cella l’ho comprata con 3500 dollari, per avere almeno qualche comodità». Da chi si comprano le celle? «Si comprano da chi era qui prima di noi, passano da una mano all’altra quando uno se ne va. Anch’io la passerò a qualcun altro quando uscirò di qui, e così via». Un porto di mare Un grande condominio sovraffollato. Con i suoi drammi, le sue storie, il carcere di Cochabamba ha una capacità di resistere, organizzarsi e sperare che rappresenta la sua grande lezione. Anche alla “nostra” società, quella che comincia al di là delle sbarre alle fnestre, dove il cappellano svizzero ha costituito una struttura per accogliere i bimbi più piccoli dei carcerati e i preti bergamaschi hanno creato la “Ciudad del Nino”: oasi di speranza.

 

Colombia: droga e guerriglia

Con un territorio vasto quasi 4 volte l’Italia su cui abitano neanche 20 milioni di persone, la Colombia porta il nome del grande navigatore Cristoforo Colombo. Fin dall’inizio, qui come altrove, si trattò di conquista e conseguente sfruttamento dei nativi sia nelle encomiendas, enormi piantagioni in cui si privilegiava la coltivazione del caffé, sia nelle miniere, famose quelle dell’oro e degli smeraldi (questi ultimi insieme alla coca sono al primo posto nelle esportazioni). Genocidio di popoli e scomparsa di civiltà antiche e raffnate i cui reperti si possono ammirare al Museo de Oro di Bogotà. Mentre il miscuglio di popoli formatosi nella zona, compresi gli schiavi africani, ha creato un crogiuolo di razze e di culture che non ha eguali nel resto dell’America Latina. Ora il 57% della popolazione è meticcia (incrocio spagnolo-indio), 20% bianca, 14% mulatta (incrocio spagnolo-africano), 5% nera, 2% zambos e solo 2% nativa. Colombiano è anche Gabriel Garcia Marquez che ha messo su carta le emozioni e la poesia di un popolo. Terrore tra la gente La Colombia è una repubblica presidenziale democratica. Quando nel 1990 è stato eletto presidente Cesar Gaviria, esponente del Partito liberal, ha cercato di fermare l’ondata di terrorismo scatenata dai narcotraffcanti di Medellin. Questi infatti durante la presidenza del suo predecessore Virgilio Barco – che seguiva in pieno la politica antinarcos voluta dalla Dea (corpo speciale americano antidroga) che esigeva l’estradizione di chi risultava colpevole di aver esportato cocaina negli Stati Uniti – avevano seminato il terrore nel paese uccidendo militari, giudici, politici, giornalisti, semplici cittadini con auto-bombe che scoppiavano tra la folla, e persino Carlos Gavan, il superiore di Gaviria, durante la campagna presidenziale. Dopo questa uccisione, Gaviria non aveva potuto far altro che candidarsi lui stesso. Appena eletto, con una legge, cancellò l’estradizione e offrì grossi sconti di pena a chi si costituiva, sia che operasse tra i narcos che tra la guerriglia. Pablo Escobar, il re dei narcos, fu il primo a costituirsi (era ricercato da 5 anni) seguito da tanti altri. Ma non è cessata la coltivazione e la lavorazione della coca. Anzi: al posto dei capi fniti in prigione altri si stanno facendo avanti, al “cartello” di Medellin se n’è aggiunto un altro, quello di Cali; si moltiplicano, nelle vallate impervie dove le milizie governative non mettono piede, nuove coltivazione di coca sotto l’alta vigilanza della guerriglia. Padre Luigi Pedretti, monfortano, opera a Principe, un centro di coltivazione e di commercio del Vichada, in cui guerriglia e narcos la fanno da padroni. E “Principe”… era il suo nome Sette giorni da Bogotà per arrivare nel Vichada orientale, confine tra Colombia e Venezuela, foresta tropicale, habitat per la guerriglia e luogo ideale per la produzione e raffinazione della coca; sette giorni ed altrettanti notti a bordo di camion, di fuoristrada, di zatteroni e canoe… e km. e km. percorsi a piedi, attraversando città, savane, fumi e foreste – quanta acqua – è il periodo delle piogge. Arrivo a “Principe”‚ è domenica. La musica… i soldati guerriglieri, le prostitute, la coca, la pesatura della coca in ogni angolo, gli ubriachi, le “cerveza”… il sole, la pioggia, il rumore, gli odori… è una cosa impressionante. Mi ritrovo in un attimo sommerso da tutto questo. Come al tempo dei cercatori d’oro, “arrivano” da ogni dove; sono: ladri, delinquenti, ricercati, disertori, prostitute, disoccupati e… illusi, accecati dal miraggio di un facile ed immediato guadagno; questo è… Principe; questo è un centro, punto di incontro del gioco, della prostituzione, della guerriglia e della… coca. Ti fanno entrare in una sala da gioco se dai un sacchetto di coca… ti fanno entrare in una “encomienda” se tu paghi con la coca… ti fanno bere “cerveza e aguardente” se tu paghi in coca… tutto ruota attorno alla coca. Siamo vicini ai campi di coltivazione dove i coqueros raccolgono, raffnano e ottengono la polvere di coca. L’odore dell’ammoniaca ti entra nella testa e ti penetra nelle ossa. Una ragazza coltivatrice dice che tre tipi sono importanti: la Amara, la Dolce e la Peruana. La coca fa tutto e pensa cosa costa: 250 pesos un grammo, sarebbero 27-28 centesimi di euro… Cosa costerà nel nostro mondo di consumatori? Le bottiglie di “aguardente e cerveza”, si vuotano a fumi e si ammassano sui tavoli, le ragazze abbracciano smorfosamente questi lavoratori di coca: per una notte spesa con loro lasciano un bel sacchetto di coca, non ne conosco il peso ma il sacchetto è piuttosto grande, quanta fatica e quanta illusione. Un momento dopo vado a parlare con il capo dei guerriglieri del Vichada, non tanto grande ma bell’uomo nell’aspetto. Lo trovo anche molto intelligente. Jon Luis è il suo nome – gli chiedo il permesso di fotografare; lo ottengo fatta eccezione per i guerriglieri. Guerriglia e coca La guerriglia è in tutto lo Stato Colombiano, non solo qui nella zona amazzonica. L’unica opportunità per prendere il potere è quella di raccogliere intellettuali poiché‚ manca di guide culturali… e poi la guerriglia non è unica, sono tante branchie, almeno una ventina una delle quali è FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), un’altra è ELN (Esercito Liberazione Nazionale); c’è una coordinazione guerrigliera che cerca di riunire tutti i movimenti di guerriglia ma trova difficoltà. Il leader delle guerriglie Colombiane è Navarro Wolf. Era presidente della M19, è riuscito a lasciare le armi e a riscattarsi nella vita civile diventando presidente della riforma costituente – ora è Movimento Democratico 19 de April (MD 19 de April). Qui nel Vichada, la guerriglia tiene a bada i coqueros e la vita pubblica, in cambio riceve danaro riciclato dal commercio della coca, il narcotraffico è dilagante. Piccoli aerei (avionetas) partono e arrivano in incognito anche qui a Principe. Andiamo a mangiare e bere insieme e di tanto in tanto fotografo la pesatura della coca, sono finito in mezzo alla guerriglia. La musica continua, è buio… i giovani, le ragazze, la “cerveza”… continuano a ballare… a lasciarsi andare… e cessando di piovere… la nebbia sale. Questi ragazzi e ragazze, il mattino dopo, alle 5, si svegliano dal loro sogno, lasciano il paese dell’illusione e ripartono su un barcone, accompagnati dal loro Coquero (Duegno) e per più di un mese lavoreranno nelle nascoste piantagioni e come paga prenderanno più coca che “plata”. La coca la scambieranno al prossimo rientro a Principe, dove scaricheranno… i sogni e i guadagni… e la vita continua… e la musica continua. I guerriglieri mi autorizzano ad entrare nei campi di coltivazione ad assistere alla lavorazione della coca; i coqueros e i raspadores raccolgono la foglia di coca dalle pianticelle (Raspada), per poi tritarle e porle in salatura con cemento e acido solforico; il tutto viene messo in benzina o gasolina per la fermentazione, ottenendo il siero, con pergamonato e ammoniaca si ottiene il Basuco che essicato dà la coca. I vari gradi di cristallizzazione, si ottengono con l’etere e l’acetone. L’uggioso agosto avvolge la Colombia in un manto di pioggia continua, il che rende ancora più triste l’atmosfera di questo paese ormai ostaggio dei narcotrafficanti. Appena fuori la mia stanzetta, una madre depone un bimbo, dentro ad un’amaca appesa, lo dondola, lo carezza… lo fa addormentare e lo sa… amare25

Mons. Beschi: “Sto ascoltando, per capire” Il Vescovo in visita pastorale… ricognitiva

0

“Parliamo alla pancia della gente ma senza dimenticare il cuore”

Arriva in un paese, in una parrocchia, in un santuario, scende dall’auto con il sorriso di chi si vede e rivede volentieri, stringe mani, accarezza, ascolta. “Sì, in questo periodo credo sia importante ascoltare. Tutti”. Mons. Francesco Beschi è arrivato da pochi mesi in Diocesi di Bergamo dalla vicina Diocesi di Brescia. Il suo proposito è di non essere invadente. Ascolta. Ma per ascoltare deve uscire dal “palazzo” della Curia, in città alta, vuol farsi un’idea sua, senza preconcetti, non si può accontentare di quello che gli riferiscono. Quindi si è messo a girare come una trottola per la Diocesi, con la “scusa” che deve presenziare alle feste patronali, alle cerimonie, commemorazioni, anniversari, va bene tutto, purché la gente possa parlargli. Mai visto un Vescovo che, al termine di un pranzo comunitario, passa a salutare centinaia di commensali uno per uno, scende nelle cucine e stringe le mani di cuochi e cuoche, si ferma al bar a bere un caffè con gli avventori del giorno, ascolta quello che gli sussurra una donna anziana, un signore con il volto segnato da qualche dolore non rimarginato… E poi i suoi preti, certo. Ma anche quelli che stanno in piccole parrocchie, lontane come la stella più lontana dalla madre terra, che magari si sentono dimenticati se non proprio abbandonati. E ha un fiuto mediatico paragonabile, a quel che ricordo, solo a quello di Mons. Clemente Gaddi, ma adesso i mezzi di comunicazione si sono moltiplicati e ognuno di loro però raggiunge fedeli che non sentono la voce del loro Vescovo da tempo e la possono magari sentire solo lì, in quella piccola televisione. Nemmeno un gesto di impazienza per le stesse, scontate domande, fa niente, il Vescovo è qui. Mons. Beschi, nel suo ascolto, ha già percorso in lungo e in largo la Diocesi, senza annunci eclatanti. Si ha l’impressione che registri tutto quello che sente, che vede. “Dovrà pur fermarsi, prima o dopo”, mi ha detto un parroco, sorpreso da questo attivismo pastorale. I suoi preti in effetti stanno aspettando, alcuni il botto, altri anche un piccolo segno che risvegli una Diocesi ripiegata su se stessa, che non ci ha capito molto in quello che le è successo attorno in questi ultimi due decenni, abituata da sempre a un signorile ma ferreo controllo anche sociale e politico, si ritrova in molti paesi a essere quasi marginale, a marciare fuori passo o addirittura a segnarlo, il passo, con da una parte E in mezzo a questo cambiamento qual è allora la missione della Chiesa? “E’ una domanda importante, tante volte dobbiamo denunciare quello che succede, perché semplicemente è un male, perché questo considerare solo noi stessi ci porta a rovinarci con le nostre mani. Tutto questo ha investito anche la Chiesa e a mio giudizio nelle nostre terre, nelle nostre zone, abbiamo dato per scontato la fede, una grande fede di tradizione, ma dobbiamo custodire la tradizione, la fede si alimenta con il confronto costante, con le istanze di un mondo che cambia”. Anche nel linguaggio, con le sue forme ripetitive, che sono rimaste le stesse degli anni ’50, ’60, quel camminiamo insieme sempre con le stesse parole, non ha più presa, la gente cerca un linguaggio innovativo, lei trova pronti i preti a un cambiamento? Il vescovo sospira e sorride “Vediamo. Desidero ascoltarli tutti, ma voglio e sto già dicendo loro di dire qualcosa che non sia ripetitivo, ma prima devo ascoltarli e proprio dall’ascolto nasce tutto, si capisce cosa c’è che va o non va, manca l’ascolto, dappertutto manca l’ascolto, di questo abbiamo bisogno , nelle famiglie e nelle comunità non ci ascoltiamo a sufficienza, sembra quasi una gentile concessione”. Intanto proprio l’ascolto o perlomeno il tempo di ascolto ha fatto la differenza. Qualcuno ha parlato alla pancia della gente, la Chiesa al cuore o forse ha mirato alla testa, qualcuno invece si è infilato nella pancia e poi penso al secondo comandamento, quello dell’amare il tuo prossimo come te stesso, parlando alla pancia questo comandamento ha perso valore, è sparito, è mancata la fiducia ma questo era la vera rivoluzione del cristianesimo o no? “Questo discorso del parlare alla pancia è molto serio, la pancia comunque fa parte della un senso di impotenza di fronte ai cambiamenti e la tentazione catacombale di chiudersi con un piccolo gruppo di “resistenti”. E gli stessi potenti mezzi di comunicazione che la Diocesi ha avuto, oggi faticano a fotografare e interpretare. Mons. Beschi ascolta. Poi arriveranno le grandi scelte, le grandi decisioni. * * * Eccellenza, Lei sta girando fin dalla sua nomina in tutte le parrocchie, non è che sta facendo una sorta di visita pastorale ricognitiva? “Quello che lei sta dicendo è vero, non ho la pretesa di farla con tutti i crismi delle visite pastorali ma il desiderio di poter conoscere la realtà delle singole parrocchie, anche se comprendo che è una maniera approssimativa, della realtà bergamasca, ma è uno degli intenti. Oltre questo sta nel mio animo quello di cercare di avvicinare le persone, perché perlomeno sentano anche solo l’attimo di un saluto, noi siamo i pastori nostra umanità, ma anche noi comunità dobbiamo arrivare alla pancia senza dimenticare che il centro però è il cuore, la testa va riportata al cuore che è l’io profondo elaboratore della nostra vita. Non bisogna parlare alla pancia sollecitando forme istintive della paura, quelle delle prese di distanza, del sospetto, pur avvertendo alcuni bisogni fondamentali delle persone. La forza delle nostre Chiese, non solo di quelle dislocate in tutto il mondo è sempre stata quella che il prete e la comunità sono sempre stati vicini ai vissuti della gente. Dobbiamo tornare a persee dobbiamo entrare nelle comunità”. Il suo è un cambiamento innovativo notevole, tenendo conto della centralità della curia bergamasca, erano i preti a essere convocati in curia, lei invece va a vederli sul campo: “Anch’io li convoco, in questi mesi ne ho incontrati tantissimi a livello personale, fra poco poi ci sarà la consueta assemblea del clero e quella diocesana, ma certamente incontrarli sul campo è un’altra cosa, ci tengo a fare visite vicariali lì nell’ambiente in cui lavorano, mi sembra importante, in questo modo mi sto rendendo conto della varietà della diocesi di Bergamo”. Anche Brescia però dove lei operava prima è molto varia: “Sì, con tutto il rispetto fra le due realtà c’è una grandissima affinità, cambiano molto a seconda che ci si trovi nella Bassa, nelle Valli o in città, per questo è importante entrare nelle varie realtà e trovare dal punto di vista pastorale risposte diversificate”. La Chiesa ha sempre trasmesso fede e fiducia. Fiducia laica e fede cristiana, tutte e due strettamente connesse, come ha detto lei poco fa nell’omelia. E’ venuta a mancare la fiducia, l’egoismo è dilagato e di conseguenza si è sfilacciata anche la fede. Cosa è successo in questi ultimi 20 anni? La nostra gente prima era fiduciosa e piena di fede e adesso? “Il Vangelo esplicitamente denuncia il cammino di un progresso di cui, se da un lato non possiamo che compiacerci, dall’altro purtroppo ha fatto coltivare e crescere un’illusione che ognuno possa bastare a se stesso. Ognuno ha fatto di sé il centro, e lo si capisce dalla disgregazione delle famiglie, dallo sfaldamento delle comunità. La relazione con l’altro avviene con il costante sospetto che l’altro possa rovinare o rubare la nostra vita. Questo è l’altro aspetto del progresso”. seguire quella vicinanza”. Intanto da mesi cominciano a circolare nomi su chi sarà il vicario generale, ha già un’idea? “Il Vicario Generale è ancora in incubazione”. Ma è in pectore? “No, non ancora, diciamo che sta proprio incubando la sua uscita. Intanto però devo davvero rendere omaggio a quanto sta facendo Mons. Lino Belotti che mi sta aiutando tantissimo”. Con la sua scelta del vicario poi si capiranno tante cose. Mons. Beschi ride: “Sì, si capiranno tante cose”. Come mai alcuni parroci sembrano inamovibili e sono nello stesso posto anche da 14 anni mentre, anche con le ultime sostituzioni, quelle di questi giorni, sono stati mantenuti i dettami del sinodo di spostarli dopo 9 anni? “Il capitolo delle destinazioni l’ho dovuto affrontare anche a Brescia, ci sono dei criteri generali impositivi che col tempo cambiano. E’ necessaria maggiore mobilità rispetto al passato ma passare dalla teoria alla pratica lo confesso, non è semplice”. La Diocesi di Bergamo sul fronte media è sempre stata fortissima, adesso c’è un po’ di crisi, soprattutto a L’Eco di Bergamo. C’è poi stata la crisi di Radio Emmanuel che è stata chiusa, ma poi c’è la tv più grande come Bergamo Tv e radio Alta. Ci si devono aspettare dei cambiamenti? “Su Radio Emmanuel sto facendo una seria riflessione. Sto riflettendo su questa esperienza, voglio provare a farla diventare una comunicazione ‘bassa’, nel senso una radio ecclesiale, desidererei collocarla lì ma sto cercando di capire come. Per quanto riguarda L’Eco è innegabile la grandezza dell’opera che si rifà alla sua storia ma ci sarà bisogno di un’ulteriore riflessione anche critica ma in questo momento c’è l’apprezzamento di una grande storia che in questo momento mi conforta. Poi è necessaria per me una conoscenza soprattutto della realtà bergamasca per capire come viene riportata sui media, devo capire se quello che traspare è la nostra provincia e per farlo ci vuole tempo”. Allora ci risentiamo fra sei mesi? “Volentieri”. Volentieri.

Uomini senza frontiere

0

GIORGIO CONTESSI

“…noi volontari siamo osservatori privilegiati che possono vedere l’orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante misero fardello. E poi raccontare, urlare, le privazioni dei diseredati, la lontananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri terremoti, contro cui è davvero difficile, se non impossibile costruire argini o rifugi…”. Carlo Urbani, medico, ex-presidente di Medici Senza Frontiere Italia Viviamo in una società dell’informazione “ad alta velocità”. Ma tutto il mondo ci entra davvero in casa? L’informazione va al risparmio, almeno per un’ampia fetta di mondo. Di alcune aree di crisi del pianeta si parla poco e ad intermittenza e questo non aiuta a comprendere ciò che ci circonda e a dare le risposte adeguate. Medici Senza Frontiere (MSF) è nata con due obiettivi: portare soccorso alle popolazioni in pericolo, ma anche fare testimonianza. Raccontare la vita e le sofferenze delle popolazioni vittime della guerra, delle malattie e delle catastrofi naturali, è per noi essenziale. E’ affermare che milioni di profughi, donne vittime di violenza, feriti di ogni genere, esistono. Raccontare significa anche sollevare un problema che altrimenti rischia di rimanere sconosciuto e richiamare alle proprie responsabilità, nei confronti delle popolazioni in pericolo, i governi e le istituzioni, significa lanciare un grido d’allarme quando persino la nostra azione, l’azione umanitaria indipendente, viene ostacolata. Molte delle crisi umanitarie che attraversano imenticate, perché i media se ne occupano troppo poco o affatto. Per questo MSF da alcuni anni pubblica il rapporto “Crisi dimenticate” (www.crisidimenticate. it). Il quinto rapporto riguarda il 2008 e presenta una triste “top ten”, quella delle dieci crisi umanitarie più gravi e ignorate nel corso del 2008 a livello internazionale, accompagnata da un’analisi italiana realizzata dall’Osservatorio di Pavia sullo spazio dedicato alle crisi umanitarie dalle principali edizioni dei telegiornali Rai e Mediaset. Le dieci crisi umanitarie identificate da MSF come le più gravi e ignorate nel 2008 sono: la crisi sanitaria nello Zimbabwe; la catastrofe umanitaria in Somalia; la situazione sanitaria in Myanmar; i civili nella morsa della guerra nel Congo Orientale (RDC); la malnutrizione infantile; la situazione critica nella regione somala dell’Etiopia; i civili uccisi o in fuga nel Pakistan nord-occidentale; la violenza e la sofferenza in Sudan; i civili iracheni bisognosi di assistenza; la confezione HIV-Tubercolosi. Nel 2008 ad un paese come l’Etiopia – gigante del Corno d’Africa e non minuscolo staterello – i telegiornali italiani hanno dedicato 6 servizi durante tutto l’anno. Eppure nella regione somala dell’Etiopia la popolazione è esclusa dai servizi essenziali e dagli aiuti umanitari, la situazione è drammatica a causa degli scontri fra ribelli e forze governative e della siccità, aumentano le malattie e diminuisce la quantità di cibo disponibile. Il caso etiope non è l’unico, ma ben rappresenta l’ottica di risparmio che l’informazione, soprattutto quella televisiva, presta alle zone di crisi del mondo e che viene evidenziato dal rapporto 2008 “Crisi dimenticate”. L’attenzione alle aree di crisi del pianeta, peggiora di anno in anno. L’analisi delle principali edizioni (diurna e serale) dei telegiornali RAI e Mediaset nel 2008 conferma la tendenza riscontrata negli ultimi anni di un calo costante delle notizie sulle crisi umanitarie, che sono passate dal 10% del totale delle notizie nel 2006, all’8% nel 2007 fino al 6% (4.901 notizie su un totale di 81.360) nel 2008. Per alcuni dei contesti della “top ten”, l’attenzione dei media si concentra esclusivamente su un breve lasso temporale in coincidenza con quello che viene identificato come l’apice della crisi. È il caso del Myanmar, di cui i nostri TG si occupano solamente in occasione del ciclone Nargis, che rappresenta solamente l’ennesimo colpo inferto a una popolazione quasi dimenticata dal resto del mondo, dove l’HIV/AIDS continua a uccidere decine di migliaia di persone ogni anno, così come malaria e tubercolosi. E in Africa? E’ il caso del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), dove anche nel 2008 sono proseguiti i combattimenti tra l’esercito governativo e diversi gruppi armati, degenerati in una vera e propria guerra a partire da agosto, che ha provocato la fuga di centinaia di migliaia di persone. I TG hanno parlato della crisi solo in occasione dell’assedio di Goma a ottobre e novembre, e già a dicembre la situazione era tornata a essere una crisi dimenticata. Nel caso di crisi umanitarie cui i TG hanno dedicato uno spazio notevole, come l’Iraq o il Pakistan, va notato come le notizie relative alla drammatica situazione umanitaria della popolazione civile irachena o di quella del Pakistan nord-occidentale, rappresentano una netta minoranza. Vengono invece privilegiate, nel caso dell’Iraq, oltre alla cronaca degli attentati, notizie incentrate sul coinvolgimento italiano o statunitense nelle vicende irachene; nel caso del Pakistan, le elezioni e gli attentati. Infine, anche per il 2008 viene confermata la tendenza, da parte dei nostri media, di parlare di contesti di crisi soprattutto quando sono riconducibili a eventi o a personaggi italiani o occidentali. Emblematiche sono la crisi in Somalia, a cui i TG hanno dedicato 93 notizie (su 178 totali) che coinvolgevano uno o più nostri connazionali; la malnutrizione infantile, di cui si parla soprattutto in occasione di vertici della FAO o del G8; il Sudan, cui si fa riferimento per iniziative di sensibilizzazione che vedono coinvolti testimonial famosi e per notizie circa l’inchiesta da parte della Corte Penale Internazionale per il presidente del Sudan. Fra le dieci crisi umanitarie la più dimenticata è una questione medica: la co-infezione HIV-Tubercolosi. La Tubercolosi (TBC) è una delle principali cause di morte per i malati di Aids, tuttavia, sono state appena cinque le notizie dedicate dai principali TG italiani alla tubercolosi in tutto il 2008. E la confezione HIV-TBC non ha avuto alcuna copertura nei TG durante il 2008, anche se negli ultimi 15 anni si sono triplicati i nuovi casi di TBC nei paesi ad alta incidenza di HIV-Aids, con forte aumento in particolare nell’Africa meridionale. A fronte di tale quadro, MSF ha lanciato nei mesi scorsi anche la campagna “Adotta una crisi dimenticata” (con il patrocinio della Federazione Nazionale della Stampa Italiana – FNSI), per chiedere a quotidiani e periodici, trasmissioni radiofoniche e televisive e testate on-line di tutta Italia di impegnarsi a parlare nel corso del 2009 di una o più crisi dimenticate. L’azione di stimolo costante nei confronti dei mass media è essenziale, affinché non tralascino di informare sulle realtà dei numerosi contesti, nell’erronea convinzione che questi non interessino. Per raccontare la vita quotidiana di un pezzo di mondo che sta nell’ombra. E’ una sfida non solo informativa, ma anche etica. *Giorgio Contessi, giornalista, 33 anni, è originario di Lovere e lavora dal 2008 all’ufficio stampa di MSF a Roma.

“Noi siamo figli delle stelle e le stelle le ha accee Dio”

0

Lei è Gesuita, lo studio dell’astronomia ha contribuito ad avvicinarla alla fede? Direi di sì ma è un cammino assai tortuoso diciamo, cioè io l’astronomia l’ho studiata solo dopo essere entrato in seminario. Ho fatto i primi studi in noviziato, i primi studi classici, ho studiato la matematica e dopo di che i Superiori mi hanno mandato a fare un dottorato di astronomia e da quel momento ho studiato teologia, sono stato ordinato sacerdote e dico questa breve biografa per spiegare che sono andato avanti con le scienze, con gli studi filosofici e teologici e finalmente alla fine mi sono dedicato, tramite i superiori, a una vita da scienziato cioè a proseguire con la ricerca astronomica, l’insegnamento di astronomia nell’università, ho dedicato tutta la mia vita a quello. Perché un Gesuita, un uomo della Chiesa cerca o ricerca

Dio attraverso l’universo? Direi che devo distinguere un po’. Prima di tutto non è che ho cercato Dio attraverso l’universo, senza dubbio dopo aver studiato l’universo, essendo un uomo di fede, mi chiedo sempre se l’universo che conosco io come scienziato è un mio credo che Dio ha creato questo universo, io sono portato a mettere insieme queste cose. Allora mi chiedo: il Dio creatore… che tipo di Dio è quel creatore, che ha creato un mondo tale come lo conosco io da scienziato e quel mondo, non solo ha 14 miliardi di anni, ma comprende 10 mila miliardi di miliardi di stelle: non è solo quello che mi sbalordisce un po’, ma il fatto che questo mondo è fertile, è in espansione, si sta evolvendo, ha in sé un dinamismo, una creatività. Allora mi chiedo: questo mondo che conosco da scienziato che tipo di Dio lo ha creato? E’ un Dio meraviglioso cioè è un Dio che non ha voluto creare una lavatrice, una macchina da scrivere, un computer, un’automobile, ha creato un universo che contiene in sé un certo indeterminismo, un certo dinamismo, se vogliamo una certa creatività tramite l’evoluzione cosmologica, fisica, chimica e finalmente biologica, è un Dio che ha lasciato andare anziché predeterminare tutto l’universo, è un Dio grande. Questo crea ovviamente altre domande.

Dio è onnipotente? Dio è onnisciente? Si, ci credo, ma il significato di onnipotente, di onnisciente non è quello di una volta, cioè della filosofia classica diciamo, bisogna ripensare ai concetti teologici di fronte alle scienze moderne. Il Signore ha detto nel vangelo “Beato chi crede senza vedere”. Lei cosa risponde a questa domanda? E’ la più bella beatitudine questa, per me, cioè beati coloro che credono senza aver visto, perché per me è un concetto personale, per me la fede è un dono di Dio, io sto molto dalla parte di Sant’Agostino quando nelle Confessioni ha detto una cosa simile “Dio ti ho cercato per tutte le strade, per tutti i crocevia, giorno e notte ti ho cercato e ti ho trovato solo quando sono venuto a riconoscere che sei tu che mi hai trovato, cioè che la fede è un dono di Dio non un dono qualsiasi, è l’amore di Dio stesso, che lui ha voluto dare a me. Sapendo questo ovviamente quella beatitudine “Beato chi crede senza vedere” perché vedere non serve, solo dopo aver accettato quel dono di Dio, dell’amore di Dio stesso, comincio a ragionare un po’, a cercare un po’ nel mondo qualche base ragionevole per accettare questo dono di Dio, ma questo modo di cercare è secondario per me, è importante perché non sono ingannato da Dio, la mia ragione quando ripenso a quel dono di Dio, quel mio ragionamento, mi rinforza nell’accogliere quel dono, ma nessun ragionamento né scientifico né filosofico… sicuramente seguo San Tommaso d’Aquino. Il ragionamento umano per le cinque vie di San Tommaso d’Aquino mi porta a un Dio “diciamo” dei filosofi, ma non è quello il Dio della fede che si è dato a me, è un Dio che arriva alla fine di un processo di ragionamento, di filosofa, è un Dio per dire filosofico, ovviamente è lo stesso Dio, ma non sono mai arrivato al Dio della fede tramite un processo ragionevole.

Magari sbaglio in qualcosa comunque la Bibbia identifica la data della creazione in poche migliaia di anni fa, ma è chiaramente provato da voi astronomi che l’inizio è assai lontano, si presume 14 miliardi di anni fa… Confrontiamo le Sacre Scritture del genere con le nostre conoscenze scientifiche; in questo confronto bisogna rispettare sia la sacra scrittura sia la metodologia scientifica, le scienze, e sono diverse, la cultura umana è vasta: arte, musica, giochi, letteratura, scienza, religione cioè la cultura umana è vasta, bisogna rispettare in qualsiasi conversazione, in qualsiasi incontro, in questo caso bisogna rispettare cos’è la “Sacra Scrittura”: sono libri sacri, composti da migliaia di autori di diverse culture da 5.000 anni avanti Cristo diciamo dal tempo dei patriarchi, sino a dopo Cristo, a 200 anni dopo Cristo, vangelo di Giovanni è l’ultima parte nella sacra scrittura. Su quell’arco di tempo i nostri antenati, realizzando di essere un popolo prescelto da Dio, hanno cominciato a pensare di scrivere su Dio, ma non hanno scritto nessuna frase scientifica perché, la scienza moderna non esisteva, la scienza moderna che pratico io venne nel secolo XVIXVII. Quando confrontiamo prendiamo un caso specifico, “La Genesi”. Parla di Dio che ha creato il mondo in sei giorni e si è riposato il settimo giorno. Dalla scienza moderna sappiamo che il mondo ha 14 miliardi di anni, c’è un confitto qui? Ovviamente no, perché Genesi non presenta la scienza, presenta una bellissima storia e le storie insegnano, non solo la scienza insegna, anche le storie insegnano. Cosa insegna la Genesi? Per me la Genesi insegna, che questo popolo prescelto da Dio dopo essere stato liberato dall’Egitto e dalla schiavitù, e tornato al paese scelto per lui da Dio, ha cominciato con la vita tranquilla a pensare al fatto che quel Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù e lo aveva scelto come il suo popolo prediletto, lo stesso Dio avrà creato il mondo, perché è un Dio grande, avrà creato tutto quello intorno a noi, ma noi siamo gente un po’ particolare, siamo gente prescelta da Dio e allora quando Dio avrà creato il mondo facciamo questa storia, facciamo un teatrino, c’è il palcoscenico, allora il primo giorno Dio ha avuto bisogno di luce, allora il primo giorno crea la luce, dopo un po’ di terra, un po’ di acqua, un po’ di piante, serpenti e un po’ di animali e dopo aver fatto tutto questo bel palco appare la persona umana, Adamo e Eva.

E’ una bellissima storia che parla della centralità vista da quegli attori, la centralità dell’essere umano nella creazione, così come la vedevano loro. E’ una bellissima storia e ci insegna tanto, ma se dovessimo prendere questa storia come scienza c’è un sacco di problemi, primo, la luce di quel primo giorno da dove veniva? Perché tutta la luce che conosciamo noi scienziati viene dalle stelle. Le stelle furono create da Dio: sole, luna e le stelle il quarto giorno, allora c’è subito un confitto, come mai la luce subito il primo giorno, quando le sorgenti della luce furono create il quarto giorno? Cioè come ragionamento scientifico, non centrava niente nella mentalità di quegli autori. Loro volevano darci una bellissima storia, che parla della centralità della persona umana in tutta la creazione di Dio, ancora un Dio grandissimo per loro, è solo che lui li ha liberati dall’Egitto, li ha amati, li ha messi al centro di tutta la sua creazione. Un bellissimo concetto, ma non un concetto scientifico. Si è scoperta la data del Big Bang, ma prima cosa c’era? Mi viene anche questa domanda perché io conosco Ernesto Cardenal il quale nel suo libro “Il cantico cosmico” dice: nel principio non c’era niente, né spazio né tempo. E’ un concetto scientifico, parlando da scienziato, l’universo nel Big Bang aveva suo inizio.

Da quel momento di inizio, diciamo tempo zero, furono creati, fu creata la struttura, la struttura ha spazio temporale, cioè lo spazio e il tempo sono relazionati fra loro. Ma è il fatto che non esisteva un prima, un dove, perché prima del Big Bang non ha senso, perché la nostra immaginazione è quella, cosa c’era prima, prima dell’inizio non c’era un prima, non c’era tempo. Allora la domanda non ha senso, perché il significato di tempo inizia con l’universo e l’universo si espande con una struttura spaziotemporale e in che cosa espandeva l’universo e in che spazio? Non c’è spazio al di là.

Lo spazio, si crea man mano che l’universo si espande, se vogliamo è un modo di parlare. Ancora Sant Agostino, lui sapeva questo, che il tempo iniziava con l’universo, ma quando gli hanno chiesto cosa faceva Dio prima di creare il mondo, (la risposta di Sant Agostino è una bella risposta), lui ha detto: Dio prima di creare il mondo stava creando l’inferno per coloro che fanno domande del genere. E’ una bella battuta per dire che quella domanda è contraddittoria, non ha senso. Lei ha detto che l’uomo rappresenta l’elemento in cui la materia prende coscienza. Mi può sviluppare questo pensiero? Per andare un po’ indietro, sappiamo bene, dagli studi moderni, dalla cosmologia e dallo sviluppo dell’universo, che la persona umana, la vita, l’origine della vita, richiedeva 12 miliardi di anni prima di poter iniziare perché ci volevano tre generazioni di stelle per creare gli elementi chimici per la vita, per aver le sostanze chimiche per la vita ci volevano tre generazioni di stelle, perché le stelle man mano che nascono e muoiono buttano nell’universo sostanze chimiche e man mano che passiamo da una generazione all’altra, gli elementi chimici passano da elementi leggeri a più pesanti, dall’idrogeno all’elio, al carbonio, all’azoto e finalmente al ferro. Noi siamo nati dalle stelle, con un senso molto significativo per me, perché tutta la chimica che costruisce l’essere umano è avvenuta tramite le stelle, siamo nati dalle stelle in quel senso. Per tornare alla domanda: come persone umane, in quel senso, da quello che sappiamo, da quello sviluppo, da quella evoluzione dell’universo, siamo venuti ad avere un cervello, tramite quella complessità chimica, cioè col passare degli anni elementi sempre più pesanti e combinazioni chimiche sempre più complesse finchè siamo arrivati al cervello umano.

A quel punto è successa una cosa meravigliosa, la coscienza umana, cioè noi tramite la scienza moderna abbiamo la capacità di mettere l’universo nella nostra testa e di studiarlo, perché tramite le scienze, la legge della gravità che uso quando mi peso sulla bilancia nel bagno, è la stessa legge di gravità che uso quando misuro la massa di quella galassia che dista 10 miliardi di anni luce. Stessa legge: allora la coscienza umana è arrivata al punto che noi siamo coscienti di conoscere, io adesso sto riflettendo su quello che conosco come scienziato, ripensandolo, e sono cosciente di essere un ego, sono io, che riconosco altri ego altrove che comunicano con me.

L’unica esitazione è questa: siamo gli unici esseri coscienti nell’universo? E quanto sappiamo? Siamo ignoranti? Ci sono esseri intelligenti, coscienti, altrove, nell’universo? Non sappiamo, non abbiamo nessuna traccia pro o contro la vita altrove, e non vita intelligente… per adesso abbiamo questo gran privilegio di essere persone coscienti, ed è una bellissima capacità. Secondo lei l’uomo è o non è speciale nel creato? Sa perché dico questo? Quando ero piccolo come studente ci dicevano nel catechismo: i minerali, i vegetali, gli animali e l’uomo sono messi su una scala di privilegi, Questo è il concetto, questa la domanda: siamo privilegiati in questo mondo, siamo “SPECIALI” ? Io sono un po’ cauto sul fatto che siamo esseri “speciali”, in un certo senso è proprio vero, a confronto su tutte le creature che conosciamo sulla superficie della terra sembra, a noi, di essere speciali, tramite la coscienza, la capacità di comunicare, di organizzarci in diversi tipi di società ecc. La tecnologia avanzata tramite la capacità della persona umana… Senz’altro parlando così siamo speciali, ma io un po’ di cautela di fronte all’universo intero l’avrei, perché, come dicevo ieri, in quella conferenza, in quel bellissimo film che hai fatto, ed io ho chiesto, ma chi ti ha detto che siamo speciali? Volevo dire questo ma siamo più ignoranti che consapevoli dell’universo intero ed è per quello che dico: non posso invitare né il creatore dell’universo Dio, né l’universo stesso ad accettarci come esseri speciali, forse siamo, forse non siamo speciali ed infatti è ben possibile, se c’è la vita altrove, se c’è è molto più sviluppata della nostra civiltà, solo considerando i tempi per la vita sulla terra, sono pochissimi gli anni della civiltà umana in confronto con l’età di tutto l’universo, allora se ci dovesse essere la vita, è ben possibile con quelle condizioni, e se ci dovesse essere la vita è ben possibile che sia più sviluppata, più speciali di noi stessi. Insomma siamo speciali in quel senso, con un po’ di riserva, diciamo. Lei è un uomo di fede, è un Gesuita: qual’è la sua opinione sugli esseri umani che non credono nell’esistenza di Dio? Io ho avuto delle conversazioni di questo tipo.

Ho sempre detto, nel confronto con uno scienziato collega ateo, ho sempre insistito che la mia fede è un dono di Dio, come dicevo prima, Dio mi ha amato, io cerco ogni giorno di accettare quel dono e di farlo fruttare, di farlo arricchire ma è un dono di Dio. E’ lui, l’interlocutore, che chiede, ma perché Dio non mi ha dato quel dono, perché a te e non a me? Ovviamente a questa domanda come rispondere… Non sono io Dio, io non posso dire perché Dio avrà fatto così o così, l’unica risposta che ho provato a dire, con tutta sincerità ed onesta, è che Dio ti ha dato quel dono, ma è un dono preziosissimo e a volte uno non riconosce quel dono. Ognuno ha il suo cammino nella vita, qualcuno deve prendere più tempo, deve vivere ancora in diverse circostanze prima di riconoscere quel dono già dato e in un certo senso ricevuto, ma non ancora maturo, non riconosciuto. O un’altra risposta sarebbe: un bel giorno Dio ti darà quel dono perché Dio ama tutti senza riserva, un bel giorno riceverai quel dono.

E’ la miglior risposta che posso dare io, forse l’unica: è un dono di Dio già dato o che sarà dato a tutte le persone. Mi viene da dire, io sono spesso nelle guerre, nei disagi, nelle sofferenze, allora mi chiedo perché Dio mi ha fatto nascere qui in Italia, mentre in Iraq quel povero sta soffrendo, o quei bambini in Congo, o in Nigeria o in AfghaGEORGE COYNE, GESUITA, ASTRONOMO “Noi siamo figli delle stelle…” nistan, perché io ho questo privilegio in rapporto agli altri? Primo non c’è una risposta, è un mistero sino ad ora nascosto nel cuore di Dio stesso. Ma qualcosa possiamo tentare di dire, il vangelo ci dice: se un seme non cade in terra e muore non avremo una raccolta l’anno prossimo, cioè la morte e la vita sono dappertutto, nelle nostre esperienze, le sofferenze, le gioie, sono dappertutto. Ed in più possiamo dire, per esempio, il terremoto che ha creato tante sofferenze: perché a quella gente e non altrove come dicevi tu? Posso solo rispondere che un albero bisogna che ci sia altrimenti la superfcie della terra non sarebbe abitabile, è un modo di trasferire il calore da una parte della terra a un’altra, per rendere omogenea la distribuzione della temperatura, del calore. Allora è necessario, se non esistesse la superfcie della terra non sarebbe abitabile, si alzerebbe tanto qua e meno là, certi effetti del genere bisogna che ci siano, è la natura della natura che richiede quello. Uno potrebbe dire, ma perché Dio ha creato una natura del genere e avanti così e non finisce più ed io non posso rispondere per Dio. Cioè un male cosiddetto fisico è una cosa diversa rispetto ad un male morale creato da noi persone, dalla nostra libertà. Siamo liberi di fare del bene o del male e se non siamo liberi non possiamo amare.

L’amore è un atto di profonda libertà. Pensa che è positivo che la credenza di Dio sia organizzata in religione, in una istituzione che abbia come conseguenza la classificazione, la separazione, la divisione e l’odio tra gli esseri umani? Per me Dio non ha voluto creare queste spaccature fra gli uomini fra sette e credenze diverse, tra diverse religioni. Siamo noi uomini che ci siamo frammentati in diverse religioni, non è voluto da Dio, bisogna cercare di trovare la verità dove sta e un po’ di verità sta in tutte le religioni. Di più è difficile dire, solo che siamo noi uomini che abbiamo fratturato il credere in Dio.

Crede nella teoria dell’evoluzione di Darwin? In una conferenza ha detto, ha fatto il rapporto di un orologio spiegando in quale tempo siamo adesso. Primo non è un credo, è una spiegazione scientifica l’evoluzione di Darwin, non è proprio giusto dire credo o non credo, non è un fatto di credere o non credere. E’ la migliore spiegazione fino ad oggi di tutti i fatti che abbiamo potuto raccogliere noi scienziati. Chi ha una spiegazione migliore, scientifica, dico scientifica, non religiosa, filosofica, ma scientifica, è pregato di darcela, perchè noi scienziati siamo aperti a qualsiasi soluzione scientifica…

E allora dico questo: è la migliore spiegazione, l’evoluzione Darwinista. Come un calendario dell’evoluzione è facile da fare se dovessimo mettere tutta l’età dell’universo, 14 miliardi di anni e mettiamolo come fosse un giorno. Ovviamente per poter comprendere un po’, facciamo che il primo gennaio è il Big Bang, il 25 dicembre, giorno di Natale, sono nati i dinosauri, ma vivevano solo 5 giorni, morivano il 30 dicembre, l’ultimo giorno di questo anno che rappresenta l’età intera dell’universo è interessante: gli esseri umani sono venuti 5 minuti prima di mezzanotte, prima della fine dell’anno, Gesù Cristo è nato 5 secondi prima della fine dell’anno e Galileo, con la nascita della scienza moderna, 2 secondi prima della fine dell’anno. Dico questo perché l’età dell’universo è tanto grande che è difficile per noi comprendere quanto grande sia in confronto con le nostre esperienze umane. Noi scienziati stiamo studiando un universo che ha l’età di un anno e lo stiamo studiamo da 2 secondi, se c’è un po’ di ignoranza scientifca, dateci un altro secondo per studiare. E poi dobbiamo essere più modesti con i nostri credi religiosi. Gesù Cristo cinque secondi fa è nato in questo anno e perciò tutte le nostre credenze, Islam, Buddismo eccetera, si spostano un po’ in questo calendario. Ma dobbiamo riconoscere che la sacra scrittura, tutte le tradizioni ecclesiastiche, risalgono a… 5 secondi fa. Lei adesso ha fatto il discorso del tempo, quanto tempo avremo davanti adesso che abbiamo pensato al passato? Noi esseri umani? E’ difficile dirlo, ma l’universo è un’infnità perché si sta espandendo e si espanderà per sempre. Quindi non si consuma ma si espande? Si espande fino a che non si raffredderà allo zero assoluto. Un mondo molto molto molto freddo… Ma sempre in espansione Quindi arriverà quasi in eterno? Si sì, avrà delle nane bianche, stelle a neutroni, cioè materia morta senza nessun movimento. Ma si espande? Si, va bene Giorgio speriamo che serva… Certo che serve!

Fino all’ultimo respiro

0

Per anni in attesa dell’esecuzione i condannati a morte vivono in celle di cemento e acciaio con una luce al neon sempre accesa

Livingston, Texas, una cittadina della quieta provincia americana, 90 miglia dalla capitale dell’astronautica Houston. Un’incredibile grande barriera di filo spinato segna il confine con un mondo lontano come un altro pianeta, il luogo delle vite sospese del penitenziario Polansky Unit. All’interno, 447 detenuti attendono l’esecuzione della loro condanna a morte. Negli Stati Uniti i detenuti già condannati in attesa dell’esecuzione sono 3.697 ed il Texas vanta il triste primato con una media di 40 esecuzioni ogni anno. Tutte le carceri dure americane sono off-limits per un giornalista, ma dopo tre anni di estenuanti tentativi ecco che finalmente nel gennaio scorso ottengo l’autorizzazione ad entrare nel braccio della morte del Texas. Fa una brutta impressione attraversare tutto quel fi lo spinato. Prima si è setacciati a fondo, poi una pesante lastra di ferro si apre, scorre su binari e si richiude rumorosamente alle spalle.

Accompagnato entro in uno dei blocchi di cemento e acciaio; si percorrono lunghi corridoi e… il rumore dei passi, lo scorrere delle pesanti porte di acciaio, lo sbattere dei cancelli delle celle e la voce degli altoparlanti… quello è un non mondo. Non un colore, non un sorriso, non una musica. Poi la grande sala colloqui divisa tra il mondo dei vivi ed i condannati a morte, che lì, visitatori e prigionieri, possono divisi da una pesante lastra di vetro, comunicare le emozioni e sensazioni, ed attraverso l’interfono sentire la voce e scambiare i pensieri. Sono di fronte a Mariano Rosales, 66 anni, nel marzo 1985 uccide la moglie Mary e l’intera famiglia del suo amante. Da allora non è che la matricola 814. Chi mi accompagna, alza il braccio, tira su la camicia dal polso, mi mostra l’orologio e dice: forty fi ve minuts – 45 minuti – questo è il tempo che mi concede per l’intervista.

Ho di fronte un uomo sulla sessantina, pelle scura, messicano, scuri gli occhi ed i capelli, che mi sorride. Un breve saluto e poi l’intervista. Come è stare qui dentro? Sono colpevole ed è giusto che paghi per le mie colpe, ma nessuno può rendersi conto di cosa significhi vivere qui dentro, sei giù fisicamente, ti senti solo, ci sono detenuti che vorrebbero uccidersi, ma non è permesso. Ditelo in Italia: il modo in cui viene data la pena di morte è troppo semplice, e non serve a bloccare il crimine.

Perché sei finito in carcere? Ero ubriaco, mia moglie mi aveva lasciato. Io stavo impazzendo di gelosia. Non avrei mai pensato di essere in grado di fare una cosa del genere, di uccidere. Credevo di essere una persona forte… ero come impazzito. Sono entrato armato di pistola in quella casa, dove sapevo esserci mia moglie. Ho ucciso Patricia di 19 anni, sua sorella Rachele di 14 anni incinta di 7 mesi, il ragazzo di Patricia e poi sono arrivato in quella stanza dove ho trovato mia moglie Mary e Ector il suo amante… non capivo più niente.

Ho scaricato loro addosso i colpi che rimanevano. Come è la vita qui dentro, come ti trattano. Non vi hanno mai raccontato nulla del braccio della morte? E’ davvero un posto terribile dove vivere non è vivere. Riesco a sopravvivere, ad accettare tutto questo perché credo in Dio, in Gesù Cristo, ma è un posto dove stai 23 ore al giorno senza vedere fuori, senza vedere nessuno, solo muri tutto intorno. Possiamo uscire all’aria aperta solo 1 ora al giorno. Non ci sono contatti umani e anche quando usciamo abbiamo le mani legate dietro la schiena. C’è privacy, come sono le celle? Tutto è molto stretto, la cella misura 9 piedi per 10 (neanche 2 metri per 3 circa), il posto per un wc, una mensola che funge da tavolino e un letto. Dai muri si sente quello che succede nelle celle vicine.

Ci sono due aperture da cui le guardie possono vedere dentro. Cos’è che ti manca di più? Poter toccare ed abbracciare i miei fi gli e i miei due nipotini… non sono belli? -schiaccia contro il vetro le foto dei suoi nipotini- …non sono belli? -mi ripete piangendo. Come vivi l’attesa… Cerco di vivere senza pensare troppo al giorno della mia esecuzione. Cerco di essere forte spiritualmente e di pensare che le cose possono ancora fi nire bene. Comunque sono pronto a qualunque cosa Dio vorrà. Quindi c’è ancora posto per la speranza nel braccio della morte… Sì, non l’ho mai persa, credo in Dio ed aspetto di entrare in una vita migliore. Come ti senti ora? Quando un uomo è privato della sua libertà come lo sono io che sono rinchiuso da 20 anni, caro amico, anche solo venire qui e poter ammirare attraverso questo vetro il colore degli alberi e del cielo, mi fa sentire più vicino a Dio e mi da un po’ di speranza, perché anche un condannato a morte ha speranza. Mi alzo tutti i giorni con il rimorso per quello che è successo, ho sbagliato e prego i famigliari delle vittime di perdonarmi per ciò che ho fatto. Sento una mano che mi batte sopra la spalla, ho un soprassalto. E’ il guardiano che mi dice: “Finish!”. Saluto Rosales. Appoggio la mia mano al vetro e lui la sua. Ci salutiamo così, “grazie” gli dico, “adios” e lui mi risponde “scrivimi, scrivimi”.

* * *

Per anni in attesa dell’esecuzione i condannati a morte vivono in celle di cemento e acciaio con una luce al neon sempre accesa. L’ora d’aria la passano in una stretta gabbia di ferro dove tra le sbarre di un soffi tto altissimo si vede il cielo. Il rimbombo delle serrature, gli specchi visori, i pulsanti elettrici, le luci elettroniche, suoni metallici e le guardie armate sono la vita inquietante di quel non mondo che sprofonda nel nulla i condannati a morte. Poco dopo sono di nuovo tra i “vivi”. Nonostante il largo consenso popolare verso la pena di morte, ribadito in tutti i referendum, ora la mentalità sta cambiando e più del 40 per cento degli americani si dice comunque contrario. E non sono pochi gli attivisti che si battono per la sua completa abolizione.

A Houston incontro David Atwood, fondatore del movimento contro la pena di morte in Texas: “La tragedia di questa vicenda è che esistono detenuti che stanno anche 25 anni nel braccio della morte. Il motivo per cui tanta gente è a favore della pena di morte credo sia una lunga storia di tradizione qui in Texas. I governatori l’hanno sempre applicata,viene presentata come un deterrente. Ma anche nel caso di persone colpevoli è una inutile brutalità … non avrei mai sospettato che potessero esserci degli innocenti nel braccio della morte, ma in questi anni ho scoperto anche questo. Se è vero che una democrazia dovrebbe proteggere i propri cittadini, allora non dovrebbe andare contro il diritto sacro della vita”.

* * *

Le polemiche sulla legittimità della pena di morte nascono soprattutto dalla preoccupazione che la sentenza possa colpire un innocente. Non sarebbe del resto la prima volta. Nel gennaio 2004, dopo aver trascorso 23 anni nel braccio della morte, grazie al test del DNA, Nick Yarris è stato riconosciuto innocente: “Nessuno mi potrà risarcire della mia vita, il mio passato è perduto –mi dice Yarris piangendo – non c’è legge che prevede un mio risarcimento per ciò che mi hanno fatto, come posso pretendere giustizia se non c’è legge che mi tuteli. Recentemente il mondo ha potuto vedere le torture di Abu-Grybe, Charles Graner, ufficiale della Pensilvenia che si è macchiato di questi crimini, ha lavorato nel mio carcere… l’ho visto fare qui le stesse cose fatte in Iraq. Io ero innocente. Guardate cosa hanno fatto alle mie mani – e me le mostra alzandole – …vedete cosa mi hanno fatto?”

* * *

Ancora David Atwood… “Abbiamo bisogno di fermarci e di rivedere il nostro sistema giudiziario. La corte Suprema dice che è un sistema che funziona ma che ci sono troppi errori. Quello che succede in Illinois, con il governatore Ryan , il fatto che abbia scoperto molti errori giuridici ed abbia sospeso molte esecuzioni è eclatante”.

* * *

Chi difende la pena di morte chiama immediatamente in causa il suo valore di deterrente per i crimini più gravi. Ci si chiede allora perché negli Stati Uniti vengono commessi quasi 20.000 omicidi ogni anno che significa 1 omicidio ogni 12.500 abitanti, invece in Italia dove la pena di morte non c’è, abbiamo 1 omicidio ogni 93.000 abitanti? Nel gennaio 2003, George Ryan, alla fi ne del suo mandato, ha commutato in ergastolo le condanne a morte di 167 detenuti e graziato altri 14 a suo giudizio innocenti. L’ho incontrato a Chicago: “Quando nei primi anni ’70 iniziai la mia carriera politica ero a favore della pena di morte. Poi diventai governatore dell’Illinois e dovetti analizzare alcuni casi di detenuti nel braccio della morte, tra cui la vicenda di Antony Bore che doveva essere giustiziato da lì a poco, aveva passato 16 anni nel braccio in attesa dell’esecuzione. Un gruppo di studenti scoprì il colpevole e Bore venne liberato 24 ore prima di essere giustiziato. Questo mi fece acquisire una nuova prospettiva sulla pena di morte e decisi di analizzare… Il sistema giudiziario nello stato dell’Illinois ha delle falle. 26 persone sono state condannate a morte e poi si è scoperto che erano innocenti. 14 sono state scarcerate ma 12 sono state giustiziate. 26 persone condannate a morte innocenti. Capite? E’ un pessimo sistema e penso che l’Illinois non sia l’unico stato dove si incappa in errori giudiziari.”.

* * *

“Non è vero che la pena di morte è riservata alla gente che ha commesso i crimini più feroci – dice Suor Helen Preyan, autrice del libro da cui hanno tratto il fi lm Dead Man Walking – in realtà è riservata a povera gente perché tutte le 3600 persone che sono nel braccio della morte incluse quelle del Texas, sono tutte povere. E’ vero che hanno commesso terribili crimini, quando vai a vedere le ragioni a volte bisognerebbe riflettere, ma loro non possono pagare il grande avvocato e ricevono una difesa miserabile che non permette di beneficiare dei vantaggi previsti dalla Costituzione per i processi giusti”.

* * *

A 40 miglia da Livingston, ad Huntsville, c’è un vecchio grande edificio di mattoni rossi, monumento nazionale, costruito nel 1848; è un carcere di massima sicurezza ed è l’ultimo edificio che vedono i condannati a morte del Texas alla fi ne del loro viaggio. Lì trascorrono l’ultima notte prima dell’esecuzione. Il giorno dell’esecuzione, le ore sono scandite da uno schema obbligato: -Mattino colloquio con il cappellano; -ore 12.00- ultimo pasto; -ore 14.00- ultima telefonata; -ore 15.00- visita della guida spirituale e dell’avvocato; -ore 16.30- passaggio per il miglio verde; -ore 18.00- iniezione letale. Accompagnato dalle guardie e dal cappellano il condannato a morte percorre un lunghissimo corridoio tra sbarre di ferro ed in fondo si apre una porta che dà accesso alla stanza della morte.

* * *

“Tutti sappiamo di dover morire – mi dice il cappellano O’Bryan – ma nessuno sa quando. Questa è la grande differenza rispetto ai condannati a morte. E’ molto duro vedere una persona morire e vederla morire con il cronometro in un’ora stabilita”.

* * *

Don Guido Todeschini che ha vissuto l’esperienza di accompagnare fi no all’ultimo un condannato, mi racconta gli ultimi momenti: “Verso le 17.30, l’esecuzione era per le 18.00, arriva un’altra guardia e dice: andiamo. Allora attraverso un corridoio stretto entriamo nel buio prima e poi siamo introdotti in una specie di piccolo antro dove si arriva a questa vetrata e dove nello squallore di una cella, steso su un patibolo, altroché lettino, io dico che mai chiamiamo letto la croce… la croce è croce e quella li è una croce. Era già steso e legato ai piedi e alle mani. Come disse al guardiano sono pronto, il guardiano ha dato il via. Noi non abbiamo visto coloro che hanno premuto i pulsanti per le tre iniezioni, perché tre sono state le iniezioni. La prima è una specie di sonnifero, la seconda è un veleno che va ai polmoni, la terza è un veleno che spacca il cuore. Il tutto in brevissimo tempo. Eravamo stati preparati a queste tre iniezioni, lo psicologo, il medico ci avevano spiegato come sarebbe avvenuto, probabilmente anche perché non ci impressionassimo certo è che come lui ebbe finito di parlare lui rimase, si vedeva proprio così, con gli occhi rivolti al cielo.

Ci siamo accorti che era arrivata l’iniezione ai polmoni quando ad un certo punto egli fece un gesto: Mmmmmm ed emise un rantolo. Così e tutto si sentì perché c’era il microfono aperto sopra il suo capo e noi avevamo l’altoparlante, poi io guardavo… non si è più mosso. Dopo qualche minuto entrò una persona vestita di nero, seppi che era medico perché portava anche gli aggeggi del medico. Allora controllò il cuore, i polmoni, aveva una piccola pila in mano apri gli occhi andò dentro, ha chiuso gli occhi, ha fatto così con l’orologio:18.24. Detto questo uscì, era la dichiarazione di morte”.

* * *

Dietro una parete di vetro i parenti delle vittime del reato e i testimoni assistono… nel nome di un diritto riconosciuto dal fondamentalismo biblico che è alla base del sistema giudiziario americano. E poi i cadaveri vengono sepolti nel campo del carcere; è un luogo chiamato il cimitero dei criminali, dei condannati a morte. Un grande campo dove ci sono centinaia di croci di pietra e su quelle croci ci sono i numeri, non c’è il nome e il cognome, c’è la matricola.

Miseria e Nobiltà

0

Sopravvivere con 250 euro al mese

L’asfalto profuma di terra e il golf bianco di G. non serve a riparare niente e nulla. Fa freddo dalle parti della famiglia di G. Lei 42 anni, lui 44, convivono da 11, felicemente, nel senso affettivo, poco felicemente nel senso remunerativo. Storia di nuove povertà, arrivate all’improvviso tra capo e collo, a raffreddare tutto e tutti. G e L abitano in un paese dell’Alto Sebino, 1150 euro lui, impiegato, lavori in nero per lei, donna delle pulizie quando capita. Un mutuo per la casa dove se ne vanno 600 euro al mese e prestiti un po’ dappertutto: “Abbiamo comprato il frigo a rate, il computer a rate, il divano a rate”, quello che resta, poco, serve per arrivare a fi ne mese, in mezzo bollette, assicurazione auto e imprevisti. Come quello capitato un mese fa quando l’auto di L finisce fuori strada, asfalto bagnato, gomme lisce da cambiare da tempo, auto dal carrozziere. 800 euro di riparazione imprevisti. 800 euro che non ci sono. G e L cominciano il giro delle banche, serve un altro prestito, appuntamenti, incontri, spiegazioni, niente di niente. G e L passano alle società finanziarie che controllano e scoprono che due anni fa G e L avevano saltato un mese di rimborso rata e allora non se ne fa niente, non ci sono garanzie. G e L girano in pullman da un mese, l’auto rimane dal carrozziere. Soldi non ce ne sono. Ce ne saranno quando G e L si affideranno a qualcuno che presta soldi subito, senza guardare in faccia troppo a rate e numeri, con tassi altissimi: “Gli strozzini ci sono anche da noi – racconta Simone M, promotore finanziario – praticano tassi altissimi e ti danno i contanti subito, una spirale da cui non esci più, ma purtroppo noi promotori e anche le banche abbiamo dovuto chiudere i rubinetti. I prestiti sono sempre più selezionati e controllati e molto più difficili da ottenere”. Michele e Simona invece sono sposati da poco, sei mesi, giusto il tempo di tirare assieme un appartamento, fare il mutuo per pagarlo e rimanere incinta, gravidanza inattesa, Simona che lavora con contratto a tempo determinato perde il posto e nell’appartamento appena acquistato manca la cameretta per il bimbo. Michele e Simona girano le banche alla ricerca di un nuovo prestito, niente, alla fi ne glielo concede una società finanziaria, tasso 20%, Michele guadagna 1200 euro, Simona non guadagna più niente, mutuo di 700 euro, 150 euro al mese per la cameretta e siamo a 850 euro. Michele e Simona vivono, devono vivere con 250 euro al mese, sperando che non capiti un dente cariato o una multa sul parabrezza, le società ffinanziarie non contemplano imprevisti.

Chi non si adatta alla povertà: “Una volta era il pane necessario per alcuni adesso è il cellulare ”

La famiglia M. abita dalle parti di Sarnico, una casa vicino al lago ereditata dai genitori, Alessandro, il marito fa il geometra per uno studio d’architettura, Michela la commessa in un negozio di abbigliamento part time. Due auto, una Audi A 3 per Alessandro, una Smart per Michela. Due auto prese a rate, 300 euro al mese per l’Audi, 200 euro al mese per la Smart. Lo stipendio di Alessandro è di 1500 euro al mese, quello di Michela di 550. In tutto 2.050 euro. Due auto, la donna delle pulizie una volta a settimana per un costo di 300 euro al mese che sommati alle rate dell’auto fanno 800 euro. E poi un’infinità di prestiti che hanno messo sul lastrico la coppia. “Il problema – spiega sempre Simone, il promotore finanziario – è che ci sono due tipologie di persone che chiedono il prestito, quelli che lo chiedono per beni di prima necessità e quelli che lo chiedono per beni voluttuari”. Alessandro e Michela hanno chiesto il prestito anche per un frigorifero da 2000 euro e poi per la vacanza di 4 giorni a Pasqua in una città d’arte Europea e poi l’ultima richiesta di pochi giorni fa che la finanziaria ha rifiutato: “Alla fi ne – spiega Simone – abbiamo dovuto dire no per l’ultimo prestito che ci ha chiesto l’altro giorno, per acquistare una piscina interrata in giardino, ma oramai sommando tutte le rate dei beni acquistati supera di gran lungo la capacità di rimborso. Una coppia che si ritrova con la lingua a terra e piena di debiti, in questo caso per acquisti non di prima necessità ma anche qui non è una novità. Le persone e le coppie che si indebitano per acquisti così detti voluttuari sono in vertiginoso aumento”, E’ cambiato lo stile di vita: “Altroché. Molti erano abituati a un tenore di vita che è sostenibile solo quando tutto gira per il verso giusto ma quando le ore di lavoro diminuiscono così come i redditi bisogna tirare il freno e invece continuano ad avere lo stesso livello. Una volta era il pane necessario per alcuni adesso è il cellulare, bisogna scindere e anche noi quando facciamo prestiti dobbiamo fare queste valutazioni. C’è poi un’altra caratteristica, gli italiani fi no a qualche anno fa erano delle vere e proprie formiche, era la caratteristica degli italiani, risparmiavano, adesso si spende quasi tutto e così quando capitano periodi di vacche magre si ricorre al prestito per qualsiasi cosa”. Due quindi le tipologie di chi richiede prestiti: “Sì, c’è chi ha bisogno per prima necessità e in quel caso il rapporto diventa quasi come quello degli assistenti sociali, all’inizio sono molto timidi e hanno quasi vergogna a parlare, poi prendono confidenza e raccontano tutto, anche situazioni drammatiche, credo ci sia un forte bisogno di sfogarsi, di liberarsi di angosce e paure, doversi ingegnare in ogni modo per arrivare a fi ne mese magari con bambini piccoli è un dramma, soprattutto per italiani che si vergognano a dover ammettere di non farcela più”. E poi i prestiti molte volte generano prestiti: “Per quelli che hanno davvero difficoltà il prestito non risolve il problema ma alla lunga lo aggrava, assomma somme da restituire ad altre somme e il dato pauroso è che le persone che chiedono prestiti sono in continuo aumento. Anche per noi non è facile concederlo perché sulla carta quasi sempre risulta solo il reddito del marito perché molte donne lavorano in nero e non può essere calcolato”. Meglio cercare di ottenere prestiti dalle banche: “Hanno tassi di interesse più bassi ma è più difficile ottenere prestiti, poi ci sono le società finanziarie che hanno maglie più larghe ma tassi molto più elevati”. Più italiani o extracomunitari? “Ormai la percentuale è uguale ma c’è un altro fenomeno che riguarda gli extracomunitari. Molti non avendo stipendio fisso o non essendo ancora regolari si fanno prestare soldi da extracomunitari che hanno i requisiti per avere prestiti e quindi girano il prestito poi a chi non poteva ottenerli. Fanno i prestiti anche se non ne hanno bisogno per poi girarli a tassi alti a chi ne ha bisogno ma non può ottenerli, un fenomeno in forte espansione”. E poi ci sono le cosiddette ‘trappole legalizzate’: “E le più facili sono le carte di credito che hanno interessi anche del 17-20%, si acquista un bene, non lo si paga subito ma con la carta di credito magari a 100 euro mensili ma gli interessi sono altissimi e così se si acquista un computer in questo modo alla fi ne è come se ne avessi pagati quasi due”.

Gino Strada

0

 “Non sono un pacifista, sono semplicemente contro la guerra. Noi andiamo dove c’è bisogno e… dove essere curati costa”

Missionario laico? Laico lo sono di sicuro, missionario direi proprio di no”. E’ della generazione che già fatica a inquadrare se stessa in un mondo scomparso, le date, gli avvenimenti della storia fanno aggio su quelli personali. E definiire se stessi oggi oltre che faticoso, è spesso inutile, il giorno dopo già devi cercare di non farti inquadrare da qualcuno cui fa comodo “arruolarti” per (sua) convenienza. Gino Strada è divertito dal fatto di non ricordare con precisione l’anno in cui si è laureato in medicina, che importanza può avere nel quadro della grande storia quel dettaglio, ai margini dell’affresco? Comunque dovrebbe essere il 1978. Poi si è specializzato in “chirurgia d’urgenza” che già sembra una scelta di qualcosa di… insolito. “Sì prima la chirurgia d’urgenza e poi quella cardiovascolare”. Quest’ultima più comprensibile, il fi lone dei trapianti si capisce che possa affascinare un giovane laureato. Ma la chirurgia d’urgenza? “Perché è molto interessante professionalmente, vuol dire lavorare anche in condizioni non sempre facili, anche qui, e poi a Milano c’era questa grande scuola di chirurgia d’urgenza che era stata fondata dal Prof. Staudacher (Carlo Staudacher che dal 1969 al 1980 fu assistente ospedaliero nella Divisione di Chirurgia d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Milano – n.d.r.). Io lavoravo nel suo reparto quindi è stato naturale affezionarmi a quella disciplina”. Hai detto “anche qui”, che vuol dire in Italia… “Beh, la chirurgia d’urgenza è quella che si occupa dei traumatismi acuti, è una chirurgia molto impegnativa, si lavora tanto, non ci sono mai orari, non è un’attività di tutto riposo”. Una carriera davanti, anche se non di tutto riposo, e uno decide di occuparsi di “traumi” in paesi lontani… “Lontani per modo di dire, lontano è tutto quello che non vogliamo sentire come nostro, ma se ci si pensa non sono poi tanto lontani…”. Adesso no, ma in quegli anni… “Allora non pensavo specificamente alla chirurgia di guerra. Volevo appena verifi care cosa poteva voler dire essere un chirurgo in quelle parti del mondo dove chirurghi e medici non ce ne sono molti”. E il primo impegno fu con la Croce Rossa. “Partii con la Croce Rossa Internazionale da non confondere con la Croce Rossa Italiana. Partii e fi nii in un ospedale per feriti di guerra in Pakistan. I feriti della guerra afgana venivano trasportati in Pakistan… credo fosse il 1987. Era un ospedale della Croce Rossa Internazionale”. E poi ti sei staccato dalla Croce Rossa. “Ci ho lavorato un po’ di anni, fi no al 1992”. E come è nata l’idea di creare i “tuoi” ospedali? “L’idea di Emergency è nata da quell’esperienza lì, dai bisogni enormi che vedi e di quanto poco si possa rispondere e quindi una mano in più serve sempre”. Adesso che l’organizzazione l’hai creata sembra naturale, ma ritornando a quell’epoca uno si può chiedere, perché non sei restato con la Croce Rossa, non deve essere stato facile metter su degli ospedali in terre straniere. “Ma era anche successo che la Croce Rossa Internazionale ha smesso di mettere a disposizione ospedali, hanno cambiato la loro politica degli aiuti, diciamo così, e quindi i bisogni semplici, naturali, di curare i feriti sono diventati ancora più drammatici”. Il primo ospedale che hai realizzato? “E’ stato un piccolo ospedaletto che abbiamo messo su nel 1995 nel nord dell’Iraq, ai confi – ni con l’Iran”. E hai avuto diffi coltà? “No, era una piccola cosa, non era certo un grande centro. Poi a mano a mano siamo andati avanti e così abbiamo realizzato altri ospedali in Iraq, in Cambogia, in Afghanistan, in Sierra Leone… Quest’anno Emergency compie 15 anni e nessuno allora immaginava sarebbe diventata quello che è oggi”. Quanti sono adesso gli ospedali che avete? “Abbiamo una decina di centri tra ospedali e centri di riabilitazione. Poi abbiamo moltissime cliniche e posti di pronto soccorso…”. Una grossa organizzazione. “Grossa no, siamo sempre piccoli rispetto ad altre organizzazioni, ma abbastanza unica nel suo genere, cioè praticamente siamo gli unici che costruiscono e gestiscono ospedali in tutto il mondo, una cosa è inviare un medico ad aiutare per tre mesi, un altro è costruire e gestire un ospedale, devi coinvolgere molta gente e deve durare”. Tutta gente che non vuole essere considerata “missionaria”. E allora come ti consideri? “Uno che fa il suo mestiere in modo professionale, mi piace lavorare bene, non mi piace l’approssimazione. Tanta professionalità e tanta passione”. Uno dice, va bene, cose che si possono fare anche in Italia. “Certo. Se vai in un pronto soccorso italiano in genere trovi abbastanza medici, magari trovi anche quelli che fanno a gara per curare un paziente, anche per fare esperienza, se vai in un pronto soccorso africano ci sono pochi medici e un sacco di pazienti. E allora serve farlo in Italia ma a maggior ragione serve farlo dove i medici non ci sono”. Voi siete praticamente presenti in tutti i posti del mondo dove ci sono focolai di guerra, guerre vere e proprie o conseguenze di guerre appena sopite. Quindi hai una grande esperienza, una lettura sul campo dei perché? La maggior parte di queste guerre sembrano “guerre di religione”. Che rapporto c’è tra religione e guerra? “No, assolutamente no. Le guerre sono una piaga che dura da centinaia di anni anche se nella storia sono state sempre più violente e quelle di oggi sono le più violente che si siano mai viste. Ma le ragioni delle guerre hanno sempre tutt’altra origine, le guerre si fanno per rapinare qualcosa, poi si usa la religione come è stata usata anche nei secoli scorsi per giustifi care le guerre, per farle accettare, per tenere alto il morale, ma le ragioni vere sono altre”. Una delle ragioni ultime è stata quella dell’esportazione della democrazia… “La chiamerei la ragione, più che altro, dell’importazione del petrolio, quella dell’esportare la democrazia era una scusa, la ragione vera era un’altra… cosa vuol dire, per regalare la democrazia a un paese vengo lì e lo bombardo? Mi sembra un approccio assolutamente folle”. Tu lavori in zone in cui l’Islam è dominante. Siccome in occidente si sta guardando all’Islam come al futuro “invasore” e si coltiva la paura… Ma io credo che tutte queste cose siano fenomeni assolutamente italiani, molto provinciali. Chi vive spesso all’estero si rende conto che queste paure sono delle grandi stupidaggini che si inventano i nostri mezzi di informazione, i nostri politici. Le comunità islamiche convivono da molti anni in altri paesi europei e sono parte normale di una società. E’ soltanto qui che creiamo queste fobie stupide”. Da noi c’è chi ha usato anche il termine di “civiltà inferiore”. “Chiunque usi il termine ‘civiltà inferiore’ dimostra soltanto di essere un cretino”. Hai detto una volta che tu non sei un pacifista ma sei contro la guerra. Che differenza c’è? “La differenza è che io sono semplicemente contro la guerra mentre ho sentito molti che si definiscono pacifisti e poi sono a favore di questa o di quella guerra. Sono quei pacifisti a giorni alterni, di solito vanno bene le guerre che sono condotte dagli amici politici mentre quelle condotte dagli avversari non vanno bene. Questo tipo di pacifismo non è il mio”. Ma pacifismo non vuol dire avere necessariamente un carattere accomodante… “Vuol dire semplicemente non accettare la violenza, soprattutto quella di massa, come rapporto tra le persone”. E questa presa di posizione deriva da un tuo atteggiamento interiore? “No, nasce semplicemente da un atteggiamento di civiltà. Credo che la violenza sia uno dei sintomi più evidenti di inciviltà”. Hai mai subito un torto per cui sei stato anche solo tentato di reagire con violenza o l’hai fatto? “Fatto no ma tentato di reagire, boh, poi sai, non è che uno ha molte possibilità di tirare un cazzotto a qualcuno, la tentazione ovviamente ti viene, io a quello lì gli spaccherei la faccia, poi nella realtà ti ritrovi a… non farlo”. Non ti piace la definizione di “missionario” anche con l’aggiunta di laico. Ma nel mondo in cui vai a portare l’aiuto della tua organizzazione, ti incontri con i “missionari cattolici”, che spesso la loro parte la fanno. Come li giudichi? “Il giudizio è molto vario. Io ad esempio ho un buonissimo rapporto con i Comboniani che ritengo persone serie, lavoratori molto aperti mentalmente. Perlomeno sono quelli con cui ho avuto più incontri. Con altre realtà non ho avuto molti contatti”. Sei in giro per il mondo, ti chiedono di dove sei, va bene, sei italiano. Come vieni giudicato? Cosa dicono di noi? “In questo periodo preferirei avere un avvocato per rispondere a questa domanda”. Non c’è più la concezione degli Italiani brava gente… “No, chissà perché, è svanita. E non parlo degli ultimi due o tre anni, parlo degli ultimi 15-20 anni. Non è che siano scortesi. Certo quando si parla dell’Italia si deve essere gente di spirito per sopportare le battute”. Non dai fastidio quando arrivando in un paese straniero costruisci un ospedale dando un esempio di efficienza ed efficacia che indirettamente può essere vissuto come uno schiaffo morale alle inefficienze statali di quella nazione? “No, gli interessi che si toccano sono soprattutto interessi economici di chi sulla medicina specula e fa soldi. In tutti quei paesi la medicina è rigorosamente a pagamento. L’importante che sia d’accordo la popolazione e in molti casi anche le autorità sanitarie”. Se per una sorta di resurrezione tornasse al potere il centrosinistra in Italia e ti offrisse, per un altro miracolo soprannaturale e soprapolitico, la poltrona di Ministro riesumando quello della Sanità… “Non mi sembra un problema che me lo debba offrire la sinistra, non capisco perché la sinistra piuttosto che la destra…”. Lo dico perché mi sembra improbabile che te lo possa offrire Berlusconi… “Lo riterrei probabile almeno quanto quello che me lo offrano i suoi attuali oppositori”. Va bene, era solo un’ipotesi. Di che cosa avrebbe bisogno la sanità italiana? “Sulla sanità la penso in modo molto semplice, la sanità dev’essere di alto livello, pubblica e gratuita. Fine”. E non è così. “Mi sembra di no. Mi sembra che la nostra sanità pubblica sia contaminata pesantemente dalla logica del privato, tanto che gli Ospedali si chiamano Aziende Ospedaliere. Poi, accanto alla contaminazione del pubblico, c’è la “La sanità? Dev’essere di alto livello, pubblica e gratuita. Quella italiana è sempre più Azienda” “Paura dell’Islam? Tipico provincialismo italiano” “Gli immigrati? Non è che vengano sui barconi cantando di gioia” presenza di un privato di solito di qualità bassissima, che si camuffa bene, che si presenta col rossetto, le camere eleganti con le televisioni e i fi ori, però medicina poca; e infi ne una sanità che comincia a non essere più gratuita totalmente per tutti i cittadini, come dovrebbe essere. E questo è preoccupante”. Era una domanda in un certo senso “politica” in quanto sei stato accusato (che poi sostanzialmente non era neppure una vera accusa) di aver avuto un ruolo appunto politico a livello internazionale, con l’episodio del sequestro e della liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo nel 2007. Insomma dicono che sei una sorta di ministero ombra che tratta direttamente con i Governi. “Intendiamoci su cosa vuol dire far politica. Se si intende la capacità di avere rapporti con i governi dei paesi dove andiamo a lavorare, è ovvio che dobbiamo averli, è un pezzo del nostro lavoro. Se per politica invece intendiamo entrare nell’arena di opposizione-governo, non solo sono totalmente fuori ma anche totalmente equidistante. Quanto all’episodio citato non so se si possa chiamare politica salvare la pelle a una persona. Poi sapevano benissimo che senza Emergency non ci sarebbe stata più alcuna possibilità…”. Emergency è italiana o internazionale? “Recentemente è stata stabilita anche negli Stati Uniti e in Inghilterra ma resta un’organizzazione italiana”. Tu hai lavorato anche per mettere al bando le mine antiuomo, costruite prevalentemente in Italia: “Si costruivano, adesso non è più consentito, l’Italia era uno dei grandi produttori mondiali. La campagna fu un grande movimento di civiltà e adesso dal 1997 sono al bando. E’ un’altra delle grandi belle cose che è riuscita a fare Emergency”. Una sorta di provocazione: voi andate nei posti dove ci sono i bisogni per dare risposte all’origine. Sembra quello che sostiene la Lega, “aiutiamoli a casa loro”. Anche se quella posizione nasce dalla paura dell’immigrazione. “La nostra paura dell’immigrazione la vedo come una stupidità. Il nostro comportamento di fronte al problema dell’immigrazione lo vedo come una forma di razzismo criminoso. Non ci sono mezzi termini per definirlo. Andare ad aiutare sul posto: io penso che le persone che vengono o tentano di venire qui, magari su un barcone che rischia o addirittura affonda, non stiano cantando di gioia mentre sono in navigazione. Penso che arrivino dei disperati e quelli che sopravvivono o che noi facciamo sopravvivere, perché a volte non ci preoccupiamo nemmeno di salvarli, sono proprio disperati. Penso che se queste persone potessero avere un lavoro, da mangiare a casa loro, sarebbero ben felici di stare a casa loro. Quindi una ragione in più per essere là”. Già, è la piccola differenza tra chi è là e chi si limita a dire che bisognerebbe esserci.

Ma chi bussa a… (e vuol comprarlo) ‘sto convento?

0

Ma chi bussa a… (e vuol comprarlo) ‘sto Convento?

Suonano le campane, vento freddo sul lago, fi ne febbraio, la barba di Padre Generoso sembra ancora più bianca, lunga che si muove sul saio marrone, il cordone svolazza, il lago d’Iseo è lì sotto, talmente azzurro da mischiarsi al cielo e sembrare una cosa sola, lì a metà ci sta il convento di Lovere, dentro un pugno di frati cappuccini, quelli rimasti, quelli che lì dentro pregano, sorridono, sperano, mangiano, soffrono e guardano il mondo. Anche i frati cappuccini devono fare i conti con la crisi delle vocazioni, come i preti, peggio dei preti, come le suore, peggio delle suore, ma loro non si scompongono, niente ‘supermercato delle vocazioni’, la fede mica s’inventa, quella dei frati ancora meno. Conventi bergamaschi Bergamo fi no a pochi anni fa contava 6 conventi, conventi di prim’ordine. Quello centrale di Bergamo, quello dell’Ospedale di Bergamo (con un suo Superiore), Bergamo Infermeria anche qui con un suo Superiore (spieghiamo più sotto cosa significa “Infermeria”), quello di Albino dove c’era anche il seminario, quello di Lovere con il noviziato e quello di Sovere, incassato in mezzo alla vallata. Adesso i conventi sono cinque ma anche quelli rimasti sono cambiati. Sovere ha chiuso, il convento è rimasto ma all’interno c’è la comunità delle Beatitudini, convento ceduto in comodato gratuito, sono rimasti i tre di Bergamo, Albino (che però ha dovuto chiudere il seminario) e Lovere. Un ridimensionamento importante ma che non scuote naturalmente i cuori dei frati rimasti: “Se abbiamo paura che l’ordine finisca? Macché, Dio a questo proposito aveva detto a San Francesco che l’ordine non sarebbe mai finito”. Il ribaltone Ma anche i frati cappuccini hanno vissuto una crisi economica e non solo di vocazioni, molto forte. Una crisi economica scoppiata qualche tempo fa e tenuta ovviamente ‘coperta’, poi qualcosa è trapelato: “Una gestione economica ‘sbagliata’ – spiega un frate che preferisce non rivelare il nome – e da lì è scoppiato il fi nimondo. Ognuno di noi consegna i soldi al Padre Superiore, ma poi c’è un economo provinciale che gestisce tutto e qualche tempo fa, non si è capito esattamente cosa è successo, abbiamo perso tutti i soldi. Si parla di investimenti sbagliati e di altri fondo spariti. Alla fi ne quando si è scoperto quello che stava succedendo c’è stato un ribaltone, vertici cambiati, i due considerati responsabili, l’ ‘economo’ e il ‘provinciale’ sono stati più volte messi alle strette dai nostri vertici maggiori e poi ‘puniti’”. Punizione che vuol dire trasferimento: “Poi purtroppo uno di loro è stato male ma la situazione non è migliorata, nessuno ha più saputo esattamente che fi ne hanno fatto i fondi e a ricominciare da capo a raccogliere i fondi per riuscire a mandare avanti l’ordine. Certo, anche l’ordine è fatto di uomini e tutto può succedere”. La notizia però, a differenza che in qualsiasi altro settore, non è trapelata, l’ordine ha fatto da scudo e provato a risolvere la vicenda al proprio interno: “I conti sono ancora in rosso ma si spera di recuperare”. Vendesi Conventi Intanto mentre si aspetta drecuperare qualche soldo, i conventi si stanno svuotando, non per la crisi economica ma per la crisi delle vocazioni. E così si vende, conventi in vendita. In Lombardia stanno per essere messi in vendita il convento di Sondrio, uno dei più antichi, quello di Lenno, uno dei più belli d’Italia sul lago di Como, sul quale sembra abbiano buttato l’occhio le solite star americane che frequentano le sponde vip del lago di Como. Convento con un’abbazia considerata fra le più belle d’Italia. “Ma non potranno snaturarla – continua il nostro addetto ai lavori – chi l’acquista sarà comunque soggetto al vincolo delle Belle Arti, non si potrà intervenire per stravolgere la struttura”. Sovere all’asta Struttura salvaguardata ma inevitabilmente venduta. Sorte che potrebbe toccare presto anche al convento di Sovere, attualmente ‘affi ttato’ alla Comunità delle Beatitudini in comodato gratuito dopo che i frati avevano ‘abbandonato’ il convento qualche anno fa. La vendita dipende da come e se si risolleveranno le casse dei frati cappuccini nei prossimi anni, convento che ‘paga’ la troppa vicinanza (5 chilometri) dal convento di Lovere che è anche sede di noviziato. Anche a Lovere si fanno i conti con la crisi delle vocazioni, novizi in vertiginosa diminuzione. Chi invece è stato costretto a chiudere il seminario è il convento di Albino, vocazioni in fuga e a rimanere aperto il convento che rimane comunque uno dei conventi di riferimento della Lombardia. Resiste Bergamo che ha un convento ma anche un’infermeria con tanto di Padre Superiore, nell’infermeria vivono i frati che per ragioni anagrafi che o di salute non possono più stare nei conventi cosiddetti ‘normali’. I frati non rientrano mai a casa a vivere come invece succede ai preti ‘in pensione’, rimangono in fraternità fi no alla fi ne. Professioni Una vocazione che imbocca strade lunghe, si comincia con un anno da ‘postulante’ (non c’è l’abito) si prova a fare la vita da frate, si sta a casa ma c’è un convento di riferimento poi tocca al noviziato (si indossa l’abito), per la nostra “provincia” (che coincide per i Cappuccini con la Regione Lombardia, tranne le province di Pavia e di Mantova) si va a Lovere, un anno (minimo) vissuto assieme ai frati a fare la vita da frati e a seguire lezioni per un’infarinatura generale. A fi ne anno la cosiddetta ‘professione semplice’ per chi decide che la fede può essere la strada giusta, quindi due anni di studi filosofi ci nel convento di Cremona, poi un anno chiamato di ‘missione’ sul campo, chi negli ospedali, chi nei conventi, chi negli oratori. Alla fi ne dell’anno chi sceglie la strada di ‘frate’ fa la professione solenne, ‘frati’ che non sono ‘padri’ e non possono quindi ‘fare messa’. “Una scelta fatta da molti – spiega il nostro frate – non perché non hanno la capacità di far messa ma una scelta di umiltà estrema, rimanere semplici frati pronti a servire gli altri”. Per chi invece prosegue ci sono gli ultimi quattro anni a Milano, al termine si diventa Padri Cappuccini. Una strada lunga, si studia un anno più dei preti. Chiusi 33 conventi Una strada che è praticata sempre meno. Il crollo degli ultimi anni è vertiginoso. Ai tempi del Concilio Vaticano II (negli anni Sessanta) in Italia c’erano più di 5.500 frati Cappuccini. Nel 1997 erano 2.871. L’ultimo censimento, nel 2007, ha contato 2.466 frati. E così le antiche celle, i chiostri, gli orti e i giardini rischiano di essere trasformati in hotel, appartamenti, bed and breakfast e agriturismi. In cinque anni sono stati chiusi ben 33 conventi. Qualche esempio raccolto da ‘Repubblica’: a Parma è stato chiuso quello di Borgo Santa Caterina, con affreschi del Guercino. La chiesa è stata donata alla diocesi e parte dell’edificio  è stato venduto ai privati. A Lugnano di Teverina il convento cappuccino del 1579 è diventato una Casa per ferie, ‘luogo ideale anche per banchetti e ricevimenti’. E l’antica chiesa è a disposizione per la ‘meditazione personale e per i momenti di preghiera’. La chiesa del Convento ai Cappuccini di Cologne in Franciacorta, già dal 1990, è diventata una sala speciale per convegni e banchetti dell’omonimo hotel e centro benessere. Costruito nel 1569 il convento era chiamato ‘una poesia scandita nella pietra’. Quattro stelle, camera doppia da 160 a 280 euro a notte. Nell’hotel San Paolo al Convento di Trani, sull’altare della cappella affrescata, trovi le mozzarelle e le brioches della prima colazione. I conventi chiudono ma i frati che rimangono in giro per l’Italia tengono duro, non hanno ‘stipendi’ come i loro cugini preti, non beneficiano dell’8 per mille, niente di niente, vivono esclusivamente della ‘carità del popolo’. Loro non battono ciglio, sorriso stampato in faccia, barba e saio che svolazza dappertutto, ‘pace e bene’ comunque e sempre, parola di San Francesco.

amare Dio, amare l’uomo

0
giorgio fornoni libro

“L’unico modo per amare Dio è amare l’uomo”

Giorgio Fornoni a Udine ci è arrivato come sempre e come al solito con la sua voglia di conoscere, capire, provare a vedere.

Lui che la testa la mette assieme al cuore dentro a ogni inchiesta che fa, in ogni posto che va, così è stato anche sabato 31 gennaio quando è arrivato a Udine per il premio Nonino 2009, assegnato quest’anno alla scrittrice Chimanda Ngozi Adichie, allo storico inglese Hugh Thomas, all’economista, sociologa e documentarista Silvia Perez-Vitoria e ai malgari della Carnia.

Giorgio era là per Chimanda, premiata per aver scritto e ricordato “gli orrori di una guerra africana che si è combattuta prima della sua nascita”, pagine “intrise di pietas domestica e d’amore per la sua terra”, la terra africana è la Nigeria dove in questo periodo Giorgio sta realizzando un’inchiesta che approderà fra poco a Report.

Quel giorno Giorgio incontra Ermanno Olmi, anche lui a Udine: “Ci siamo piaciuti subito – racconta Giorgio – ognuno conosceva già il lavoro dell’altro ma non ci eravamo mai incontrati.

C’è un filo che ci unisce da sempre, tutti e due denunciamo le sofferenze dell’uomo, abbiamo cominciato a parlare, poi si è fatto accompagnare da me in auto in un posto in mezzo alla campagna, un giro lungo, ed è nata una chiacchierata che è diventata più di un’intervista, un impegno da portare avanti, da provare a concretizzare”.

Da un anno Olmi ha mollato la regia e ha scelto la strada del documentarista: “Mi ha detto ‘dobbiamo fare qualcosa assieme, Report va bene ma è un programma di nicchia, i nostri li abbiamo già convertiti, dobbiamo fare altro, provare spazi diversi’.

Sì, dobbiamo reinnamorarci della vita per dare valore alla vita”. Giorgio Fornoni ed Ermanno Olmi, qui sotto la chiacchierata-intervista.

GIORGIO FORNONI Chi è il monaco, chi è l’eremita e… cosa cercano? “Io credo che ci sono molti modi di scegliere di vivere, queste persone hanno scelto, come dire una sorta di contemplazione interiore, in qualche modo poi aiutata, sostenuta dalla contemplazione che hanno davanti al loro sguardo.

Non per niente questi eremiti e questi monaci creano intorno a loro quelle condizioni per essere appunto in una situazione contemplativa, la contemplazione che cos’è se non il nostro dialogo col mondo davanti al nostro sguardo, possibilmente il più bello possibile e la nostra interiorità?”.

L’amore verso l’uomo secondo lei può essere uguale all’amore verso Dio? “No, no, io privilegio l’amore verso l’uomo e credo sia l’unico modo, se uno crede alla trascendenza, l’unico modo per amare Dio”. Lei in una conferenza a cui avevo assistito aveva detto: “Il mondo sta andando sempre più basso in un imbuto, diventa sempre più brutto e dobbiamo riinnamorarci”.

“Diciamo che il 7′ bello e il brutto dipende spesso dal nostro stato d’animo, allora, per ottenere una buona disposizione a uno sguardo favorevole alla vita, cosa c’è di meglio se non l’innamorarsi?

Io ricordo da ragazzo quando spessissimo ci si innamorava, ecco, quella condizione era una condizione di felicità, questa felicità poi non rimaneva soltanto nell’ambito di quel sentimento specifico rivolto a quella persona particolare ma era una felicità generale.

Quando si è innamorati tutto è bello e quindi anche il meno bello lo facciamo diventare bello. Credo che, al di sopra di una soglia di indegnità del vivere, quindi la violenza l’egoismo ecc, al di sopra di questa soglia che non si può assolutamente superare, nel baratro del fallimento umano, ecco, tutto può diventare bello o quanto meno il brutto meno brutto, quando si è innamorati”.

Come potrà l’uomo combattere il potere? Il debole sarà sempre più debole e il forte sempre più forte. Che speranza ha l’uomo “debole”? “Il potere può molto, proprio perché è ‘potere’, ma l’uomo ha un potere superiore, la capacità di rendersi libero dentro se stesso, se uno è libero dentro se stesso il potere non potrà mai varcare la soglia di questa libertà e, anche nel silenzio di tutte le censure possibili, la libertà che è nella mente e nell’animo di un uomo supera queste barriere”.

Sto facendo un video sui Gulag. Perché secondo lei si parla sempre e solo di Nazismo e non si denuncia anche il periodo buio dello Stalinismo? “Nazismo e lo Stalinismo? Ma non è vero, non è vero, che parliamo solo di una delle due fazioni: noi giustamente parliamo spesso quando gli orizzonti si annuvolano e sentiamo delle inquietudini, allora si torna a parlare spesso, e bisogna farlo, di ciò che fu il Nazismo.

Nella nostra area in particolare il Nazismo con il Fascismo hanno creato situazioni per le quali abbiamo dovuto pagare un prezzo molto alto. Ma al di là di questa nostra realtà italiana, oltre il confi ne di quello che era la divisione est/ ovest, là si parlava tanto di Stalinismo, perché l’avevano sulla loro pelle.

Quindi noi tendiamo a parlarne di più rispetto allo Stalinismo, ma la cosa importante è considerare un altro aspetto, a mio avviso, l’aspetto del non dimenticare, vale a dire che si parli di Stalinismo o si parli di Nazismo l’importante è che se ne parli come di una cosa che ci riguarda tutti i giorni che noi viviamo, perché il pericolo è la dimenticanza con la lontananza nel tempo, oggi chi si preoccupa più della strage degli innocenti di Re Erode?

Nessuno si preoccupa più, eppure c’è stata… ancora oggi centinaia, migliaia, milioni di bambini vengono sacrificati.

Bene, cosa dobbiamo fare noi di fronte a questi esempi recenti? Mantenere viva la memoria ma non solo del presente, la memoria di una storia di umanità costellata da delitti criminali, che fanno scadere l’umanità a un livello davvero di quell’indegnità di cui parlavo prima.

Allora non polemizziamo, è stato peggio il Nazismo o peggio lo Stalinismo… facciamo in modo che Stalinismo e Nazismo vengano considerati il peggio e quindi non è nel confrontare i mali ma nel distinguere i mali dal modo, come dire?, più civile, più umano, più fraterno di vivere la società”.

Lei ha detto “E’ meglio bere un caffé con un amico che leggere 100 libri”…

“Un libro può darci grandi, enormi soddisfazioni, si dice anche che un libro è un buon amico quando è un buon libro, ma bere un caffé con un amico vale molto di più di un libro, questo non vuol dire che dobbiamo bere 30 caffé al giorno e non guardare nemmeno un libro.

il libro è lì, aspetta che noi lo prendiamo tra le mani e iniziamo questo rapporto di confidenza tra noi e il libro, l’amico no, l’amico lo cogli in quel momento, poi può essere che un momento dopo non lo puoi più vedere, allora se bussano alla mia porta un libraio e un amico, io apro prima all’amico, perché appunto il libro è una sorta di amico che ho sempre lì a disposizione.

‘Val più un caffé con un amico che tutti i libri del mondo’ perché? Da un libro posso sentire il desiderio suscitato dalla lettura di amare il mondo che è intorno a me, ma se io ho la possibilità di amare subito il mondo che è intorno a me e mostrarlo attraverso una stretta di mano un bacio una carezza una parola, questo è già l’esito tangibile, materializzato di un sentimento letto nel libro perché quel sentimento diventa realtà”.

Lei ha tirato in causa il Signore, ha tirato in causa il Signore dicendo: “Dovrà anche lui rendercene conto!! Mi pare abbia detto questa frase”. “Si. Dio, non il Signore, Dio perché sia davvero Dio tace.

In questo silenzio di Dio c’è il bene e il male, c’è la giustizia e l’ingiustizia perché Dio fa soffrire alcune persone altri invece possono godere di tutto, perché Dio ad esempio fa delle creature bellissime e altre invece un impasto mal riuscito della creazione, allora questo mistero Dio è bene e male insieme.

Allora io chiamo in causa quel Dio che verrà a giudicare noi e mi deve dare la possibilità di essere giudicato, cosi come fece Giobbe, e come rispose Dio a Giobbe guarda il creato e vedi cosa c’è di buono e meno buono.

A questo punto io mi sento di lodare il Dio del bene ma condanno il Dio della sofferenza, perché gli innocenti debbono pagare?

Si dice è il disegno di Dio, non accetto questa risposta poiché gli uomini che si riferiscono a Dio possono fare il bene o il male, questi uomini hanno scelto spesso di fare il male invocando il nome di Dio. Allora vuol dire che c’è un Dio del male?

Se questi uomini invocano la morte del nemico la morte dell’innocente calpestano gli umili quindi condanno questo Dio”.