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Buelli fa a pezzi il programma di Freri

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Spett.le Radazione di Araberara. Giovedì 12 Giugno si è tenuto il primo Consiglio Comunale della nuova amministrazione guidata dal Sindaco Renato Freri, seduta che ha visto finalmente la partecipazione di un numeroso pubblico. Dopo il giuramento del nuovo Sindaco, il Segretario Comunale ha illustrato i vari punti all’Ordine del Giorno per l’approvazione delle procedure previste dalla legge e, giunti al 3° punto, relativo all’esame e alla discussione delle linee programmatiche della nuova amministrazione, il Consigliere di minoranza Mirco Zambetti, dopo gli auguri di buon lavoro a tutti i consiglieri, ha letto la sua dichiarazione di voto, concentrando il suo intervento sulla ormai più volte dibattuta “questione Roncaglia”. Riporto testualmente il testo che è stato allegato alla delibera consiliare. “Questione Roncaglia. Sul vostro programma è comparsa una frase piuttosto sibillina: ‘Dopo la Roncaglia siamo convinti che sia giunto il momento storico di interrompere il processo perverso di svendere il territorio per ripianare i bilanci comunali’. Da questo assunto emerge con tutta evidenza l’intenzione di non procedere ad alcuna azione volta a cancellare dal Piano di Governo del Territorio l’AT1 denominato ‘Roncaglia’. Tutti voi Consiglieri di maggioranza e il vostro Sindaco avete firmato la petizione delle 500 firme ‘NO ALLA RONCAGLIA’ e vi siete attivati personalmente per la loro raccolta. Ora avete il dovere morale e politico di dare risposte concrete a tutti quei cittadini che hanno creduto in voi e hanno espresso il loro sostegno alle votazioni comunali, attivandovi da subito per cancellare dal PGT questo Piano Attuativo, così come più e più volte avete affermato di voler procedere in numerosi articoli sulla stampa e nei vari Consigli Comunali della passata legislatura. Sarebbe troppo comodo utilizzare gli introiti degli oneri qualitativi e di urbanizzazione (circa 800.000 euro) previsti per questo intervento per gli investimenti programmati e lasciare sulle nostre spalle la responsabilità di questa scelta urbanistica. Noi in questo progetto abbiamo creduto e ancora crediamo; l’abbiamo trasformato da semplice iniziativa residenziale (5.500 mc), che ricordo essere contenuta in quel famoso documento di inquadramento approvato dall’allora Consiglio Comunale, con il voto favorevole anche del sig, Freri Renato, nostro attuale Sindaco. La nostra amministrazione ha arricchito questo progetto con la previsione di una struttura sportiva pubblica del kayak, che avrebbe attirato nel nostro Comune tanta gente appassionata di questo sport anche a livello regionale, creando posti di lavoro e utilizzando queste importanti risorse per diminuire le tasse ed i costi dei servizi a tutti i cittadini di Ranzanico. Ora la parola passa a voi e attendo una risposta concreta”.

Dopo la lettura della dichiarazione del consigliere Zambetti e di fronte alla domanda: ‘farete o no la Roncaglia?’, il Sindaco Renato Freri non ha risposto, ha affermato di non aver mai sottoscritto la petizione, ‘dimenticandosi’ però che non solo l’ha firmata, ma ha personalmente raccolto le firme e l’ha anche presentata personalmente al protocollo comunale e quindi non si può certamente sottrarre dal mantenere le promesse fatte e comunque dare quella risposta che quella sera non ha saputo o voluto dare durante il Consiglio Comunale. E’ quindi evidente che all’interno del suo gruppo esistono molto probabilmente visioni diverse e non unanimi su questa scottante questione.

Questa risposta alla fine la dovrà dare, non tanto alla nostra futura interpellanza consiliare, ma soprattutto a tutti quei cittadini che hanno sottoscritto la petizione, ai quali ha chiesto, ottenendolo, il consenso elettorale e ai quali ha fatto delle promesse: NO ALLA RONCAGLIA! Durante il mio intervento, anch’esso allegato alla delibera consiliare, ho più volte sottolineato come la maggior parte dei punti previsti nel programma elettorale del nostro nuovo Sindaco siano in realtà già stati portati a termine dalla mia amministrazione, come ad esempio il trasporto scolastico gratuito, il doposcuola gratuito, il considerare prima casa l’appartamento dato in comodato d’uso gratuito ai figli o ai genitori … e proprio su quest’ultimo punto, il nostro Sindaco si è “dimenticato” che nel Consiglio Comunale del 23 Aprile scorso questa agevolazione era già stata inserita nelle norme dei Regolamenti TASI, TARI, IMU, approvati nonostante il voto contrario dello stesso Sindaco, dei consiglieri di minoranza Fabio Farinotti e Maria Giovanna Sangalli; prova ne è che il giorno successivo tutti i cittadini che si trovavano in questa situazione hanno ricevuto la comunicazione per il ritiro del modulo di agevolazione.

Quindi, prima vota contro, poi lo inserisce nel suo programma elettorale come uno dei punti di forza. Mah!

Per quanto riguarda poi gli investimenti programmati, anche in questo settore tante opere sono già state fatte da noi e molte altre non si potranno realizzare per i vincoli del patto di stabilità e per i divieti delle varie leggi di settore, come ad esempio la barriera a fine lago sul Cherio nei Comuni di Spinone e Monasterolo, che il Sindaco, messo alle strette in merito agli obiettivi che si volevano raggiungere con quest’opera, ha invitato il Segretario Comunale a depennarla dal programma elettorale. A tutte queste e anche ad altre domande da me poste durante il Consiglio Comunale, nessuno, dico nessuno, ha dato una risposta, tranne il Sindaco che ha risposto … di aver cinque anni di tempo per rispondere …

I vari difensori del verde credo proprio che avranno materiale sufficiente su cui riflettere.

Il tempo giudicherà nei fatti se avremo avuto ragione, speriamo prima che trascorrano cinque anni!

Sergio Buelli

Consigliere di minoranza “Continuità e Rinnovamento”

la scommessa del calcio bergamasco

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tutta Italia ha patteggiato 4 mesi di squalifica. E anche Mirko Poloni è di Trescore, cresciuto nel vivaio dell’Atalanta, e che ha giocato per tutti e tre i club orobici ha patteggiato due volte per il filone di Cremona e ha totalizzato 18 mesi di squalifica. Paolo Acerbis, portiere, per 8 anni all’Albinoleffe ha patteggiato due anni e sei mesi. Tomas Locatelli, Atalanta, due anni di squalifica Ruben Garlini, cresciuto nell’Atalanta, giocatore di Alzano e Albinoleffe ha preso 3 anni di squalifica. E nel secondo processo ha patteggiato 9 mesi Matteo Gritti, un anno all’Alzano e uno all’Albinoleffe, non era tesserato all’epoca e quindi non ha preso sospensioni ma a fine maggio 2012 è finito in carcere per 7 giorni più altri 8 ai domiciliari. Cristiano Doni, ex capitano dell’Atalanta, ex cuore della tifoseria, insomma, ex tutto, si è beccato 3 anni e mezzo grazie allo sconto in secondo grado Carlo Gervasoni, difensore Albinoleffe, 5 anni di squalifica E poi c’è la tempesta Albinoleffe nella vicenda delle inchieste Cremona-bis, dove l’Albinoleffe piazza il record di 12 coinvolti, unica squadra italiana. Patteggiarono: Joelson, Acerbis, Gervasoni, Kewullay Conteh, Francesco Ruopolo, Antonio Narciso, Dario Passoni e Marco Cellini mentre sono stati condannati Davide Caremi, Mattia Serafini, Roberto Colacone e Vincenzo Jacopino. Per l’Atalanta patteggiarono: Joelson, Doni, Conteh, Ruopolo, mentre Riccardo Fissore viene squalificato per 3 anni e 9 mesi, ridotti dal Tnas a 14 mesi. Nel terzo filone di indagini tocca agli ex atalantini Ferdinando Coppola, 4 mesi di stop, Andrea Masiello, patteggiò 26 mesi, e il tecnico Antonio Conte, 2 mesi di squalifica. Sia per l’Atalanta che per l’Albinoleffe vengono coinvolti Luigi Sala e Davide Bombardini. Il filone inchiesta di Napoli coinvolge altri tre bergamaschi, Passoni che ha patteggiato Il capo della cupola con base a Singapore avrebbe ottenuto ‘il controllo finanziario dell’intera società calcistica Albinoleffe’. Insomma, oltre al tessile, in Cina… si è trasferito anche il calcio seriano 33 GIOCATORI COINVOLTI NELLO SCANDALO SCOMMESSE

Bergamo non sarà capitale della Cultura 2019 ma se non altro è capitale del calcio scommesse 2013. Si è chiuso con un primato non proprio di quelli da fregiarsi e sfregarsi le mani il 2013 bergamasco. Che ha sancito numeri da guinness dei primati per la pedata orobica. Ammontano a 33 gli ex calciatori e allenatori di Atalanta, Albino Leffe e Alzano coinvolti dal 2011 ad oggi nelle indagini sul calcio scommesse. E fatte le debite proporzioni sui numeri degli abitanti di città e provincia l’indice è altissimo, troppo alto. Le austere e silenziosa mura di Città Alta incassano (non i soldi delle scommesse) ma il brusio di voci che circolano tra quartieri e vicoli, senza alzare mai troppo la voce, che i bergamaschi abbassano la ‘crapa’ e lavorano sodo. Un po’ come i calciatori, che nel pieno solco orobico facevano… la doppia giornata, in campo a sudare a caldo e in ricevitoria a sudare …a freddo. Ecco la lista dei 33:

Thomas Manfredini (che però ne è uscito pulito, nel 2011 condannato in primo grado a 3 anni e prosciolto in appello)

Achille Coser (cresciuto nell’Albinoleffe per cui ha giocato) Nicola Ventola, Atalanta (colpevole in primo e secondo grado, oltre tre anni, per essere riabilitato dal Tnas)

Nicola Ferrari, ex Albinoleffe (colpevoli in primo e secondo grado, oltre tre anni, per essere riabilito dal Tnas) Questi sopra sono quelli che ne sono usciti più o meno puliti. Ed ecco l’elenco degli altri 29, nove tesserati per l’Atalanta, nove per l’Albinoleffe, nove per entrambe le squadre,

 Silvio Giusti per l’Alzano (nel 2001) e Giuseppe Signori per il Leffe. Signori che detiene anche il poco onorevole record, di 5 anni di squalifica, la condanna più lunga per un bergamasco.

 Filippo Carobbio, cresciuto nell’Atalanta, poi all’Alzano e all’Albinoleffe ha chiesto e ottenuto ben tre patteggiamenti per un totale di 26 mesi di squalifica. Carobbio il grande pentito della valle Seriana, sino a qualche anno fa valle dell’oro non solo nel tessile, ma anche nel calcio, con Albinoleffe e Alzano a farla da padrone e a succhiare leadership alle grandi città del nord. Adesso la fine. Carobbio ha avuto l’onere e l’onore (?) di tirare in ballo per primo nientemeno che Antonio Conte (pure lui con un breve passato, ma da allenatore, nell’Atalanta e poi anche a Siena) per il pastrocchio Albinoleffe-Siena. Carobbio che sta scontando una squalifica sino al 31 luglio 2014. Ma c’è un’altra valle che è terra fertile per il calcio scommesse, la Val Cavallina, Bortolo Mutti, di Trescore, allenatore conosciuto in, Silvio Giusti condannato a 3 anni e 9 mesi e l’allenatore Andrea Agostinelli che ha preso un mese di stop. Il filone di Bari invece coinvolge con un nuovo patteggiamento Masiello e poi tocca a Corrado Colombo, cresciuto nell’Atalanta, che si becca 3 mesi di squalifica. E l’ultimo filone, quello delle scorse settimane coinvolge l’attaccante Davide Bombardini e Nicola Mingazzini, prima Atalanta e poi Albinoleffe. Bergamo ne esce con le ossa rotte. Ma se ne parla di malavoglia, qui si abbassa ‘la crapa’ e si va avanti, dove non si sa, il calcio annaspa e non solo l’Atalanta. Che finisce sotto i riflettori nazionali e oltre confine non per i risultati calcistici che ormai si sono livellati sul fronte medio-basso ma per quelle scommesse che portano o dovrebbero portare il binomio ‘adrenalina-soldi’. Secondo Repubblica che ha dedicato alla Bergamo delle scommesse una pagina allo stadio Kennedy di Albino i giocatori vendevano agli scommettitori asiatici anche le amichevoli. Secondo le testimonianze del maneggione singaporiano Wilson Ray Perumal, arrestato in Finlandia per incontri di calcio manipolati Eng Tan Seet, detto ‘Dan’ il capo della cupola con base a Singapore avrebbe ottenuto ‘il controllo finanziario, seppure in modo occulto, dell’intera società calcistica Albinoleffe”. Insomma, oltre al tessile, in Cina si è trasferito anche il calcio seriano.

 

VAL DI SCALVE – E si fece buio su tutta la valle

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E si fece buio su tutta la valle

Un primo dicembre nebbioso, piovoso, di 90 anni fa. Era fnita da poco la messa nella chiesa di Bueggio. Le donne erano tornate a casa e stavano facendo bollire sulla stufa un pentolino di latte per la colazione dei ragazzi che dovevano andare a scuola. Erano passate da poco le sette del mattino e dai camini delle case usciva il fumo buono del caldo consolante delle cucine con quegli odori di una volta, un misto di latte che bolle, formaggi che si lasciavano andare nelle moscaröle e panni stesi sopra la stufa, gli uomini che prendevano su la loro sacca del lavoro con la schisceta dove c’era il pane e qualcosa da mandargli dietro, una bottiglietta di vino lungo. I ragazzi cercavano qua e là libri e quaderni per preparare la cartella, rumori, poche parole, un saluto frettoloso, usci che sbattono.

E si fece buio su tutta la valle

IL VENTO FRADICIO Ma perché d’improvviso sbattono anche le ante delle fnestre? C’è un vento sconosciuto, innaturale per un dicembre appena spruzzato di neve qualche giorno prima. Piove sul mondo, su quel piccolo mondo antico che ha appena sentito la campana. Sul campanile c’è un uomo: aggiusta tetti per campare, l’altezza non gli mette le vertigini. Ha avuto i suoi amori e i suoi dolori ma a 38 anni ha una famiglia, dei fgli. C’era un amore lontano, una ragazza e per lei andava spesso giù nel bosco a raccogliere patüss, foglie secche per fare strame nelle stalle dove le bestie ruminano pacifche, con l’agitarsi inquieto, lì vicino, del maiale, il salvadanaio della famiglia e il muoversi circospetto delle galline. Quell’uomo alla sua ragazza di allora faceva fare un fgurone, l’unica che riuscisse a raccogliere tanti sacchi di foglie secche, un record. E nessuno in casa capiva come facesse. Lo sapeva lui come faceva, che lavoravano in due e pensavano al giorno in cui si sarebbero messi per conto loro. Era stato il suo primo amore e certi giorni i primi amori ti tornano in mente all’improvviso. Lui aveva avuto tutto il tempo di innamorarsi di un’altra ragazza, bellissima, di un altro paese, di Colere e avevano dei fgli che venivano su bene, adesso che lui aveva 38 anni ed era lì sul campanile a caricare l’orologio che segna il tempo che passa e già si prepara a contare il tempo che verrà. Dall’alto di quel campanile sente il vento, quel vento fradicio di giorni che non ha mai vissuto e che non vivrà mai più. E alza la testa a guardare su nella valle dove nella nebbia si dovrebbe vedere la grande muraglia della diga.

IL CAMPANARO DI BUEGGIO Una diga non fa vento, questo lo sanno tutti. Lui fa il campanaro e il parroco lo conosce bene, ha discusso con lui giorni interi. Quella diga sta lì sopra la testa, l’hanno costruita come in paese tutti sanno e però nessuno dice, perlomeno non ad alta voce, una diga nata male e cresciuta peggio, con ruberie di ogni genere. Il prete lo ha rassicurato e poi dal pulpito ha rassicurato tutti, quella è opera dell’ingegno dell’uomo benedetto da Dio, guardatela là in alto, sembra abbia le braccia aperte e par che dica, vi proteggo io. Da cosa, da chi? Ma dalla miseria, dalla fame, da tutto e da tutti. La gente ha ascoltato l’omelia, allora mica si poteva dire quello che si pensava, il parroco di un paese era Dio in terra, quello che diceva doveva essere presa per parola di Dio. Ma quello che diceva quella domenica alla messa grande non andava bene, perché quella muraglia con gli archi aveva nella pancia un lago da far spavento e l’acqua usciva dai muri con getti lunghi, innaturali, nelle fessure che non dovevano esserci in una diga, e sparavano l’acqua gelata a decine di metri. L’uomo è ingegnoso ma è anche avido, il prete si dimenticava dei peccato che gli raccontavano nel confessionale, siamo tutti peccatori e fgurarsi se gli ingegneri, i capomastri erano stati concepiti senza peccato. GLI USCI SBARRATI Il prete era in chiesa quella mattina, a recitare il ringraziamento, dopo la Messa, adesso che era restata una vecchietta sul fondo della chiesa, ma se ne sarebbe andata anche lei, tra poco, anche se a casa non aveva più nessuno che l’aspettava e per questo stava ancora lì: quando a casa non ti aspettano, non ti resta che aspettare a tua volta che fnisca, e dopo c’è solo da sperare che non siano tutte balle, che ci sia un paradiso o se va male un purgatorio che nemmeno ci si vuole pensare alla terza alternativa, dopo tutto quello che si è passato. Anche il prete sente sbattere forte i vetri dei fnestroni della chiesa, in alto, sopra il cornicione. Guarda in su, caso mai Dio volesse dargli un segno particolare, in codice, da decifrare, qualcosa che deve fare e alla svelta, per la salvezza delle anime che gli sono state affdate e dei corpi che le contengono. Le ante delle fnestre sbattono, volano via le lastre di ardesia, gli usci emettono scricchiolii, nemmeno ci fossero spiriti che vogliono entrare, fuori si sentono rumori, cose che volano via per sempre, attrezzi, secchi, vasi, pezzi di legna, carriole, stracci. Dalla stalla arrivano grugniti, muggiti, belati e l’abbaiare disperato del cane legato alla catena, che tira e tira che sembra voglia strozzarsi per conto proprio. Gli uomini e i vecchi spingono l’uscio per andare a vedere, l’uscio sembra inchiodato allo stipite del vento. L’AGONIA DEL PAESE Ma il primo a sentire il vento della morte e a vedere il fumo della disgrazia fu quell’uomo sul campanile. La valle del Gleno è prima di una nuvola nera come la pece e sotto gli alberi si piegano come fli d’erba, si spianano a terra come per un furioso inchino verso la valle, come se volessero mettere un tappeto al passaggio di un Dio. Un Dio di vendetta, da antico testamento, che manda il diluvio, sulla terra, per azzerare tutto e cominciare tutto da capo, un’altra volta. Un ragazzo esce dalla cucina, come fanno i ragazzi che non fanno calcoli, hanno tutta la vita davanti e non sembra ci sia forza al mondo capace di fermarli. Guarda su e vede arrivare qualcosa di informe, un mostro di acqua, fumo e vento che sta per precipitargli addosso, sta per cancellare il paese. Passa di corsa un uomo. Il ragazzo lo guarda: un uomo che corre fa ridere, i vecchi (perché per i ragazzi gli uomini sono tutti vecchi) non devono correre. Quello gli grida di scappare che sta venendo giù la diga. Il ragazzo ci mette un momento a capire, come fa una diga a venir giù, quel vecchio che corre deve essere matto. Poi lo riconosce. E’ lo zio. Il ragazzo grida qualcosa ma la sua voce si perde nel vento che adesso fa rumore facendo suonare tutte le imposte, le tegole, i camini, gli usci, gli animali, gli uomini del paese, un paese che si lamenta in un coro d’agonia prima di morire. Il ragazzo adesso ha capito che sta per arrivare la fne del mondo, del suo piccolo mondo giovane e già antico: corre dentro, l’uscio spalancandosi sbatte contro il muro, la mamma lo guarda e gli occhi cambiano espressione, capisce senza sentire, va verso la cuna che sta li vicino al caldo della stufa, prende in braccio l’altro bambino, fanno per uscire, ma la porta si è richiusa sbattendo di nuovo, non si muove, non si apre più. Scappano su per le scale di legno, verso il solaio.

IL CAMPANILE CHE CAMMINA Quell’uomo in cima al campanile vede, dietro al vento, arrivare un’ondata tumultuosa di acqua marrone, fango, alberi, roccia, pezzi di ferro e cemento. Resta lì affascinato e atterrito. Il diluvio passa sopra le prime case, arriva alla chiesa che si è già spaccata in due come un guscio di noce. Il campanile cammina sotto i suoi piedi, dritto, va avanti verso il burrone della valle. E lui là in alto che vede il mondo, il suo piccolo mondo, i suoi amori e i suoi dolori, la sua vita, persi. Per sempre. Crolla tutto, anche il campanile, dopo aver camminato impettito per una cinquantina di metri. E’ la fne. Si troverà solo un frammento di campana. La gente cerca di uscire dalle trappole che sono diventate le case. La fumana è passata in un attimo, allargandosi sui prati, scavando, spaccando e trascinando tutto, case e bestie, uomini e bambini. E’ già passata, il diluvio è passato. Chi è sopravvissuto ha gli occhi sbarrati, di chi ha visto in pochi secondi il principio e la fne, l’alfa e l’omega. Non si esce dalle case, il fango è alto due metri contro gli usci. Grida e richiami, ci si conta e manca qualcuno. Nomi che risuonano nella desolazione, che non hanno risposta. Dai paesi alti sulla valle la gente ha visto i vetri delle fnestre andare in frantumi. Ha pensato a qualche ragazzata ed è uscita in tempo per vedere un banco di nebbia scura con il fragore alto di una montagna che frana, come su una balconata naturale, sui poggi, a guardare giù il disastro. Lo chiamano così, da subito. Ed è un epitaffo per le centinaia di morti.

LA NEBBIA PRENDE FUOCO Una colonna di fuoco. La nebbia che prende fuoco, gli alberi che volano come uccelli, il mondo alla rovescia. L’antico testamento rievocato dalle prediche dure dei preti si è materializzato, ecco, l’inferno sarà così, acqua melmosa e famme alte che cercano di incendiare il cielo. Sono le centrali che esplodono. Quel miracolo della luce dei busitì dol Viganò, quelle lampadine che si accendono con un giro di manopola, senza olio, senza carburo, era contronatura e Dio si è vendicato. Prima che arrivi l’ondata i boschi si spianano arrendendosi al cataclisma. C’è gente che già fruga nel fango. I bambini sono i primi a riprendersi: trovano le canne dell’organo della chiesa luccicanti nel grigio del mare in tempesta. Se le portano dietro come bottino di una guerra mai dichiarata. Il prete verrà trovato nella palude di fango che era stata prato. Uno che passa frugando disperato cercando i suoi, vede spuntare qualcosa che sembra carne di animale: scava con le mani nella melma molle e lo tira fuori, che non si capiva chi era e cos’era, carne nuda insultata, la mente annichilita dalla pubblica sconfessione, di quel Dio che soleva dire che non era obbligato a pagare tutti i sabati. Dio quel giorno ha pagato di sabato.

IL VIGANÒ A VILMINORE Il Viganò, il proprietario della diga, è a Vilminore, nella sua villa all’ingresso del paese. La Marina sta spazzando vicino all’orto quando sente un rumore e grida qualcosa alla sorella Catì, senti la valle. I vestiti si fanno fradici, come piovesse a dirotto, pensano si sia rotto il canale di S. Maria, che viene già dalla diga. In quel momento esce sul cortile il Viganò e tutti vanno a guardare giù la valle. C’è una montagna nera che avanza, le piante si spianano. Poi un bagliore, come un fulmine nella buio della valle, brucia la centrale di Valbona. Il Viganò si è allungato per terra e batte disperato la testa sui sassi. Gridano e piangono tutti. Sapevano tutti che quando il Viganò partiva col suo mulo per salire alla diga, c’era un impiegato di Milano che telefonava agli impiegati e “così coprivano gli imbrogli, perché il cemento, invece di andare nella malta, andava da altre parti…”. LA CHIESETTA SPACCATA C’è un ragazzo che è stato svegliato dalla nonna. Era un ragazzo duro a svegliarsi. Ma quella mattina doveva andare per legna e la nonna gli aveva rovesciato le coperte. Freddo cane. Doveva scendere a Dezzo dove con suo fratello sarebbero saliti nel bosco. Con addosso la giacchetta del lavoro e il suo fagottino della colazione si avvia, ancora assonnato, per la strada che scende alle Fucine. Passa la curva e viene sbattuto indietro dal vento. Seduto per terra, intontito, vede una fumana gialla sboccare improvvisa da destra, dietro il masso che divide il torrente Povo, che vien giù dalla valle del Gleno, dal fume Dezzo, vede la chiesetta del miracolo spaccarsi, i mozziconi di muro bagnati, le famme salire verso le nuvole nere. Un uomo viene su dalla strada marrone di fango e grida agitando le mani. Il fragore dell’acqua. Non si sente, l’uomo ha la bocca aperta ma le parole sembrano non riuscire a farsi suono. Il ragazzo si mette a gridare anche lui e non sente nemmeno se stesso. L’uomo corre in salita, ansima, arranca, arriva lì vicino e urla: ‘scappa, scappa, è venuto giù il disastro’. Il disastro. ‘Quale disastro?’ ‘La diga, scemo, scappa’.

DEZZO. LA PRIMA ONDATA Al Dezzo l’alba era tetra come certi giorni di inverno che nessuno ci può far niente e si vive aspettando che passi la dura invernata e l’orto e il prato diano di nuovo di che campare, che quella diga di lavoro lì in valle ne aveva dato poco. Della diga si sapeva solo che faceva acqua dalle parti sbagliate. A Dezzo c’era gente che non dormiva in casa da settimane, si era fatta ospitare dai parenti nei paesi alti, quella lì si spacca e se non si spacca quella c’è il masso sopra il paese che viene giù e una notte ti entra in casa facendoti fare la fne del topo. Chi era rimasto non aveva visto la diga da vicino, c’era ben altro da fare che salire a guardare delle muraglie di cemento che avevano fatto un lago come non avevano mai visto, che quelli erano tempi che non ci si muoveva da casa se non per necessità o per dovere, mica si andava a fare la gita sul lago per vedere l’effetto che faceva. Un lago in cima alla montagna non va bene, Dio non ha fatto la terra mettendo il mare in montagna e se non l’ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. Un uomo era a letto ammalato, male di stagione, anche chi è abituato a stare nel buio delle miniere, subisce l’insulto di un’infuenza. Vede spalancarsi l’uscio, lo prendono su con le lenzuola e lui grida ‘ma cosa fate? Lasciatemi stare’ e loro niente, urlano e lo portano via, fuori di casa. E là fuori di casa, da quella portantina traballante, vede le case sull’altra sponda di Dezzo andare giù come birilli con letti e credenze che emergono e scompaiono. IL RITORNO DELL’ONDATA C’era uno quasi in mezzo alla fumana e aveva la bocca aperta in un grido silenzioso, emergeva e scompariva, alzava un braccio e l’acqua glielo richiudeva. Era attaccato a una pianta che si è piegata all’evidenza e se lo è portato via. Il masso della casa del curato aveva salvato mezzo paese. Sembrava passato tutto, la gente sui prati correva giù per scavare nel fango. E’ passata, è passata. No, ecco che l’ondata torna indietro. Era arrivata alla strozzatura della Via Mala, in un posto chiamato Riina di Cà, lì si era imbizzarrita, non aveva trovato sbocco ed era tornata sul paese spazzando via quel che era rimasto. Sembrò una crudeltà, un inferire della catastrofe sui sopravvissuti della prima ora. Passò, alta di nuovo come una casa e si portò via quello e quelli che aveva trovato allo scoperto.

UNA SPERA DI SOLE C’era una donna che scavava nel fango. L’ondata le passò sopra e incredibilmente la lasciò ancora lì, sul mucchio di fango che copriva quella che era stata la sua casa, con le unghie ancora piantate nella terra sporca che aveva seppellito tutto, anime e corpi. Questo vide quell’uomo dentro il suo lenzuolo sporco, nel posto dove l’avevano lasciato i suoi soccorritori, già ripartiti per salvare altri compaesani. Da tutta la valle accorreva la gente piangendo, gridando, spintonandosi, aiutandosi, che sembrava di essere sotto la torre caduta di Babele, puniti da Dio per i peccati di tutte le generazioni che c’erano state, pensando che non ci sarebbe più stato niente dopo, perché di sicuro quello era il giorno del giudizio universale. C’era gente che cercava di passare il fume, che si era fatto lago, con delle scale di legno, ma si rovesciavano e quelli annaspavano nell’acqua torbida, che nessuno sapeva nuotare, perché non c’era mai stata tradizione né necessità di impararlo, in montagna. Poi, come una beffa, no, come una promessa di armistizio, se non proprio di pace, uscì d’improvviso una spera di sole, come niente fosse tornava il sole. E illuminò quella donna che scavava nel fango e un uomo, lo riconobbero, si chiamava Battista, che piangeva su un mucchio di fango e diceva piano, come non volesse disturbare, ‘qui sotto ci sono i miei’ e parlava come se lo potessero sentire, ‘aspettate che cerco di tirarvi fuori’.

LA PAZZIA DEL DOLORE Ma quel sole era un sole malato. Arrivava un altro vento che nessuno aveva sentito, il vento della follia per il troppo dolore. C’era uno che andava in giro cantando una canzonaccia piena di parolacce, con un fasco di vino trovato tra le macerie dell’osteria, beveva e cantava barcollando sul niente, perché non c’era più sentiero o strada, solo una pianura di fango e di acqua. Una donna passava di lì e gli disse, sibilando, ‘ma non ti vergogni?’, l’uomo si voltò appena, tese le mani come in un abbraccio, le richiuse sul niente e cadde a terra dove la donna sentì che, con la bocca mezza piena di fanghiglia, gorgogliava e piangeva a dirotto, come un bambino. I pochi sopravvissuti vagavano per quello che era stato il loro paese, si lasciavano lavare e rivestire, proprio come i bambini e stavano lì inebetiti a sentire rosari e litanie, chiacchiere e mormorii, urla di dolore di compaesani che scoprivano cadaveri. Stavano lì attoniti, estranei, ormai privi di coscienza del bene e del male, al punto che qualcuno si metteva con qualcun’altra, vedove di mogli e mariti, vedovi di rimorsi, solo cercando di risentirsi vivi. Nelle settimane successive, quando il dolore si tramutò in rabbia e furore, il Viganò fu fermato a Dezzo mentre scendeva da Vilminore con la sua auto e venne gettato a forza in un “albe” dei maiali, denudato, insultato e malmenato. ARRIVA IL RE BEBÈ E venne sera e poi mattina, un altro giorno. Un altro giorno? Ma non c’era già stato il diluvio, il giudizio universale, la fne del mondo? Di là dal fume qualcuno gridò che era arrivato il Re, il piccolo Re di un popolo morto. Guardarono per pura curiosità oltre l’acqua ancora fangosa che aveva ripreso a scorrere come niente fosse, nel suo alveo antico, come non avesse colpa, perché quella era acqua nuova, niente a che vedere con quella che si era vendicata del tentativo di fermarla, là in alto, in quel lago innaturale. Non c’era più il vecchio ponte, non c’era più niente e allora quel piccolo Re era arrivato a vedere il niente. Cosa era venuto a vedere nel deserto fangoso del disastro? Uomini sbattuti dal vento del dolore? Guardando a fatica lo videro, tra le camicie nere, un piccolo uomo su un masso enorme. “E’ un Re bebè”, disse uno, da questa parte del fume. E gli voltò le spalle.

I ROTTAMI SUL LAGO Il vento e la fumana della disgrazia erano scesi fno alla pianura. Altri morti, altro sangue, altre vite, altre case, altre urla, altri pianti. Nella parte bassa di Angolo, Gorzone e poi Corna di Darfo. Il torrente Dezzo, costretto nella ripida Via Mala, apparve all’improvviso dalla gola, con un’ondata che precipitando aveva ripreso forza e volume tale da spazzare via case e fabbriche, gente e masserizie. Sul lago di Lovere e Pisogne galleggiarono i rottami della nostra storia, della nostra memoria, senza pudore. Novant’anni fa, il primo dicembre 1923, era di sabato. E Dio pagò di sabato, quel giorno, avrebbe ripetuto quel prete. Ma Dio non c’entra in questa storia, ce l’hanno tirato dentro a forza. Perché questa è storia di uomini, di quelli che sono morti e di quelli che sono stati la causa della loro morte.

Progetto cambiato in corso d’opera Materiali non conformi. Gli scioperi. La diga riempita troppo presto. Il processo e la sentenza di condanna

L’Arciprete di Vilminore, don Bortolo Bettoni, scrisse nel Chronicon che le ragioni del disastro erano dovute a “imperizia, incoscienza e superbia umana”. Le vittime identifcate o registrate come “dispersi”, secondo la ricostruzione di Giacomo Pedersoli (“Il Disastro del Gleno” – edizione Toroselle . aggiornata nel 1998) furono 358 (226 in Val di Scalve e 132 nella bassa valle tra Angolo, Corna di Darfo. A Dezzo, Angolo e Corna di Darfo ci sono lapidi con elenchi (parziali) delle vittime. L’idea di costruire una diga nella Valle del Gleno (allora Comune di Oltrepovo, ora comune di Vilminore di Scalve) risale al 1916 quando la ditta “Galeazzo Viganò” per i suoi stabilimenti cotonieri, pensa di procurarsi energia direttamente e rileva una concessione per l’utilizzo dell’acqua del torrente Povo, che scende dalla Valle del Gleno, risalente al 1907. Ma il progetto prevedeva poi impianti di convogliamento e sfruttamento delle acque di altri torrenti (Tino, Nembo, Vo e Gaffone). Nel 1917 cominciano i lavori di preparazione, diretti da Michelangelo Viganò, che muore un anno dopo, nell’ottobre 1918. Gli subentra il fratello Virgilio Viganò che costruì la villa a Vilminore (attuale sede del Biennio). La diga doveva produrre 60 milioni di chilowattora. Nell’estate 1919 cominciano i lavori veri e propri, prima dell’approvazione del progetto che avverrà due anni dopo (marzo 1921). Progettista è l’Ing. Oscar Gmür: la diga sarà “a gravità, in muratura di calce idraulica” per un serbatoio di “circa 5 milioni di metri cubi d’acqua”. Nel settembre 1920 muore l’Ing. Gmür e subentra l’Ing. Giovan Battista Santangelo che cambia il progetto con uno ad “archi multipli”. Cambierà anche l’impresa: si passerà alla “Vita & C”.

LO SCIOPERO Molti operai furono reclutati fuori valle, perlopiù in valle di Scalve furono impiegare le donne per “portare sabbia e cemento al cantiere della valle del Gleno”. Ci fu anche la “settimana rossa scalvina”dal 18 al 26 ottobre 1919 in cui gli operai dell’impresa Bonaldi, che lavorava per i Viganò, rivendicarono le “otto ore” di lavoro. Venne chiamato da Bergamo un “conferenziere”, che venne multato dal maresciallo dei carabinieri, perché tacciato di essere “socialista”. In realtà era un “sindacalista bianco”, cattolico. Ma l’anno dopo, 1920, una quarantina di operai di Pezzolo e Bueggio, con il capolega Duci, rivendicano un aumento di salario di 3 lire all’ora per le loro 10 ore di lavoro giornaliere perché i generi alimentari sono aumentati. Il Viganò rifuta di trattare. Viene proclamato uno sciopero con otto giorni di manifestazioni, arrivano a Vilminore camion pieni di carabinieri e anche il deputato socialista Zilocchi. Ci sono 4 arresti (due di Bueggio e due di Pezzolo) per ostacolo ai camion delle forze dell’ordine. Gli operai si dividono, alcuni tornano al lavoro.

L’impresa concede un aumento dai 20 ai 60 centesimi l’ora e di una lira e venti centesimi al giorno. Arriva a Vilminore anche il Vescovo di Bergamo Mons. Luigi Maria Marelli e a Vilminore c’è anche, in vacanza presso la famiglia Bonicelli, don Angelo Roncalli. E si annota la burrascosa partenza del Curato don Antonio Donadoni con il “pretesto che prendeva troppo poco e non poteva vivere”, annota l’Arciprete. C’è una manifestazione operaia, scendono dalla vecchia mulattiera di Pianezza con “bandiere rosse e canti ribelli”. Ma poi il lavoro riprende.

LA DIGA SI RIEMPIE Nell’autunno del 1922 la diga si riempie, con i lavori in corso, parzialmente, poi svuotata e lasciata riempire di nuovo. Un operaio racconta: “Lavoravamo con l’acqua alle caviglie e nelle arcate mettevano il bitume ma nei piloni mettevano di tutto”. L’acqua cresce, gli ingegneri Lombardi e Sassi del Genio Civile nel sopralluogo del 21 ottobre 1923 si allarmano per il lago ma poi nella relazione scrivono che “non c’è nulla di anormale”.

Per 46 giorni il “serbatoio” rimane pieno e non ci sono più ispezioni. Il giorno prima del disastro il guardiano riferisce che gli venne chiesto dall’ing. Conti “se avevano messe le tavole agli sforatori per otturarli: gli operai avevano eseguito l’ordine”. Vale a dire che si faceva in modo di avere più acqua. Supererà gli sforatori di 20 cm. Alle obiezioni sulle falle della diga (l’acqua usciva dalla muraglia), il Viganò rispose: “Io ho costruito la diga per tenerci dentro l’acqua, non per lasciarla andare AL PROCESSO E LA SENTENZA Dopo la tragedia il processo andò per le lunghe, si ingolfò in “incidenti procedurali”, sospensioni tecniche, perizie, rinvii a nuovo ruolo e giunse alla conclusione soltanto nell’estate 1927.

Cento testimoni. Le accuse erano sul progetto cambiato, sul materiale usato (la malta e la calce e pietrame a secco, ferro residuato di guerra), sulla struttura (piloni non adeguatamente ancorati alla roccia), sottovalutazione delle perdite della diga, utilizzo prematuro della diga, fretta nei lavori (a cottimo), assenza di sorveglianza, costruzione senza progetto approvato, mancato collaudo. Le richiese del pubblico ministero (9 anni di carcere per Viganò e l’ing. Santambrogio), già di sé non pesanti, vennero stravolte dalla sentenza (4 luglio 1927) che infisse all’imprenditore e al suo tecnico tre anni e quattro mesi di carcere, ma due anni furono condonati, come pure la multa infitta che fu ridotta a 7.500 lire. I ricorrenti erano stati tutti “tacitati” prima del processo con risarcimento

VILMINORE Il sindaco non si ripresenta (nel 2016) “Coi soldi delle centraline (5) paga trasporto e …

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Nel 2016, alla scadenza del nuovo appuntamento elettorale, il sindaco Guido Giudici, annunciando di non ricandidarsi affiancato da un altro annuncio: “Abbiamo in progetto altre 3 centraline oltre alle due funzionanti. Due partiranno entro il 2015 e saremmo a 4.

GLI SLUM DI BERGAMO “NOI RACCOGLIAMO I COCCI DELLA SOCIETÀ

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 Oggi è la NORMALITÀ che produce il DISAGIO La Chiesa non poteva non essere là dove l’uomo vive l’estrema sofferenza, l’abbandono. Le persone non hanno bisogno solo di mangiare, hanno bisogno di essere ascoltate”.

Angoli che sembrano ingoiati da spazi di buio senza fondo, pozzi di anime immersi in brandelli di buio, vicoli che si infilano come se la città fosse una cartina geografica senza punti di arrivo. Don Fausto Resmini si muove lì, in quel fazzoletto di terra che va dalla stazione autolinee di Bergamo e si perde nei buchi neri di tutto il resto della città, in quei buchi si infilano i tossici, immigrati, senza tetto, nuovi barboni da crisi economica, per consumare un pasto caldo che Don Fausto allunga a chiunque si avvicina al suo ‘Posto Caldo’, una media di 150 pasti caldi e un rifugio per 35 posti letto dove passare la notte. In mezzo una comunità con 85-90 ragazzi, donne, uomini alloggiati a Sorisole per cercare di accendere sprazzi nei buchi neri, 17 gli educatori che cercano di trovare il filo di Arianna di un labirinto di anime e corpi. Mica è fnita qui. Don Fausto è anche il cappellano del carcere di Bergamo, dal 1992, sono passati 17 anni e davanti a lui centinaia, migliaia di carcerati, un via vai di anime e corpi da nascondere dietro sbarre di ferro. Via Gleno. Bergamo, altro anfratto di vicoli bui che scoppiano di persone, adesso in Via Gleno c’è un nuovo padiglione, ultimato già da quasi due anni, tutto nuovo, piastrelle, bagni, telecamere a circuito chiuso, una trentina di celle, c’è tutto, mancano i detenuti, ancora chiuso, per mancanza di agenti. E nel frattempo il carcere scoppia, 525 detenuti contro i 340 posti disponibili. La strada è l’opposto. Scoppia anche lei. Ma di solitudine. Strade lunghe che sembrano non finire mai. Qui a mancare non sono gli agenti. Qui a mancare è la gente che ascolta, che allunga una mano, che ti abbraccia o ti accoglie. Don Fausto Resmini è in tutti questi posti, a fare da mano, da orecchie che ascoltano, da anima che ospita, da piatto che sfama. Nato a Lurano nel 1952, prete del Patronato San Vincenzo, ordinato sacerdote nel 1978. Perché il Patronato? “Sono uno degli ultimi figli di Don Bepo, sono entrato al Patronato per ragioni di studio nel 1960 e da allora sono sempre rimasto al Patronato. Prima a San Paolo d’Argon, poi sono tornato a Sorisole, poi ancora a San Paolo come educatore e poi ancora a Sorisole. Infanzia e adolescenza passate al Patronato, prima come ragazzo che in quel momento aveva bisogno di essere tutelato e aiutato e poi mi sono assunto le responsabilità come educatore, seminarista, chierico e prete”. Perché dice che è stato aiutato quando era ragazzo? “Perché bisogna tenere conto che in quegli anni nei paesi non c’era la possibilità di frequentare la scuola media e in prospettiva di questo ero andato al Patronato già dalle elementari per avere la possibilità di proseguire gli studi. Lì poi ho conosciuto tanti ragazzi con problemi e difficoltà, con situazioni familiari problematiche e da lì man mano dall’evoluzione dell’adolescenza in poi mi sono posto moti problemi, non ultimo quello che potevo fare io per gli altri. Io non ho mai pensato che il mio rimanere al Patronato fosse legato a un progetto personale

ma sentivo che era legato a un progetto legato all’attenzione degli altri. Eravamo in un gruppo di 15, buona parte diventati sacerdoti, Don Bepo a questo gruppo teneva molto, ci ascoltava, ci convocava”. Quindici seminaristi del Patronato: “Frequentavamo il seminario ma c’era la possibilità di passare i momenti forti della settimana al patronato”. Avvertiva una diversità con i seminaristi del seminario? “Non negli studi, i seminaristi avevano attività legate alla parrocchia, legate agli incontri per le giornate vocazionali per il seminario, a noi invece era concesso di tornare al Patronato per vivere una relazione con i bisognosi, i giovani e i ragazzi, un tirocinio di vita”. Una scelta diversa: “Quando sono diventato sacerdote era il periodo in cui erano sorti problemi ai quali bisognava dare una risposta. Come farsi carico dei ragazzi provenienti dal Beccaria, da situazioni di tipo penale, allora c’erano i riformatori giudiziari ma si stava già profilando un cambiamento nel nostro diritto penale. La nostra struttura di Sorisole era già stata interpellata, avevamo allora ragazzi con problemi ma non così gravi, di fronte a questa domanda abbiamo dato una risposta affermativa e ci siamo preparati ad accoglierli”. Don Fausto fa un passo indietro: “Ripenso a Don Bepo che diceva che l’esigenza educativa si modifica con il cambiamento dei tempi, i ragazzi del Beccaria erano quindi i nuovi poveri, l’alternativa al carcere era la comunità ma se le comunità avessero risposto ‘è troppo impegnativo’, il carcere diventava l’ultima parola. Sono arrivato in strada proprio grazie ai ragazzi, negli anni ‘90 seguendo i ragazzi che scappavano dalla comunità, perché non con tutti finisce bene, non è che una comunità cambia una persona, l’aspetto educativo è un’arte di pazienza, dedizione, anche di intervento duro, non tutti questi ragazzi ce la facevano, così seguendoli ho conosciuto la strada dove si rifugiavano. Li abbiamo cercati e li abbiamo trovati in stazione e lì abbiamo scoperto che nasceva una situazione di gravità assurda. Solitudine, abbandono, esclusione. Erano gli inizi degli anni ’90, non c’era ancora il fenomeno immigratorio di oggi e cominciavamo a muoverci in questo mondo delle stazioni e della strada. Di gente che viveva e dormiva fuori, un malessere della città legato al fatto di non essere di nessuno. Un intervento che si è strutturato col tempo, i camper, la distribuzione dei pasti, dei vestiari, dell’accoglienza notturna, andare nella città a incontrare dove vivevano questi poveri”. L’anno prossimo sono 20 anni che don Fausto è sulla strada e in stazione: “Vent’anni caratterizzati dalla presenza non solo del patronato ma dell’intera chiesa di Bergamo in un luogo dove nessun’altra realtà c’era, né lo stato, né l’attività pubblica, né nessun altro”. Ma non è che siete solo voi e non la Chiesa? “No, è limitante dirlo. Noi siamo andati lì con un preciso intento, la Chiesa non poteva non essere là dove l’uomo vive l’estrema sofferenza, l’abbandono, il vescovo Roberto ha sempre fatto suo questo pensiero, non ha mai mancato di incoraggiarmi, di sostenermi, di difendermi a livello politico, è vero che c’era un sacerdote ma non a titolo personale. Sarebbe limitante dire che sono lì a titolo personale, siamo lì con impegno e servizio sapendo che la chiesa ha un ruolo importante, altrimenti saremmo assunti dal Comune”. Strada, stazione, giovani. Un quadro della situazione: “Sulla strada arriviamo a provvedere a una mensa con 150 pasti, dalle 22 alle 24 possono usufruire della mensa, un pasto caldo, consumarlo seduti dentro questo luogo di accoglienza. Noi non chiediamo i documenti e questa è un’altra di quelle sensibilità di cui la chiesa si fa partecipe, se fossimo lì a titolo pubblico lo chiederemmo, ma essere presenti a nome del vangelo non fa richiedere nulla, in quel momento qualcuno ha bussato e io gli apro e quello che ho glielo metto a disposizione ma proprio per non rischiare che arrivi qualcuno a controllarli molti prendono il sacchetto e se ne vanno nei luoghi più bui della nostra città, luoghi che non hanno niente di meno degli slum che si vedono in India, dove vediamo queste grandi periferie abbandonate a se stesse, luoghi fatiscenti che diventano rifugio della notte. Ma poi c’è il servizio collaterale di ascolto, le persone non hanno bisogno solo di mangiare, hanno bisogno di essere ascoltate ed è la cosa più diffcile, non si deve andare prevenuti, con l’idea di avere in tasca la soluzione di grossi problemi che non risolveremo. Per incontrare i poveri bisogna abbassarsi, mettersi a disposizione”. Ma la gente che arriva in stazione è figlia di chi? “Quando abbiamo iniziato erano italiani, adesso i tempi sono cambiati, il 55-60% sono stranieri, molti in Italia da anni, qualcuno lavorava e causa crisi è rimasto senza lavoro, poi senza casa e alla fine si è trovato lì, di tornare al proprio paese da sconfitti neanche a parlarne, non se la sentono. E poi ci sono i ragazzi di colore che sono la nuova immigrazione, sono venuti a lavorare in nero, avevano trovato alloggio presso i datori di lavoro magari in un garage, poi è arrivata la legge che dice che chi ospita i clandestini è perseguibile penalmente e poi è arrivata anche la crisi economica che ha fatto il resto. Non erano portatori di disagio, la legislazione li ha obbligati all’esclusione e hanno bisogno di tutto, dal pasto al vestito, alla doccia, all’accoglienza notturna. Le persone non possono e non devono essere abbandonate, mai”. Centocinquanta pasti e il centro di ascolto, chi vi cerca dove vi trova? “Al mattino c’è il camper in fondo alla stazione delle autolinee, ben visibile, vicino alle panchine che sono diventate la casa di tanti emarginati, il camper fa un po’ di tutto, da un lavoro di ascolto al farsi carico delle situazioni di salute, dall’accompagnamento al Sert, a portarli all’ospedale, alla Caritas, ai colloqui con le comunità. Da soli non andrebbero mai. Sulla strada poi abbiamo 3 educatori che fanno servizio mattino e pomeriggio, la notte ci sono 60 volontari sulla strada, ogni volontario fa una notte e noi sacerdoti siamo in due, con me il vescovo ha mandato Don Marco Perucchini. Il turno di notte finisce all’1,30. Siamo in stazione fino a mezzanotte, poi ci vuole tempo per portare le persone che vengono a dormire in Comunità a Sorisole, sistemarle, insomma, all’1,30 si chiude perché alle 7 del mattino si torna in strada”. Sorisole, una comunità-paese: “C’è un dormitorio, un reparto di degenza per i malati e un container per fare dormire altra gente”. Spazio anche e soprattutto per i minorenni: “Un ragazzo che compie un reato a diciassette anni e mezzo, diventa maggiorenne durante il suo iter penale, intanto che sconta la pena detentiva, sa che per rientrare in società ha bisogno di un lavoro, di una casa, c’è tutto un cammino che è la scommessa futura. Abbiamo 15 ragazzi provenienti dal carcere minorile, 25 con situazioni di grave marginalità, poi ci sono gli stranieri portati dalla Questura, la gente che arriva dalla stazione, in tutto 85-90 persone. Gli educatori sono 17, laici e regolarmente assunti. Insomma una comunità che diventa un piccolo paese attorno a chi deve provare a ritrovare un pezzo di vita”. Sta succedendo qualcosa ai ragazzi o è normale che il disagio nei minorenni sia in costante aumento? “Se una volta i problemi, il disagio e la devianza caratterizzavano coloro che avevano situazioni gravi a livello famigliare e sociale, oggi il disagio è legato alla normalità. Un mondo quello degli adolescenti che non solo è in fermento ma è in cambiamento, se pensiamo a cosa porta l’uso delle sostanze stupefacenti, ai luoghi dove si spaccia, dove vivono le loro trasgressioni, ci sono reati che non esistevano anni fa, penso alla violenza negli stadi, ai reati a sfondo sessuale, alla violenza di bande, non vuol dire che tutti sono così. C’è un cambiamento con un mondo che ha fatto un salto di qualità, che non è più legato solo al disagio sociale ma alla normalità”. Famiglie cosiddette normali che occupano un grado sociale secondo loro importante con figli coinvolti in una situazione di devianza. Come fa un genitore ad accorgersene? “Prevenzione. Il problema è che i genitori dovrebbero essere molto più attenti al mondo dei fgli, non sottovalutarlo, i genitori dedicano poco tempo ai loro figli, non dobbiamo aspettare le scuole superiori, si deve cominciare dalla 5ª elementare. Pensiamo a cosa noi diamo ai nostri figli in termini di beni economici ma a quanto poco instauriamo delle relazioni affettive, c’è una povertà affettiva che fa paura. Ci sono genitori che lavorano giorno e notte ma non hanno una relazione con i figli”. Un mondo che cambia: “La scuola, la chiesa stessa, gli oratori percepiscono un cambiamento radicale rispetto a vent’anni fa, già dalla scuola elementare adesso c’è un’inquietudine fortissima, è un trapasso non solo culturale ma esistenziale, alla base c’è la trasformazione della famiglia”. E arriva il gruppo: “E nel gruppo fai tutto, così capita che il sabato sera solo per fare qualcosa di diverso o forse solo per un momento di esaltazione per il gruppo, vanno in qualche posto, bevono, fumano qualche canna e cominciano a prendere di mira qualcuno, picchiano, rapinano ma per fare una serata diversa, non c’è motivazione. Poi li prendi da soli e non li riconosci più, nel contesto del gruppo fanno cose impensabili ma il gruppo non deve essere il luogo dove si cresce”. Differenza tra i ragazzi di città e quelli di provincia? “Nessuna, dai 16 anni in poi si assomigliano tutti”. Per lei niente parrocchia: “Nelle parrocchie il lavoro dei sacerdoti è nell’ottica della prevenzione, il mio servizio è invece quello di raccogliere i cocci. Sono due cose diverse. Fare prevenzione è importantissimo, se non ci fossero gli oratori non so come faremmo, impedire di arrivare al limite è importantissimo, anche se nella società il mio servizio è visto come più attuale, l’oratorio avvicinando i giovani e i bambini compie un’opera preziosissima”. Non le è mai capitato che quando vengono da lei la sera, qualcuno al posto di un posto caldo cercasse Dio? “Il problema è che non si cerca mai Dio in astratto, lo si cerca passando attraverso dei gesti, delle accoglienze, dei silenzi, degli sguardi, delle attenzioni, non si cerca mai un Dio astratto, Dio è sempre concreto, mi creda, mi creda davvero”. Lei è cappellano del carcere dal ’92: “Sono entrato come volontario nell’88, adesso il carcere aprirà una nuova struttura, preti e cappellani hanno un ruolo importante perché il cappellano è cercato quotidianamente dai detenuti, non solo cristiani, ma anche musulmani, in carcere avere altre fedi non è discriminante, il cappellano deve rendere presente l’azione di Dio e della chiesa, c’è un’azione della chiesa quotidiana, anche per chi non è nella nostra fede. Ciò che colpisce quotidianamente lo straniero è il gesto di carità, di amore, il fermarsi e l’ascoltare. Non sempre nel paese da dove venivano avevano questa cura, anche se devo dire che dal paese da dove venivano non dormivano per strada, c’era poco ma c’era per tutti, c’era molta più dignità”. La Chiesa vicina a Don Fausto e Don Fausto ci tiene a dirlo e racconta un episodio particolare: “Il vescovo Francesco Beschi appena nominato mi ha detto subito ‘voglio rendermi conto e toccare con mano la strada’, è rimasto una notte per strada, è salito sul camper, ha fatto il giro di tutti quei luoghi, di prostituzione, di disagio e di rifiuto della città, e questo gesto è stato come porre un punto, come dire ‘noi vogliamo continuare ad esserci’. Io capisco che sfugga a molti, perché tante volte il servizio si giudica come si giudica la politica, il ruolo della Chiesa magari si vede poco dal fuori ma è molto forte e io la Chiesa l’ho sentita sempre molto vicina”. A forza di maneggiare cocci non si è mai tagliato? “Sì ma non siamo lì a titolo personale, siamo lì a titolo del vangelo, quando succede mi dico ‘domani riparto’”. Per Don Fausto non è il cibo quello che la gente cerca da lui. “No, nella città potrebbero recuperare sempre qualcosa, ogni mattina bussano ai monasteri di clausura, potrebbero benissimo recuperare qualcosa, il problema è la relazione, attraverso la nostra presenza sentono di appartenere a qualcuno. Senza relazione l’uomo muore tutti i giorni. D’accordo cercare il pasto ma quello di cui davvero sentono bisogno è qualcuno con cui parlare”. C’è qualcuno di loro che ha scelto di fare questa vita? “Nel passato sì, oggi no, si sono trovati dentro e può capitare a tutti”. Una storia a lieto fine: “Renato che adesso lavora, era un alcolizzato sulla strada, agli ultimi sgoccioli, con il nostro aiuto e la sua volontà si è tirato fuori, è venuto a Sorisole, si è recuperato, ha il suo appartamento, lavora per il Comune, ma ogni domenica, ogni minuto libero lo passa qui da noi come educatore anziano. Per il resto il nostro lavoro non è legato al recupero immediato, i risultati non li vediamo noi ma le comunità di accoglienza dove inviamo i ragazzi”. Non sogna mai un calice intatto, una parrocchia? “Io non è che sogno la parrocchia, sento che la mia parrocchia è la strada e il carcere, non mi sento diverso dagli altri, anzi, mi sento e sono pienamente inserito. Nella Chiesa ognuno ha la sua ministerialità e ci sosteniamo a vicenda, gli altri parroci non mancano di aiutarmi e sostenermi”. Don Bepo sarebbe contento? “E’ contento. Quello che secondo i suoi tempi ha realizzato cercando di andare incontro ai bisogni dei poveri e degli emarginati, oggi continua”. Don Fausto deve tornare fra i suoi ragazzi, comincia a far buio e la stazione chiama: “Prima però fatemelo dire, se c’è qualcuno che vuole mettersi in cammino noi siamo qui. Li aspettiamo. Lo scriva”. Lo scriviamo.

La madre di tutti gli scandali: lo scoop delle foto di Berlusconi con le ragazze a Villa Certosa

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Pino Belleri, 56 anni, 2 figli, giornalista, nato a Darfo Boario Terme, bergamasco d’adozione, direttore di Oggi per tre anni e mezzo e in questi giorni sotto i riflettori per il processo con Silvio Berlusconi che lo ha denunciato dopo la vicenda delle foto di Villa Certosa pubblicate sul settimanale Oggi. Era l’aprile del 2007. Sono passati due anni e il processo è cominciato a Bergamo il 20 ottobre. Belleri da qualche tempo non è più il direttore di Oggi. Che incarico hai adesso? “Sono responsabile delle iniziative speciali”. Cioè? “Faccio degli speciali per Oggi, adesso stiamo preparando un allegato televisivo”. ‘Oggi’ una rivista storica: “Sì, il primo numero è uscito nel 1945, subito dopo la fine della guerra, quindi ha 64 anni” . E regge ancora sul mercato nonostante siano nati tantissimi altri settimanali: “Regge anche se la crisi dell’editoria negli ultimi due anni ha fatto sentire le conseguenze di diffusione anche per Oggi, così come per tutti gli altri. Reggiamo e teniamo botta cercando di mettere in campo tutte le contromisure possibili e sostenibili dal punto di vista economico. Lo speciale televisivo che stiamo facendo va in quest’ottica”. Sei finito sotto i riflettori perché è iniziato il processo contro di te, chi ti accusa è nientemeno che il presidente del Consiglio: “Tutto è cominciato nell’aprile del 2007, subito dopo Pasqua, quando abbiamo pubblicato le foto di Berlusconi a Villa Certosa con 5 o 6 ragazze in copertina”. Erano le foto che ritraevano le ragazze sulle ginocchia di Berlusconi? “Sì, le foto clou uscirono in quel primo e ultimo numero, lo chiamammo l’harem di Berlusconi termine che due anni dopo usano tutti”. Le foto fanno il giro del mondo e scoppia lo scandalo: “Due ragazze sulle ginocchia, due o tre attorno a fare da corona, le mani che viaggiavano libere e l’espressione di estasi del presidente Berlusconi e poi tutta una serie di situazioni, lui mano nella mano che le accompagnava, loro che si alternavano al suo fianco, lui che le accompagnava per i vialetti e le meraviglie di Villa Certosa”. Villa Certosa Foto fatte dall’interno o dall’esterno? “Sono foto chiaramente paparazzate da una posizione che noi sosteniamo stare all’esterno di Villa Certosa e qui entriamo nell’ambito giudiziario perchè Berlusconi e l’avvocato Ghedini, sostengono essere fatte con violazione di domicilio”. Succede il finimondo: “Siamo usciti in edicola il martedì e il venerdì il garante della privacy ha bloccato l’ulteriore diffusione delle immagini di quel servizio, con una impressionante, strana e spaventosa velocità. Non abbiamo più potuto pubblicarne altre, ne avevamo 300, a tutt’oggi non possiamo pubblicare, né diffondere nemmeno quelle di quel servizio. Ma è una situazione paradossale, gli altri giornali possono riprendere quelle foto e dire che le hanno prese da noi, mentre noi no”. Quindi se io pubblicassi le foto posso farlo? “Sì, io non te le posso fornire perché commetterei reato ma se tu le riprendi da quel numero citando il settimanale puoi farlo. E’ incredibile ma così, mi hanno chiamato anche colleghi stranieri e ho faticato a spiegargli questa storia, non si capacitavano. Il garante è intervenuto su Oggi e Rizzoli e non sugli altri. Quel materiale che gira, loro lo possono usare e noi no”. Madre di tutti gli scandali Quella pubblicazione è stata la madre di tutti gli scandali successivi, poi ci sono stati Sircana, le Escort, Marrazzo…: “Era il 2007 e noi con quel materiale a mio giudizio con tutte le implicazioni giornalistiche, politiche e di qualsiasi altro tipo abbiamo realizzato lo scoop fotografico degli ultimi 40 anni. Se tu parti dal presupposto che Silvio Berlusconi come dice lui è il presidente più importante e il più bravo degli ultimi 150 anni, un servizio fotografico di quella portata si può considerare lo scoop principale di quegli anni”. Ed è partita subito la denuncia: “Mi hanno querelato come direttore di Oggi per violazione della vita privata, indebita interferenza nella vita privata e per il fotografo c’è anche la violazione di domicilio, il suo procedimento è in corso a Tempio Pausania perché è sardo, il mio a Bergamo perché Oggi viene stampato a Treviglio. Poi al mio hanno aggiunto anche ricettazione perché le foto le ho comprate. A quel punto alla prima udienza a Bergamo i nostri avvocati hanno fatto presente che se viene caricata questa accusa è preminente rispetto all’altra, e questo reato è stato commesso a Milano in quanto le foto le ho acquisite nella sede della Rizzoli, quindi il processo torna a Milano, si riparte da zero e come tutti i processi all’italiana chi vivrà vedrà. Come andrà a finire non lo so, potrebbe esser interessante, il mio avvocato citerà due ragazze e citerà anche Berlusconi. Potremmo sentirne anche di divertenti”. Ma Berlusconi ha interesse che questo processo vada avanti? “Non so che interesse possa avere in un momento in cui sta cercando di abbassare i toni sulle vicende private, certo, se il processo fosse domattina non credo proprio”. Scoop sul nuovo Re Ti conosco da anni e questo scoop non è nelle tue corde, tu sei un tipo molto pacato che non ricerca gli scandali, cosa ti ha spinto e quanto hai pagato le foto? “Cominciamo dai prezzi che dipendono dal momento e dall’importanza del personaggio, dalla situazione, dalla potenza della notizia, si valutano lì per lì e si decide. Come particolare tecnico quell’acquisizione comportava la possibilità di vendita all’estero del materiale, in teoria saremmo rientrati della spesa. Infatti ce l’hanno chiesta tutti ma la privacy ce l’ha bloccata e quindi c’è anche un danno economico ma questo è secondario. Non mi vedi a fare questo scoop? Tieni presente che ‘Oggi’ per tradizione e tipologia di giornale si occupa di grossi personaggi, prima c’erano i Reali oltre ai soliti attori, la dolce vita, ci si occupava molto di Reali quando si scoprì che seguendo le vicende della famiglia reale in esilio le vendite aumentavano perché metà Italia era monarchica. D’altronde il referendum è stato lo specchio dell’Italia”. Anche il concorrente “Gente” parlava sempre di reali: “Sì, avevamo molto in comune ma tecnicamente definirei Gente reazionario e Oggi conservatore, però si occupano tutti e due di vip. Perché Berlusconi? Perché è la quinta essenza delle celebrità in Italia in questo momento”. Niente nudi Nessun disegno politico dietro? “Nessuno, guarda, Piero, i giornali come il nostro sono fuori da questo giro, i giri politici sono giri da quotidiani o se vuoi da Espresso e Panorama. I giornali come i nostri, campagne non ne fanno, avevo lì questo scoop e lo scoop l’ho fatto, il resto non sono affari di Oggi”. Voi non fate nudi. “Nel modo più assoluto. Quest’estate mi è capitato di fare uno speciale su diete e bikini, il bikini è nato negli anni ’40 ma su Oggi il primo è apparso nel ‘67. Noi non mettiamo un nudo integrale o un seno scoperto a meno che non sia la paparazzata da spiaggia, altrimenti il nudo non passa. Prima di tutto c’è l’attenzione alla sensibilità del lettore che oltretutto è un certo tipo di lettore, conservatore, di cultura cattolica, osservante, di sani principi, con un senso tradizionale della famiglia, e quindi ci stiamo molto attenti prima di fare certe operazioni, dopodiché tutto è lecito se è fatto con stile”. Rimosso da Direttore Sei stato rimosso da direttore per questa vicenda? “Il passaggio era concordato con l’editore ed è successo comunque un anno e mezzo dopo, non me la sento di sostenere che la cosa è collegata e non credo sia vero. E’ cambiato il direttore generale e il direttore del personale, l’editore fa i suoi ragionamenti legittimi. Fare il Direttore comporta un certo logorio e dopo tre anni e mezzo un po’ lo sentivo, soprattutto in una situazione di crisi, la decisione è composta da vari elementi, l’editore pensa che il nuovo direttore sia più attrezzato per fare cose che io non mi sentivo di fare. Io preferivo fare un Oggi più tradizionale, sono convinto che dalla crisi si esce mantenendo la barra della rotta ferma, la crisi non è interna ai giornali ma è esterna. Sai, tu ci sei passato, che gli editori sono personaggi strani. Il senso di un cambiamento concordato sta nel fatto comunque che sono ancora in Rizzoli”. Anche al Corriere è successo con Paolo Mieli sostituito da Ferruccio De Bortoli: “Io non voglio paragonarmi a nessuno, però vedi, anche Mieli ha chiuso la sua esperienza come direttore, è rimasto con un altro ruolo, non mi sto paragonando al Corriere ma ci tengo a sottolineare che si può anche cambiare ruolo rimanendo nello stesso gruppo. Sono stato cambiato per un concorso di motivi, non uno in particolare, quando cambia il management sopra di te può succedere”. poco, anche per il taglio del giornale mentre ad altre testate come Chi o altre votate maggiormente al gossip o alla cronaca rosa ne proponeva di più. Comunque Corona viene un giorno e mi mostra le famose foto di Adriano (l’ex giocatore dell’Inter – n.d.r.) con due o tre ragazze attorno, lui mi fa capire chiaramente che sono escort e che le foto sono fatte a Lugano. Sapeva vendere bene la sua merce e mi dice: ‘Adriano non si regge in campo, tutta San Siro lo fischia, qui c’è la prova del perché non rende, dolce vita e altro’, su questo tavolo c’era dello zucchero che si voleva far passare per cocaina. Ho detto a Corona che intanto era tutto da stabilire se fosse cocaina o meno ma anche se fosse stata non avremmo comunque cominciato a discutere di soldi perché non era un argomento da Oggi, di Adriano ai lettori di Oggi non frega niente. Se fossi stato direttore del Sun inglese o di uno di questi tabloid sarebbe stato un discorso diverso, loro sarebbero andati a nozze. Ma la cosa che tagliò la testa al toro fu che le foto erano state fatte in un’abitazione privata, quindi non pubblicabili, in caso di pubblicazione ci avrebbero fatto causa e l’avrebbero vinta. Che sia stata di lui o di quelle ragazze la casa non importa, era un contesto privatissimo”. Il confine del gossip Il confine tra pubblicabile e non pubblicabile è quindi la proprietà privata: “Sì, anche se nel caso di Villa Certosa la casa privata sarebbe tutta da discutere, ha un’estensione di 80 ettari, insomma è grande come il Comune di Vilminore”. Mi hai annichilito (lo dico in quanto ex Sindaco di Vilminore dove in contrada Meto, Belleri veniva a passare le vacanze): “Sì, ma dai, Piero, il Comune di Vilminore è più bello. Ma poi entriamo nel discorso sulla vera privacy. Secondo te la privacy di Silvio Berlusconi è impenetrabile come quella di Piero Bonicelli o di Pino Belleri? Secondo me no. Ber lusconi non può invocare la privacy che invochi tu”. Noi siamo stati allevati con la frase che non solo Cesare ma perfino la ‘moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto”. E invece è cambiato tutto, muri, ostacoli per raccontare fatti, la libertà di stampa dov’è? “Le cose sono cambiate e bisogna muoversi con una mappa. I giornali schierati hanno sempre raccontato un pezzo di verità, indulgenti con gli amici, basta sapere che è così, ti crei il tuo puzzle e sai che è così. Ma il discorso in Italia è più complicato, si allarga, è quello di un premier che ha tre tv, che ne controlla altre tre pubbliche, ha i giornali, con una posizione obiettivamente particolarissima”. La pubblicità E qui entra in campo anche la raccolta pubblicitaria che andrebbe ridiscussa con più serietà perché crea risorse. “E’ questo il vero discorso da fare. Oggi l’80% di pubblicità finisce alla tv e il 20% alla carta stampata. Tengono le reti Mediaset che calano solo del 9%, la Rai invece cala del 20%. I grandi inserzionisti, come Ferrero e Tim che pianificano milioni di euro all’anno per la pubblicità ne danno a Mediaset 3 o 4 e alla Rai 1. Quello della pubblicità è un discorso sottovalutato, ma se hai le risorse, hai la libertà di stampa e poi c’è altro…”. Belleri entra nuovamente sul caso Marrazzo: “Abbiamo un premier che viene avvertito da un amministratore delegato di una casa editrice che c’è questo filmato e lui chiama Marrazzo per ritirarlo, questo vuol dire che sei in una posizione e hai un sistema di apparato informativo intorno che obiettivamente porta a far delle riflessioni”. E poi Marrazzo anche fosse stato salvato in quel modo, nel caso di una sua rielezione sarebbe stato in balia del premier che lo aveva salvato: “Sì, anche se ormai non si poteva più mettere delle pezze e meno male, bisognerebbe fare una riflessone su chi l’ha candidato, questo tipo di vizio, la vita disordinata, la conduceva da anni, e l’apparato politico deputato alla scelta dei candidati non poteva non saperlo ma questo è un altro discorso. E comunque hai ragione, il premier segnala, ‘ti faccio questo favore, il direttore del mio giornale l’ha visto, ritirale’, come fa a non essere ricattabile dalla parte politica avversaria?”. Vittorio Feltri Hai cominciato a lavorare con Vittorio Feltri, ti ha scoperto lui, come lo giudichi adesso? “Molte sue posizioni in tutta franchezza le rispetto ma non le condivido”. Parlo del modo di fare giornalismo: “Beh quello è un modo unico. Mi costringi a parlare di uno che considero un padre o un fratello maggiore. Io dico solo che uno che ha creato un giornale, Libero, che dirige quotidiani e ha un seguito personale di un certo tipo è un fuoriclasse e che i fuoriclasse facciano discutere di più delle scarpine fa parte del gioco”. Perché uno come Feltri abbandona la sua creatura ‘Libero’ per tornare al Giornale? “Ha parlato di esperienza che un po’ lo annoiava. Tu che lo conosci quanto me sai benissimo che dopo un po’ morde il freno. Sinceramente anch’io mi sono chiesto come possa abbandonare il giornale che ha creato lui. Non credo l’abbia fatto per soldi, non ne ha più bisogno, l’avrà fatto per togliersi lo sfizio di una nuova avventura”. Maurizio Belpietro Sia tu che Luciana Frattesi avete convissuto professionalmente con Maurizio B e l p i e t r o , come vedi la diversità tra i due, tra Feltri e Belpietro? “Non so cosa realmente sia successo fra loro, anch’io so che ci sono stati screzi ma non so di che tipo, se c’è stata una rottura e quanto è durata, a domanda precisa nei giorni scorsi Feltri ha detto che adesso i rapporti sono buoni. Ma anche qui siamo nell’ordine del lavoro, quando ci si separa e poi ognuno va per la sua strada, Belpietro è ambizioso e capace e ha fatto il suo percorso. Se mi tiri per i capelli su Belpietro per le vicende delle foto di Villa Certosa, non sono stato trattato certo con i guanti. Ho anche accettato la critica dura, al limite dell’insulto, del linciaggio, sono stato messo alla berlina, non voglio fare l’eroe, capisco che lui faceva un certo tipo di giornale, molto schierato, era più che logico che reagisse, però ci sono rimasto male”. Le cose adesso vanno meglio? “Un anno o due dopo ha fatto un’intervista, gli hanno chiesto come mai con Belleri era stato così duro e tremendo, superando quelli che erano i sentimenti di un’amicizia e mi ha dato atto di una grande lealtà e ha parzialmente rettificato il giudizio su di me, non può che farmi piacere. Diamo tempo al tempo”. Anche Belpietro si è trovato in mano foto scottanti: “Questa estate, sempre Villa Certosa, la vicenda che riguardava il politico Topolanek, lui ha chiamato Ghedini, le ha fatte sequestrare. Il nostro mestiere è fatto di scelte e devi farle in tempo reale, a decidere si sbaglia a non decidere non si sbaglia mai”. Repubblica e Corriere Nella vicenda tra Repubblica e Corriere, nello screzio tra Scalfari e De Bortoli con chi stai? “Io lavoro nel gruppo Rcs, vesto questa maglia e quindi sto con il Corriere. De Bortoli, ha reagito con compostezza e determinazione cantandole chiare, è stata una reazione, che io condivido. Certo mi sarebbe piaciuto vedere un Corriere un po’ più aggressivo, ma sono gusti personali. Il Corriere si sta sforzando in questo casino dell’informazione italiana, di riacquistare o mantenere un equilibrio, e mentre è in corso una battaglia civile e mediatica non è facile mantenersi in equilibrio. Uno sforzo da sostenere, non è facile mantenere un’equa distanza o giudizio. E poi ci vuole rispetto per chi ha votato il premier, come dice De Bortoli, se la maggioranza vota lì non puoi dire che sono tutte teste di cazzo”. Settimanali e quotidiani Stai avvertendo la settimanalizzazione dei quotidiani, non senti la loro concorrenza? “La settimanalizzazione dei quotidiani è in corso da tempo perché sono aumentate le pagine, sono alti, devi riempire, c’è questo saccheggio dei temi, dello stile e dell’impostazione avvenuto da tempo. Mi preoccupa il saccheggio di Internet. L’informazione vive del lavoro delle redazioni, così per Araberara, così per il Corriere, così per Oggi. Ma con internet tutti trovano alle 6 di mattina pezzi interi saccheggiati su internet, sui vari siti, e a quel punto perché uno deve andare in edicola? Noi facciamo carta stampata al meglio e io cerco di tutelarla”. Panchina Aspetti che qualcuno bussi e ti offra la direzione di un giornale? “Piero, guarda io sto sereno in Rizzoli, sto anche bene, quello che è successo con Villa Certosa, non ho vergogna a dirlo, un po’ di logoramento me lo aveva dato. Io poi so fare settimanali tipo Oggi anche se poi il mestiere lo applichi a qualunque formula giornalistica, se sai lavorare bene. E’ anche vero che il mercato è immobile, non partono giornali nuovi. Non mi aspetto offerte ma magari mi richiamano, ma senza fretta e senza logorio, mi sento bene così”.

Nella vita, come nella scultura, bisogna togliere… sono un moscerino nel pianeta, ma almeno a uno che sta morendo, gli prendo la mano e lo aiuto a morire”

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Mauro Corona, scultore, scrittore, parte di un bosco, albero, pianta, montagna, artista e altro, molto altro. Una concezione di vita particolare, con l’anima che va colta e il corpo che quasi va da solo, in mezzo a una montagna o anche sotto una valanga, partiamo così: “Sì, Io sono finito in una valanga perché avevo capito che veniva giù, ma come quelli del Vajont ho voluto dire: mah forse… e invece mi ha preso ed il mio amico è morto lì, stesso punto perché l’altro sì e io no? Questo segno di matita che è la vita, un segno curvo, chi più lungo chi più corto, chi non parte nemmeno, il suo era finito lì, probabilmente aveva da fare altra roba nell’altro mondo, oppure io sono uno sfacciato, fortunato”. Scultore senza studi ma con una guida particolare, Mauro lo capisce dal suo primo lavoro, il più importante. “La Via Crucis di Massa Cile, e non ho nessun problema a dire che quello è il mio più bel lavoro, non come tecnica, lì a digiuno di tutto ho fatto una Via Crucis ottima e senza tecnica, senza niente e da lassù mi ha guidato la mano, non c’è niente da fare, perché non è possibile fare una via Crucis a digiuno di tutto, come se tu ti metti lì a fare una Via Crucis, lì io mi sentivo guidare da qualcosa, che mi diceva taglia lì, in tre mesi l’ho fatto, oggi che ho la tecnica mi ci vorrebbe un anno per fare 14 pannelli”. E tu da lì hai deciso di abbandonare casa tua? “Sì perché ho capito che mi potevo mantenere, e questo grazie a un tizio, Renato Gaiotti che non l’ho più sentito e mi ha dato fiducia e lo meritava perché la riconoscenza è un sentimento di neve, quando arriva il sole si scioglie la neve e si scappa pur di non doverti dire ‘te lo devo’”. Corona le sue notti le passa coi libri, in mezzo al mondo delle valli. Leggi sempre di notte? “Quasi sempre, io dormo tre ore. E come disse Borges, non c’è nessun libro cattivo, perché anche se è una porcheria, c’è una riga che ti può sconvolgere la vita, e perciò qualsiasi incontro, anche noioso, però ti può arricchire, guai selezionare l’amicizia, un gesto di arroganza, insopportabile e imperdonabile, si qui vengono anche delle persone noiose che ti tirano le palle lunghe, ma io devo essere tollerante e capire perché uno si comporta cosi, ci saranno delle cose alla base, avrà avuto una vita infelice, forse non sarà riuscito a leggere un libro, le persone non vanno subito tranciate, poi chiaramente se uno mi annoia la prossima volta cerco di evitarlo, ma non con cattiveria. Guai al mondo, bisogna aspettare, anzi io ho ricevuto le più grandi lezioni da analfabeti, mio nonno che mi diceva, quando incidi un albero per fare l’innesto tu devi mettere le mani cosi, perché prende paura l’albero e gli viene la febbre, mio nonno era analfabeta ma questa qui è letteratura, era un signore un metro e 95, lui mi diceva servono 100 quintali di legna, se facevi 101 ti spaccava le mani, quel quintale lì serve ad altri, tutta una lezione, andavamo a rane per mangiare, ne volevo prendere di più e impacchettarle, niente da fare, calcolava anche le rane”. Certo che fa impressione che in tempi di povertà la gente calcolasse l’essenziale. “Perché dovevano vivere con quello e dovevano stare attenti alla natura, dovevano averla sempre, quindi non distruggevano un bosco come un mio amico che arriva qui in Ferrari per distruggere boschi, io gliel’ho detto, tu devi prendere quello che ti serve per vivere, 5 milioni al mese, va bene, ma non 15, e qui bisogna educare i bambini”. Sì, siamo cosi ci accorgeremo quando saremo sull’orlo del precipizio, allora da animali feriti che hanno il sentore della morte… “Lo diceva Rudolf Stainer nel ‘23, ha fatto più di 5000 conferenze, aveva previsto la mucca pazza nel ‘22 quando l’animale verrà cibato con l’altro animale impazzirà, leggetevi Stainer” E’ vero che con Sgarbi hai litigato? “Non proprio, è venuto una po’ di volte, poi se l’è presa perché avevo una scultura non finita che rappresentava una maternità e mi ha chiesto quanto volevo, metti che gli ho chiesto mille euro, e lui mi ha detto: ‘no ti do la metà perché non è finita’ e io ti do metà scultura, ho preso la motosega e l’ho segata”. Il tuo amico Marco Paolini ha portato in giro “Vajont”. “Si Paolini abitava qua in Vajont e il primo spettacolo durava 20 minuti, poi lo ha arricchito, c’è dentro di tutto, tre bevitori che raccontano pezzi di anima di chi allora c’era, leggera, ma che si infila dappertutto”. E poi i libri che escono e arrivano dappertutto, te li ritoccano gli editori? “No, neanche una parola”. Quindi una grandissima fiducia? “Mah! forse fretta”. Corona racconta aneddoti: “Io ho avuto fiducia nelle persone che mi hanno dato fiducia, Einaudi, adesso Mondadori, ha creduto in me, ma prima sapevo che c’era qui in zona la Feltrinelli, vado lì con il malloppo, mi avvicino… ‘mi scusi vorrei…’. ‘No guardi se vuole un autografo li c’è Tabucchi’, ‘ah va bene! mi scusi’, Avevo il malloppo nello zaino e allora sono andato da Tabucchi e mi sono fatto firmare il libro”, E con Mondadori quanti libri ti sei impegnato a scrivere? “Tutti quelli che farò, eh si la riconoscenza è un sentimento di neve, ne ho più di due o tre, fabe per bambini, di gnomi cosi ecc quello è bello”. Tu e il vino, un rapporto strano, ultimamente però in un tuo libro dici che è un prezzo che si può non pagare: “Sì, bisogna usarlo ma non pagarlo, bisogna insegnare ai bambini la conoscenza, il dominio della cosa, perché anche io ho sempre bevuto, però faccio anche dei mesi solo con acqua, perché voglio vedere con me stesso… non si può essere succubi di una cosa. Io oggi ho acceso il toscano, ma erano settimane che non lo accendevo, prima fumavo 4-5 pacchetti di Camel al giorno fno all’anno scorso. Una mattina mi sento un cumulo dentro mentre corro e mi sono detto basta, ora non fumo più e non ho più fumato e non ho avuto drammi né traumi, io ho detto non fumo più e non ho più fumato, ogni tanto accendo la cicca ma senza respirare”. Anche se oggi non c’è più la passione per il vino, ma c’è lo stordimento del vino. “Mi sono accorto che i giovani bevono da matti, vogliono farsi male, bevono male, perché se noi andiamo a pranzo, ci beviamo una bottiglia di Cabernet e ce la raccontiamo per ore tranquilli e invece i giovani si annientano, l’ho visto a Milano l’altra sera, c’erano diversi miei amici che scrivevano li alla Bocconi, gente piena di soldi e molti con cocktail di superalcolici, io mi sono bevuto le mie due bottiglie di bonarda, so che cos’era. Questi qua mischiavano wiskhy e coca cola a manetta. E poi anch’io non sono un grande esempio. Un giorno in una scuola a Trento dove mi avevano invitato a parlare al termine della lezione mi sono infilato in un bar a bere whisky, i ragazzi mi hanno seguito e bevevano anche loro, se lo fa una scalatore allora vuol dire che non fa male. Un’altra volta mi sono arrampicato in California, sono venuti a farmi un’intervista e li ho stesi, abbiamo bevuto una quindicina di prosecchi”. Con tuo padre nei tuoi libri a volte sei andato giù pesante, soprattutto nel tuo libro sul vino: “Se le merita, se le merita, però in questo libro sul vino lo prendo in braccio, quando mi ha dato un destro sono finito di là nella strada ed ho sfondato una porta, una vita di pacche e di botte, adesso basta gli ho detto, gli ho dato io un destro, lui era venuto su in mutande, perché picchiavo alla porta per avere da bere, erano le tre di notte e gli ho tirato il destro ed è finito in fondo alle scale e poi ho guardato se si alzava e ho visto che gli usciva un po’ di sangue dal naso, a me usciva dall’orecchio, ‘ah’ mi fa in italiano ‘il giovanotto è diventato coraggioso, ho un po’ di arretrati da darti se vuoi incominciamo’, ero deciso, e lui: ‘e se prendo la doppietta?’ Vediamo chi arriva prima a prenderla, gli ho detto, ma poi ho capito, questo braccio mi pesa come il piombo, oggi a distanza di trent’anni, perché allora ne avevo venti, questo braccio me lo segherei e memore del colpo, sei mesi dopo, abbiamo fatto ciucca entrambi. Ma lui era così, una volta abbiamo portato mia mamma all’ospedale, mi chiama mio fratello alle tre, dobbiamo portare all’ospedale la mamma che ha la testa rotta, cosa aveva fatto: di notte lui gli ha chiesto di trovargli le sigarette, lei è uscita dalla porta sotto, lui aveva dei sassi sulla finestra, per colpire i gatti di notte che miagolavano, e glieli ha tirati in testa perché lei non andava a prendere le sigarette ed era lì quasi morta, quasi in coma e anche all’ospedale abbiamo detto che dal tetto vecchio della stalla è caduto un sasso. Glielo abbiamo detto, adesso basta e lui ti guarda con quegli occhi, ti fulmina, ‘adesso basta perché se no ti mandiamo dentro’, e si è calmato un po’ ma non tanto, forse la cultura, l’educazione, i fallimenti, l’essere stato piantato dalla moglie, dopo sette anni o otto rimettersi insieme, non le digerisce queste cose, però lui c’è ed è così. L’albero che non dà frutti va tagliato, è scritto nel vangelo ma non è mica vero, bisogna lasciarlo li perché è comunque un albero anche se non da frutti, ti dà già il frutto di essere albero”. Simon Vail ha detto che la distruzione del passato è forse il più nostro grande crimine. “Sono d’accordo, ma non è che doveva essere cosi perché ha una durata, è un fiume la vita, non puoi metterti li con le mani a frenare il fiume. I ragazzi hanno il cellulare, le automobili, sanno quanti peli ha sul culo Schumacher… non c’è niente da fare… e allora… non lo so… Grignaschi era uno che ne sapeva, se ti leggi ‘immigrazioni’, forse uno dei più bei libri, tutto il passato è un abisso fosco e spaventoso, ciò che è entrato in quel crepuscolo non esiste più, e non è nemmeno esistito. Il passato è come noi con il Vajont, ma non bisogna usarlo a fni di rivalse o di pietismi, lo si ricorda per fermare un’epoca, come noi abbiamo trovato le scritture egiziane”. Ma non credi che ci si sia accorti di te perché ci sono delle radici che non possono essere recise? Nei tuoi libri c’è in fondo una memoria che non è mai nostalgia, ma documento. “Nostalgia mai, qualche volte mi scappa, io dico sempre: un libro è un’intervista non richiesta, tu di un autore conosci vita morte e miracoli, non vuole dirtelo ma te lo dice inconsciamente. Quando leggi un libro capisci come è chi l’ha scritto, lui lo ha fatto per colpire il lettore, ma inconsciamente è lui… ve lo giuro, io sono più quello dei miei libri che quello che fa lo spavaldo per difendersi dalla timidezza, faccio lo spaccone ma è solo a fn di protezione, e invece nei libri trovi la persona e non c’è…”. Nei tuoi racconti ci sono molti tipi originali… “Si i miei maestri”. Ma perché in fondo se anche io penso al mio paese, le nostre comunità erano piene una volta di tipi originali, e oggi pare che ci sia un’omologazione? “Un appiattimento, è il famoso globalismo, ma non lo si deve combattere spaccando vetrine altrui, Qui c’era gente di un’originalità, c’erano musicisti, c’era uno che cantava la Tosca dalla A alla Z, ma proprio perfetta, c’era gente di cultura, gente che leggeva, ho libri del 1700 ereditati da mio nonno, oggi invece c’è un appiattimento anche perché la gente, i ragazzi non hanno più voglia, o vogliono diventare famosi, quindi pezzi unici, capito che non lo potranno mai… se non qualcuno di quei poveri diavoli che vanno al Grande Fratello, perché anche questa è cattiva cultura, la tv ha rovinato i ragazzi, l’uomo che non deve chiedere mai, il tonno che si taglia con un grissino, queste cagate varie, ti lascio tre giorni senza cibo e dopo il tonno è buono comunque anche se lo tagli con l’ascia, e questa… e questi ragazzi che non sono mone, hanno capito e dicono va beh non posso arrivare li però ci provo, e quando fanno il concorso di bellezza Miss Italia, Miss Paese, Miss Valtellina che non sanno neanche dove è… non ci arrivano e si appiattiscono e allora cosa fanno, va beh mi adeguo: il cellulare, la macchinina, la morosetta, questo non voler più provare a fare le loro cose perché gli hanno insegnato che le devono fare solo in funzione di diventare famoso, uno non può più suonare la chitarra perché non può diventare John Lennon. Suona la chitarra perché ti piace, no, la suono perché voglio diventare… e questo è il cataclisma e qua è colpa dei mezzi pubblici: tv, giornali, riviste, sfilate di moda… Mi girano i coglioni, giro la tele perché mi documento… sono abbonato a tre, quattro quotidiani e vedo che danno una notizia ma almeno equilibrate le notizie, danno la notizia di una barca che sprofonda con 80 persone morte, un secondo dopo Pitti Moda a Milano, stride, fate un programma di moda che chi lo vuole guardare lo guarda, vuol dire che non gliene frega niente, la moda va staccata dalla tragedia, quanto meno per il rispetto, capisci, ma siccome il rispetto non c’è, mettono un minestrone, è cosi, non posso mettere apposto il mondo, però le vedo”. Tu come ti sei difeso dall’omologazione? “Perché ho imposto la mia legge, tra virgolette, senza arroganza io sono andato a ritirare il premio San Vidal a Venezia, avevo vinto un premio con la Tamaro, lei prima con Sempre Bartali, un bel tipo lei, grandiosa, ha bevuto anche 5 o 6 prosecchi con me, entro cosi con il mio zainetto, e mi fanno, dove va lei? qui. No, no lei non può entrare. Va beh allora arrivederci, però poi gli ho dato la stoccata: l’assegno però me lo mandate a casa, erano 7 milioni a quei tempi, allora, hai visto, siccome io non ero con il frac, con i calzoni, mi hanno cacciato via, io mi sono difeso in questo modo imponendo la mia volgarità, però quando hanno cominciato a parlare di libri, ho rinunciato a tante cose per salvare la mia naturalità, la chiamo cosi, non è una recita, e questa naturalità di dire le tue debolezze, prima di affrontare una situazione, devi metter sul piatto il fallimento, allora ti salvi”. Un Mauro Corona natur? “Naturale, predico sempre ai ragazzi, siate naturali ragazzi, non puoi conquistare una donna e dire, io sono il maschio, perché se sprofondi, è una tecnica anche vigliacca la mia, però dà i suoi frutti, non ho mai affrontato una situazione col vincere, non ho mai scritto attaccando la montagna, chiedendo permesso se ci lasciava salire, e cosi con donne e così con i racconti, scrivevo e bruciavo quello che scrivevo, ho bruciato 200 racconti, foto di infanzia, l’album di matrimonio, che mia moglie non me lo ha più perdonato, e io gli ho detto: ne facciamo un altro matrimonio e lo rifacciamo, quello impossibile Quindi quando tu dici: ci si può difendere dall’omologazione? Con una formula, la tua naturalità, presentarti come sei”. Ma si è avvantaggiati qui rispetto a Milano? “Qui devi sviluppare il bosco che hai dentro di te, non puoi dire, trovare la scusa, Corona è fortunato… io non ho mai visto la Pietà di Michelangelo però sapere che esiste mi fa vivere meglio e non andrò mai a vederla, non voglio rovinarmi questo mistero, l’ho vista purtroppo sui libri ma da vicino no, non vado a vedere perché mi rompe un sogno perché voglio morire sapendo che c’è la Pietà di Michelangelo e mi fa stare bene, è la tecnica degli uomini che vogliono sempre impostarsi, non me ne frega più niente, ho fatto vie nuove, ne ho fatte più di 300, perché volevo impossessarmi, volevo andare a vincere, adesso vado su montagne che ho fatto 30/40 volte, non voglio più scoprire, impossessarmi, accumulare, non posso, e quindi uno che sta a Milano… io ci sono stato l’altro ieri, e mi sono seduto li davanti al Duomo e guardavo gli alberi umani che passavano e mi dicevo: forse quello ha dei problemi chissà dove va quello con quella borsa, era un arricchimento incredibile, ma devi arrivare a quello se no, e invece dobbiamo catturare, vedere questo, quell’altro…”. Ai tuoi figli pensi di essere riuscito a trasmettere questa scuola di vita? “Si, fino ad un certo punto, perché poi ora adesso, due sono a Roma a vedere la Cappella Sistina, perché mio figlio fa la scuola di scultura accademica, e va anche bene, perché se a 20 anni non hai la curiosità, sei morto, però sanno anche sottrarsi, ma questa non è una fortuna, perché non sono cosi stronzo da dire che i miei figli stanno bene, li ho educati bene. Non ho detto fate cosi, se tu dici fai, non puoi dire ad un ragazzo non devi bestemmiare e poi tu bestemmi, adesso loro hanno un bagaglio, se lo usano bon, se no uscirà l’animale che è in loro”. Insisti molto su questo fatto… “Perché ho avuto un’infanzia, ma tutta una vita, che difficilmente sorrido e tiro le pacche, sono un uomo allegro, diceva Balzac: solo gli sciocchi sorridono alla mattina e a colazione. Questo per dirti che il bosco interiore va coltivato, perché tutti non possono andare a dormire sugli alberi come me, sì lo faccio ancora in primavera, perché mi sento più vicino al cosmo, al creato, alle anime dei morti, le notti di primavera nelle radure li senti li attorno e se ti concentri un po’ senti le voci di questi folletti, gnomi, sono i nostri morti, sento il mio corpo che si adegua alla terra che non ha più freddo, non ha più paura, trovi giovani che hanno paura a dormire fuori ma che discorsi sono questi…”. Un grande scrittore ha detto non calpestare questi fori, ma per il vento è inutile poiché non sa leggere. “Sa leggere. il vento. Una volta o due all’anno organizza un pullman e venite qui, perché no? facciamo scuola all’aperto, facciamo un percorso, facciamo vedere ai bambini che ogni albero ha una propria storia, non costa mica bilanci eccessivi, il costo di un pullman, e invece i docenti non lo fanno perché devono ritirare la paga e basta, questa è la realtà. Voglio dimostrare che con lo scarto di legno, quello che chiamano scarto, si può fare una libreria, ma tu prova a proporre una libreria, li nei salotti dove tutto è lucido e di moda, ti ridono in faccia, qua c’è la forza della terra di Dio nel tronco cosi come è, se gli metti le mani addosso senti l’energia che viene fuori, e non dare mai vernice al legno, se no gli uccidi il fluido, ma non perché non esce più, ma perché si sente offeso e chiude la porta”. Un legno vivo? “Ci parlo, qualsiasi scheggia, io ti faccio un folletto. Non esiste il legno di scarto, o faccio fuoco, che è la stessa roba anzi forse vale di più, perché dà calore, vita”. La tua grande passione della montagna? “Quella è nel DNA, sai, una roba ricevuta, chi scala vuole imporsi, la vera montagna è camminare con le mani in tasca, sederti su una cima e aspettare, ascoltare, sono quelle le mie vere scalate. L’arrampicata è una paura che ha l’uomo e vuole imporsi, io aspetto il tramonto su una cima e se mi va dormo li, e la terra sembra una montagna che mi abbracci e sto li e ascolto: senti il picchio che lavora di notte, senti i guf, senti Dio perché devo tornare a casa se non ho nulla da fare, se ho un appuntamento con te, ma per vedere la partita no, sto li. Eh no, non rinunciano alla partita o alla Formula 1, eliminati. Con questi amici andrò a bere vino al bar e basta”. E trovi spesso Dio? “Si e se vi siete accorti lo abbiamo anche qua in questa chiacchierata, però…”. Quindi la montagna come godimento. Ma devi avere una ricchezza che stiamo perdendo tutti, che è la ricchezza del tempo. “E’ questo che dico ai giovani, investite in tempo libero, ma se tu il tuo tempo lo devi usare tutto per diventare qualcuno… se alla fne hai un pasto al giorno e tempo libero, l’umanità starebbe meglio. Prima non era così, quando scalavo all’inizio contava il riconoscimento degli altri. Io sono stato una carogna, ho umiliato un alpinista, sono passato dove lui non è riuscito a passare, però devo dire che ho rischiato la pelle, perché se volavo ero steso, però questa non è una scusante, è un’ulteriore imbecillità, perché perdevo tutte quelle piccole cose… meglio essere qua con voi a bere un litro di vino”. Però essere cosi staccati dalle cose è veramente un gran dono. “Non è semplice, un mio amico plurimiliardario, potrei farvi il nome, mah, anzi posso anche farvelo, Zanussi, lo portavo ad arrampicare, gratis chiaramente, su una via in Civetta la via Tissi. Questo qui aveva dei cani, quelli che tirano le slitte, gli aski, aveva una cucciolata a Cortina e, dopo una vita di arrampicate, (mia fglia Melissa aveva otto o nove anni, adesso ne ha 21) gli ho detto me ne daresti uno per mia figlia (Melissa aveva otto o nove anni, adesso ne ha 21)? 800 mila lire, mi fa, io non li avevo se no per mia figlia glieli avrei dati, adesso li avrei ma mia fglia non lo vuole più il cane, abbiamo quel trovatello lì, ma ti cadono le palle sai, e non l’ha fatto per cattiveria, è che lui è cosi geneticamente, cresciuto in famiglia dove non bisognava dare nulla, neanche l’aumento di 5 lire all’operaio, e questo qui è emblematico, che roba, no io non sarò mai un artista, non vorrei fare nomi ma artisti famosi che si fanno pagare 3 o 4 mila euro un disegno, roba così, e io dovrei star qui con voi e dirvi, dammi 150 euro, mi taglio le mani piuttosto, prendetevi tutti i disegni che trovate lì, che io ne torno a fare altri perché a me servono a passare il tempo e a divertirmi, dopo dove vanno non mi interessa, anzi mi interessa che li abbiate voi in questo caso. E’ semplice vivere e invece c’è gente, è la cultura, la tradizione, la crescita… Diceva F. Monreal: la storia di Bordeaux è la storia del mio corpo e dell’anima, e qua siamo sempre cresciuti nella miseria, nel tener conto di non dare, io ho voluto rivoluzionare questa cosa cosi, perciò io lo faccio con il cuore di cominciare a rompere la tradizione, che a volte è negativa, quasi sempre”. Sei quasi sempre nella tua baita, in mezzo ai monti? “Ogni sera in baita, stufo delle persone. La gente arriva qua per farsi firmare un libro, e mica li puoi cacciare via, ma poi indagano, sono cattivi, cominciano a dirti, ma li hai fatti proprio tu i tuoi libri? No ho una vecchietta che mi fa i libri”. Molti mi chiedono come tu riesci a rimanere naturale dentro in questo mondo editoriale. “Perché scappo, mi sottraggo, io sono andato a Francoforte, perché ho due libri tradotti in tedesco, ed era giusto che andassi li con la Mondadori a presentare questa mia vita, questi libri, ma poi torno subito qui. Ho rinunciato a programmi tv, non mi interessa proprio, si viene qua e si chiacchiera, vedi questo qua è il mio comportamento, che a volte dico anche altre cose, magari mi sveglio con una giornata no e dico anche cose più cattive a volte, ma è cosi”. Bello anche quelli che dicevi alle montagne: si deve chiedere il permesso… “Non abbiamo vinto nulla, ci ha solo lasciato passare, perché era gentile ed è per quello che io odio il chiodo forato, perché tu distruggi, stupri, tu prendi una donna che non te la dà e la violenti, è la stessa tecnica, è solo che per la donna ti condannano ed è giustissimo, la montagna no, ti permettono di sforacchiare tutte le pareti, se la montagna in quel momento ti dice alt, torna giù, abbi l’umiltà. No devo forarla, allora tiriamola giù con la dinamite. E’ l’arroganza dell’uomo che vuole sempre vincere in tutto”. La montagna è una maestra di vita? “Si, l’umiltà, la serenità, la dolcezza, la montagna non tira scherzi, se ne sta li, sento della montagna assassina, siamo noi gli assassini di noi stessi, e basta, la montagna è dolce, il torrente, io l’ho detto in un libro, quando è morto uno ragazzo, uno scout, perché non ha capito la voce, quando piove otto giorni il torrente diventa tumultuoso, perché fa casino, perché ti dice attento perché sono pericoloso, sono incazzato, non attraversarmi, i ragazzi non leggono questa voce, il libro della natura. Se sotto la parete c’è un ghiaione immenso la montagna mi dice che è friabile e che quindi se vado su di là rischio di cadere, perché si stacca”. Per ascoltare le voci bisogna far silenzio e la montagna da questo punto di vista aiuta. “Ma la montagna e i boschi sono interiori”. Tempo fa hai detto che è 25 anni che sei sposato e sono 25 anni che non dormi con tua moglie. “Con la moglie si va a scopare, non a dormire, i camosci dormono soli. Io alle donne non ho mai fatto del male, ma neanche mi comandano, cioè il senso del basti tu, ti basti, non hai bisogno di una donna o delle cosce per dormire, ma hai bisogno dell’essenziale, come scolpire, devi tirar via, c’è poco da fare, insomma uno che dipende dall’amore vuol dire che è come l’alcolista che non beve più, è più schiavo di prima, l’alcolista che non può nemmeno condire l’insalata, che se gli arriva l’odore del vino ci ricade di nuovo, quello è più schiavo di prima, farebbe meglio a bere. E’ la dipendenza che io non sopporto, bisogna che l’uomo abbia coraggio, questa non è una cosa da supereroe, bisogna abbassarsi , questa è la tecnica di salvamento, non puoi vivere la tua vita dipendendo da qualcosa, se no sei finito, e allora la tecnica del vincitore è quella di perdere, quello che predico nelle scuole.

Alle sorgenti della coca

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Alle sorgenti della Coca

Co l o m b i a , B o l i v i a , Perù. Pezzi di mondo diversi. Pezzi di mondo dove la cocaina dà e ha dato da mangiare a tutti e continua a darlo. Giorgio Fornoni è andato nei tre Stati, si è infilato in mezzo a guerriglieri, carceri, montagne e foreste a cercare l’origine della coca, ecco il reportage straordinario di quello che ha raccolto.

Bolivia: rapporto dal carcere

«Ero incinta di otto mesi, mancava molto poco alla nascita del mio bambino. Quando mi hanno chiuso dentro ero disperata. Non capivo cosa stava succedendo… Ero su una corriera… c’era una borsa… hanno creduto all’autista e agli altri, invece che a me. Prima mi hanno messo in una cella, nel posto di controllo di Mamuro, poi a Chimorè, nel carcere di Chimorè… Quando mi hanno chiuso dentro continuavo a ripetere “Perché proprio io? Non vedete in che stato sono? Non sono di queste parti, vengo da Montero, non ho famiglia, non ho una madre né tanto meno l’aiuto di un padre. Io voglio uscire di qui”. Mi hanno detto che ero venuta a comprare. “Come a comprare?”, ho risposto. “Non ho neanche i soldi per mangiare…”. E così, dopo due giorni, hanno rilasciato gli altri passeggeri della corriera e mi hanno tenuto dentro. Io non avevo nemmeno i soldi per un avvocato e così mi hanno portato qui. E quando è nato il mio bambino, dopo un mese che stavo a Chimorè, non avevo neanche un pannolino per fasciarlo… sono venuta qui il 28 di ottobre, dopo un mese dal parto. Stavo ancora molto male, non avevo soldi, non avevo di che procurarmi da mangiare… perché tutto qui funziona solo col denaro, nessuno mi aiutava. Non so come, ma è passato. Ora non so cosa succederà, se riuscirò mai a tornare libera. Ma io voglio uscire di qui, perché non ho avuto l’affetto di una madre né di un padre e dunque voglio essere madre e padre per il mio bambino. Non mi aiuta nemmeno il padre del mio bambino. Questa è la mia storia, tutto quanto posso dire. Perché qui c’è soprattutto gente di campagna, madri che hanno 5, 6 figli, ci sono tanti bambini. E’ gente che non sa difendersi, sono ignoranti, molti non sanno leggere né scrivere e così non possono nemmeno difendersi. Gente di campagna, quando i veri trafficanti di droga, i veri colpevoli restano liberi. Quelli che ci ingannano e guadagnano sulla nostra pelle e se ne restano fuori. Qui c’è gente condannata per poche decine di dollari. Quelli che hanno i soldi vivono tranquilli, se sono presi escono dal carcere il giorno dopo. Con 1000 dollari escono quando vogliono e qui restano quelli in attesa di sentenza come me. Sono in carcere da più di otto mesi, nove dal 6 di agosto…» Questa è la tragica testimonianza di una giovane donna, Gabriela, rinchiusa nel carcere di San Sebastiàn di Cochabamba, una città delle Ande boliviane, in nome della legge 1008. La legge 1008 Distesa in una conca tra l’altopiano andino e la selva, Cochabamba è la città più moderna della Bolivia. Negli ultimi anni ha avuto uno sviluppo travolgente rispetto agli standard del paese e il fatto che sia il terminale naturale della produzio ne di coca non vi è certamente estraneo. I suoi 400 mila abitanti sono orgogliosi del grande Cristo della Concordia, che benedice dall’alto la città e le sue tante contraddizioni. Divisa tra voglia di sviluppo e stridenti contrasti sociali, la Bolivia vive in fondo il dramma di tutto il sud del mondo. Che deve fare i conti ormai non solo con i tanti problemi interni ma anche con le imposizioni del mercato globale. La legge 1008 anti-coca è stata approvata su diretta pressione degli Stati Uniti per ottenere l’ambita “certifcazione” annuale che apre i prestiti internazionali alla Bolivia. Ho seguito uno dei raid quotidiani che i “leopardos” dell’Umopar, le squadre speciali addestrate dall’ente antidroga americano, compiono nelle foreste dell’immenso Oriente boliviano, per colpire alla fonte la produzione di coca e cocaina. E che hanno portato nella regione del Chapare, al confine con l’Amazzonia, un clima da guerra civile. I “pisacoca”, i pestatori di coca, sono campesinos o ex minatori che guadagnano poche migliaia di lire a notte, lavorando una foglia di quella magica pianta che dona 4 raccolti l’anno, cancella da secoli la fame, il freddo, la fatica degli indios, rappresenta la nuova ricchezza e la maledizione di tutti i paesi andini. Poche ore di marcia e i “leopardos” scovano la loro preda. I cocaleros sono già fuggiti, ma hanno abbandonato il campo solo da pochi minuti. I soldati bruciano tutto. Pozze di macerazione come quelle incontrate nascono e muoiono ogni notte, a decine, in tutto l’immenso Eldorado verde della selva andina. Vi si ricava poco più di un chilo di “pasta basica” che verrà poi raffinato altrove. Valore locale: circa 300 euro, destinato poi a crescere di 200 volte sul mercato internazionale della cocaina. Si calcola che le piantagioni della Bolivia forniscano annualmente 150 mila tonnellate di foglie di coca, una buona fetta dell’intera produzione andina. Il settore dà lavoro più o meno diretto a non meno di 50 mila campesinos. Il grande imbroglio della legge 1008 nasce anche dalla obiettiva difficoltà a distinguere tra la coca prodotta per l’uso tradizionale, permessa entro certi limiti, e quella destinata alla produzione di droga per l’estero. Nonostante la guerra dichiarata ai cocaleros, le coltivazioni sono cresciute negli ultimi anni da 10 mila a 50 mila ettari. E nonostante le grandi quantità sequestrate, escono dal paese dalle 4 alle 600 tonnellate di cocaina l’anno. Con un giro di affari, per l’economia sommersa boliviana, stimato nell’ordine dei 2 miliardi di dollari. E’ da posti di controllo come la “Trinca” che nascono gran parte delle storie e dei drammi personali che si possono ascoltare nel carcere di San Sebastiàn. Un carcere modello? Sono entrato in questo carcere, che è suddiviso in due sezioni, maschile e femminile, accompagnato dai rispettivi cappellani. Don Giuseppe Ferrari, prete della diocesi di Bergamo; era rettore del seminario, però trovava il tempo anche per fare da cappellano nel carcere femminile. Questo è uno strano carcere senza sbarre, dove 400 donne e bambini vivono in un’atmosfera da mercato paesano. La legge boliviana prevede infatti che i detenuti già condannati possano ospitare dentro il carcere i propri familiari. Ma l’80% delle detenute è in attesa di giudizio, alcune da oltre un anno. Il sovraffollamento, la fatiscenza delle strutture, le condizioni di vita nel carcere femminile di San Sebastiàn hanno provocato proteste, scioperi della fame, donne incatenate alle inferriate. Alcune detenute sono arrivate addirittura a cucirsi le labbra. Chiedevano la celebrazione più rapida dei processi e la possibilità, pur prevista dalla legge ma raramente applicata, dell’extra-muro, il lavoro fuori dal carcere durante il giorno. «Dicono che questo è un carcere modello – dice Eleonora Cardoso – E’ una menzogna: questo è un deposito di persone. Ma dov’è la giustizia qui in Bolivia? Ogni giorno vediamo entrare e uscire i veri trafficanti. Arrivano con grosse macchine, concordano il minimo della pena prevista». «Qui ci trattano male – fa eco Rosana Claro – non abbiamo nemmeno dove riposare. La giustizia non va avanti, si dimenticano di noi. Le nostre carte sono sempre in ritardo, i processi sono fermi. Sono in carcere da due anni e mezzo, con una condanna di cinque anni e quattro mesi e nessuna possibilità di poter uscire a lavorare. Non c’è nessuno che mi aiuti e invece io devo guadagnarmi la vita per sostentare me stessa e i miei figli. Loro sono fuori di qui, abbandonati a se stessi, non posso tenerli con me per via del sovraffollamento del carcere. Siamo in tante e dobbiamo dividerci le già poche possibilità di lavoro che esistono… I veri colpevoli non sono qui, sono fuori, liberi di continuare ad arricchirsi e sfruttare la povera gente». Con la famiglia La sezione maschile di San Sebastiàn è dall’altra parte della piazza. Entro accompagnato dal cappellano, un missionario svizzero. A prima vista non si capisce chi siano i detenuti e chi gli ospiti. Poco più di 2000 metri quadrati per oltre 1000 persone. I detenuti ricevono un contributo statale di 15 centesimi di euro al giorno per la sussistenza e dunque devono arrangiarsi da soli. Negli ultimi anni, l’applicazione della legge 1008 ha fatto raddoppiare la popolazione carceraria boliviana. Quattro detenuti su 5 sono in attesa di giudizio. Anche qui, donne e bambini condividono con i reclusi le restrizioni di un carcere, e questa atmosfera surreale tempera in parte la severità della legge. Nel labirinto delle loro celle, a sorpresa, trovo anche un europeo, un ragazzo norvegese. «Sono qui da due anni – mi dice – condannato a 6 anni e 8 mesi. Senza droga, senza prove, solo per i miei precedenti. Tutto per via della legge 1008. Viviamo chiusi in uno spazio ristretto, letteralmente uno sopra l’altro, e così dobbiamo imparare a convivere, come in una grande famiglia. Quando si vive in una casa di 1700 metri quadri, 400 detenuti, 150 donne, 150 bambini, più la gente in visita, ci si possono fare anche dei nemici. E questi siamo costretti a incontrarli anche 10, 20 volte al giorno, per via dello spazio a disposizione. Io credo che sia un bene non dividere le famiglie, permettere che restino unite. C’è almeno questo vantaggio qui, che l’uomo soffre meno, ci si fa coraggio a vicenda, la famiglia resta unita”. C’è anche il detenuto ricco, Alberto Harteaga: «Ecco qua, sono stato condannato a 13 anni senza che mi abbiano trovato addosso un grammo di droga o di sostanza controllata. Per una delazione mi han chiuso qui, ci sono da 3 anni e me ne hanno dato 13, senza aver trovato un milligrammo di droga. Quella cella l’ho comprata con 3500 dollari, per avere almeno qualche comodità». Da chi si comprano le celle? «Si comprano da chi era qui prima di noi, passano da una mano all’altra quando uno se ne va. Anch’io la passerò a qualcun altro quando uscirò di qui, e così via». Un porto di mare Un grande condominio sovraffollato. Con i suoi drammi, le sue storie, il carcere di Cochabamba ha una capacità di resistere, organizzarsi e sperare che rappresenta la sua grande lezione. Anche alla “nostra” società, quella che comincia al di là delle sbarre alle fnestre, dove il cappellano svizzero ha costituito una struttura per accogliere i bimbi più piccoli dei carcerati e i preti bergamaschi hanno creato la “Ciudad del Nino”: oasi di speranza.

 

Colombia: droga e guerriglia

Con un territorio vasto quasi 4 volte l’Italia su cui abitano neanche 20 milioni di persone, la Colombia porta il nome del grande navigatore Cristoforo Colombo. Fin dall’inizio, qui come altrove, si trattò di conquista e conseguente sfruttamento dei nativi sia nelle encomiendas, enormi piantagioni in cui si privilegiava la coltivazione del caffé, sia nelle miniere, famose quelle dell’oro e degli smeraldi (questi ultimi insieme alla coca sono al primo posto nelle esportazioni). Genocidio di popoli e scomparsa di civiltà antiche e raffnate i cui reperti si possono ammirare al Museo de Oro di Bogotà. Mentre il miscuglio di popoli formatosi nella zona, compresi gli schiavi africani, ha creato un crogiuolo di razze e di culture che non ha eguali nel resto dell’America Latina. Ora il 57% della popolazione è meticcia (incrocio spagnolo-indio), 20% bianca, 14% mulatta (incrocio spagnolo-africano), 5% nera, 2% zambos e solo 2% nativa. Colombiano è anche Gabriel Garcia Marquez che ha messo su carta le emozioni e la poesia di un popolo. Terrore tra la gente La Colombia è una repubblica presidenziale democratica. Quando nel 1990 è stato eletto presidente Cesar Gaviria, esponente del Partito liberal, ha cercato di fermare l’ondata di terrorismo scatenata dai narcotraffcanti di Medellin. Questi infatti durante la presidenza del suo predecessore Virgilio Barco – che seguiva in pieno la politica antinarcos voluta dalla Dea (corpo speciale americano antidroga) che esigeva l’estradizione di chi risultava colpevole di aver esportato cocaina negli Stati Uniti – avevano seminato il terrore nel paese uccidendo militari, giudici, politici, giornalisti, semplici cittadini con auto-bombe che scoppiavano tra la folla, e persino Carlos Gavan, il superiore di Gaviria, durante la campagna presidenziale. Dopo questa uccisione, Gaviria non aveva potuto far altro che candidarsi lui stesso. Appena eletto, con una legge, cancellò l’estradizione e offrì grossi sconti di pena a chi si costituiva, sia che operasse tra i narcos che tra la guerriglia. Pablo Escobar, il re dei narcos, fu il primo a costituirsi (era ricercato da 5 anni) seguito da tanti altri. Ma non è cessata la coltivazione e la lavorazione della coca. Anzi: al posto dei capi fniti in prigione altri si stanno facendo avanti, al “cartello” di Medellin se n’è aggiunto un altro, quello di Cali; si moltiplicano, nelle vallate impervie dove le milizie governative non mettono piede, nuove coltivazione di coca sotto l’alta vigilanza della guerriglia. Padre Luigi Pedretti, monfortano, opera a Principe, un centro di coltivazione e di commercio del Vichada, in cui guerriglia e narcos la fanno da padroni. E “Principe”… era il suo nome Sette giorni da Bogotà per arrivare nel Vichada orientale, confine tra Colombia e Venezuela, foresta tropicale, habitat per la guerriglia e luogo ideale per la produzione e raffinazione della coca; sette giorni ed altrettanti notti a bordo di camion, di fuoristrada, di zatteroni e canoe… e km. e km. percorsi a piedi, attraversando città, savane, fumi e foreste – quanta acqua – è il periodo delle piogge. Arrivo a “Principe”‚ è domenica. La musica… i soldati guerriglieri, le prostitute, la coca, la pesatura della coca in ogni angolo, gli ubriachi, le “cerveza”… il sole, la pioggia, il rumore, gli odori… è una cosa impressionante. Mi ritrovo in un attimo sommerso da tutto questo. Come al tempo dei cercatori d’oro, “arrivano” da ogni dove; sono: ladri, delinquenti, ricercati, disertori, prostitute, disoccupati e… illusi, accecati dal miraggio di un facile ed immediato guadagno; questo è… Principe; questo è un centro, punto di incontro del gioco, della prostituzione, della guerriglia e della… coca. Ti fanno entrare in una sala da gioco se dai un sacchetto di coca… ti fanno entrare in una “encomienda” se tu paghi con la coca… ti fanno bere “cerveza e aguardente” se tu paghi in coca… tutto ruota attorno alla coca. Siamo vicini ai campi di coltivazione dove i coqueros raccolgono, raffnano e ottengono la polvere di coca. L’odore dell’ammoniaca ti entra nella testa e ti penetra nelle ossa. Una ragazza coltivatrice dice che tre tipi sono importanti: la Amara, la Dolce e la Peruana. La coca fa tutto e pensa cosa costa: 250 pesos un grammo, sarebbero 27-28 centesimi di euro… Cosa costerà nel nostro mondo di consumatori? Le bottiglie di “aguardente e cerveza”, si vuotano a fumi e si ammassano sui tavoli, le ragazze abbracciano smorfosamente questi lavoratori di coca: per una notte spesa con loro lasciano un bel sacchetto di coca, non ne conosco il peso ma il sacchetto è piuttosto grande, quanta fatica e quanta illusione. Un momento dopo vado a parlare con il capo dei guerriglieri del Vichada, non tanto grande ma bell’uomo nell’aspetto. Lo trovo anche molto intelligente. Jon Luis è il suo nome – gli chiedo il permesso di fotografare; lo ottengo fatta eccezione per i guerriglieri. Guerriglia e coca La guerriglia è in tutto lo Stato Colombiano, non solo qui nella zona amazzonica. L’unica opportunità per prendere il potere è quella di raccogliere intellettuali poiché‚ manca di guide culturali… e poi la guerriglia non è unica, sono tante branchie, almeno una ventina una delle quali è FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), un’altra è ELN (Esercito Liberazione Nazionale); c’è una coordinazione guerrigliera che cerca di riunire tutti i movimenti di guerriglia ma trova difficoltà. Il leader delle guerriglie Colombiane è Navarro Wolf. Era presidente della M19, è riuscito a lasciare le armi e a riscattarsi nella vita civile diventando presidente della riforma costituente – ora è Movimento Democratico 19 de April (MD 19 de April). Qui nel Vichada, la guerriglia tiene a bada i coqueros e la vita pubblica, in cambio riceve danaro riciclato dal commercio della coca, il narcotraffico è dilagante. Piccoli aerei (avionetas) partono e arrivano in incognito anche qui a Principe. Andiamo a mangiare e bere insieme e di tanto in tanto fotografo la pesatura della coca, sono finito in mezzo alla guerriglia. La musica continua, è buio… i giovani, le ragazze, la “cerveza”… continuano a ballare… a lasciarsi andare… e cessando di piovere… la nebbia sale. Questi ragazzi e ragazze, il mattino dopo, alle 5, si svegliano dal loro sogno, lasciano il paese dell’illusione e ripartono su un barcone, accompagnati dal loro Coquero (Duegno) e per più di un mese lavoreranno nelle nascoste piantagioni e come paga prenderanno più coca che “plata”. La coca la scambieranno al prossimo rientro a Principe, dove scaricheranno… i sogni e i guadagni… e la vita continua… e la musica continua. I guerriglieri mi autorizzano ad entrare nei campi di coltivazione ad assistere alla lavorazione della coca; i coqueros e i raspadores raccolgono la foglia di coca dalle pianticelle (Raspada), per poi tritarle e porle in salatura con cemento e acido solforico; il tutto viene messo in benzina o gasolina per la fermentazione, ottenendo il siero, con pergamonato e ammoniaca si ottiene il Basuco che essicato dà la coca. I vari gradi di cristallizzazione, si ottengono con l’etere e l’acetone. L’uggioso agosto avvolge la Colombia in un manto di pioggia continua, il che rende ancora più triste l’atmosfera di questo paese ormai ostaggio dei narcotrafficanti. Appena fuori la mia stanzetta, una madre depone un bimbo, dentro ad un’amaca appesa, lo dondola, lo carezza… lo fa addormentare e lo sa… amare25

Mons. Beschi: “Sto ascoltando, per capire” Il Vescovo in visita pastorale… ricognitiva

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“Parliamo alla pancia della gente ma senza dimenticare il cuore”

Arriva in un paese, in una parrocchia, in un santuario, scende dall’auto con il sorriso di chi si vede e rivede volentieri, stringe mani, accarezza, ascolta. “Sì, in questo periodo credo sia importante ascoltare. Tutti”. Mons. Francesco Beschi è arrivato da pochi mesi in Diocesi di Bergamo dalla vicina Diocesi di Brescia. Il suo proposito è di non essere invadente. Ascolta. Ma per ascoltare deve uscire dal “palazzo” della Curia, in città alta, vuol farsi un’idea sua, senza preconcetti, non si può accontentare di quello che gli riferiscono. Quindi si è messo a girare come una trottola per la Diocesi, con la “scusa” che deve presenziare alle feste patronali, alle cerimonie, commemorazioni, anniversari, va bene tutto, purché la gente possa parlargli. Mai visto un Vescovo che, al termine di un pranzo comunitario, passa a salutare centinaia di commensali uno per uno, scende nelle cucine e stringe le mani di cuochi e cuoche, si ferma al bar a bere un caffè con gli avventori del giorno, ascolta quello che gli sussurra una donna anziana, un signore con il volto segnato da qualche dolore non rimarginato… E poi i suoi preti, certo. Ma anche quelli che stanno in piccole parrocchie, lontane come la stella più lontana dalla madre terra, che magari si sentono dimenticati se non proprio abbandonati. E ha un fiuto mediatico paragonabile, a quel che ricordo, solo a quello di Mons. Clemente Gaddi, ma adesso i mezzi di comunicazione si sono moltiplicati e ognuno di loro però raggiunge fedeli che non sentono la voce del loro Vescovo da tempo e la possono magari sentire solo lì, in quella piccola televisione. Nemmeno un gesto di impazienza per le stesse, scontate domande, fa niente, il Vescovo è qui. Mons. Beschi, nel suo ascolto, ha già percorso in lungo e in largo la Diocesi, senza annunci eclatanti. Si ha l’impressione che registri tutto quello che sente, che vede. “Dovrà pur fermarsi, prima o dopo”, mi ha detto un parroco, sorpreso da questo attivismo pastorale. I suoi preti in effetti stanno aspettando, alcuni il botto, altri anche un piccolo segno che risvegli una Diocesi ripiegata su se stessa, che non ci ha capito molto in quello che le è successo attorno in questi ultimi due decenni, abituata da sempre a un signorile ma ferreo controllo anche sociale e politico, si ritrova in molti paesi a essere quasi marginale, a marciare fuori passo o addirittura a segnarlo, il passo, con da una parte E in mezzo a questo cambiamento qual è allora la missione della Chiesa? “E’ una domanda importante, tante volte dobbiamo denunciare quello che succede, perché semplicemente è un male, perché questo considerare solo noi stessi ci porta a rovinarci con le nostre mani. Tutto questo ha investito anche la Chiesa e a mio giudizio nelle nostre terre, nelle nostre zone, abbiamo dato per scontato la fede, una grande fede di tradizione, ma dobbiamo custodire la tradizione, la fede si alimenta con il confronto costante, con le istanze di un mondo che cambia”. Anche nel linguaggio, con le sue forme ripetitive, che sono rimaste le stesse degli anni ’50, ’60, quel camminiamo insieme sempre con le stesse parole, non ha più presa, la gente cerca un linguaggio innovativo, lei trova pronti i preti a un cambiamento? Il vescovo sospira e sorride “Vediamo. Desidero ascoltarli tutti, ma voglio e sto già dicendo loro di dire qualcosa che non sia ripetitivo, ma prima devo ascoltarli e proprio dall’ascolto nasce tutto, si capisce cosa c’è che va o non va, manca l’ascolto, dappertutto manca l’ascolto, di questo abbiamo bisogno , nelle famiglie e nelle comunità non ci ascoltiamo a sufficienza, sembra quasi una gentile concessione”. Intanto proprio l’ascolto o perlomeno il tempo di ascolto ha fatto la differenza. Qualcuno ha parlato alla pancia della gente, la Chiesa al cuore o forse ha mirato alla testa, qualcuno invece si è infilato nella pancia e poi penso al secondo comandamento, quello dell’amare il tuo prossimo come te stesso, parlando alla pancia questo comandamento ha perso valore, è sparito, è mancata la fiducia ma questo era la vera rivoluzione del cristianesimo o no? “Questo discorso del parlare alla pancia è molto serio, la pancia comunque fa parte della un senso di impotenza di fronte ai cambiamenti e la tentazione catacombale di chiudersi con un piccolo gruppo di “resistenti”. E gli stessi potenti mezzi di comunicazione che la Diocesi ha avuto, oggi faticano a fotografare e interpretare. Mons. Beschi ascolta. Poi arriveranno le grandi scelte, le grandi decisioni. * * * Eccellenza, Lei sta girando fin dalla sua nomina in tutte le parrocchie, non è che sta facendo una sorta di visita pastorale ricognitiva? “Quello che lei sta dicendo è vero, non ho la pretesa di farla con tutti i crismi delle visite pastorali ma il desiderio di poter conoscere la realtà delle singole parrocchie, anche se comprendo che è una maniera approssimativa, della realtà bergamasca, ma è uno degli intenti. Oltre questo sta nel mio animo quello di cercare di avvicinare le persone, perché perlomeno sentano anche solo l’attimo di un saluto, noi siamo i pastori nostra umanità, ma anche noi comunità dobbiamo arrivare alla pancia senza dimenticare che il centro però è il cuore, la testa va riportata al cuore che è l’io profondo elaboratore della nostra vita. Non bisogna parlare alla pancia sollecitando forme istintive della paura, quelle delle prese di distanza, del sospetto, pur avvertendo alcuni bisogni fondamentali delle persone. La forza delle nostre Chiese, non solo di quelle dislocate in tutto il mondo è sempre stata quella che il prete e la comunità sono sempre stati vicini ai vissuti della gente. Dobbiamo tornare a persee dobbiamo entrare nelle comunità”. Il suo è un cambiamento innovativo notevole, tenendo conto della centralità della curia bergamasca, erano i preti a essere convocati in curia, lei invece va a vederli sul campo: “Anch’io li convoco, in questi mesi ne ho incontrati tantissimi a livello personale, fra poco poi ci sarà la consueta assemblea del clero e quella diocesana, ma certamente incontrarli sul campo è un’altra cosa, ci tengo a fare visite vicariali lì nell’ambiente in cui lavorano, mi sembra importante, in questo modo mi sto rendendo conto della varietà della diocesi di Bergamo”. Anche Brescia però dove lei operava prima è molto varia: “Sì, con tutto il rispetto fra le due realtà c’è una grandissima affinità, cambiano molto a seconda che ci si trovi nella Bassa, nelle Valli o in città, per questo è importante entrare nelle varie realtà e trovare dal punto di vista pastorale risposte diversificate”. La Chiesa ha sempre trasmesso fede e fiducia. Fiducia laica e fede cristiana, tutte e due strettamente connesse, come ha detto lei poco fa nell’omelia. E’ venuta a mancare la fiducia, l’egoismo è dilagato e di conseguenza si è sfilacciata anche la fede. Cosa è successo in questi ultimi 20 anni? La nostra gente prima era fiduciosa e piena di fede e adesso? “Il Vangelo esplicitamente denuncia il cammino di un progresso di cui, se da un lato non possiamo che compiacerci, dall’altro purtroppo ha fatto coltivare e crescere un’illusione che ognuno possa bastare a se stesso. Ognuno ha fatto di sé il centro, e lo si capisce dalla disgregazione delle famiglie, dallo sfaldamento delle comunità. La relazione con l’altro avviene con il costante sospetto che l’altro possa rovinare o rubare la nostra vita. Questo è l’altro aspetto del progresso”. seguire quella vicinanza”. Intanto da mesi cominciano a circolare nomi su chi sarà il vicario generale, ha già un’idea? “Il Vicario Generale è ancora in incubazione”. Ma è in pectore? “No, non ancora, diciamo che sta proprio incubando la sua uscita. Intanto però devo davvero rendere omaggio a quanto sta facendo Mons. Lino Belotti che mi sta aiutando tantissimo”. Con la sua scelta del vicario poi si capiranno tante cose. Mons. Beschi ride: “Sì, si capiranno tante cose”. Come mai alcuni parroci sembrano inamovibili e sono nello stesso posto anche da 14 anni mentre, anche con le ultime sostituzioni, quelle di questi giorni, sono stati mantenuti i dettami del sinodo di spostarli dopo 9 anni? “Il capitolo delle destinazioni l’ho dovuto affrontare anche a Brescia, ci sono dei criteri generali impositivi che col tempo cambiano. E’ necessaria maggiore mobilità rispetto al passato ma passare dalla teoria alla pratica lo confesso, non è semplice”. La Diocesi di Bergamo sul fronte media è sempre stata fortissima, adesso c’è un po’ di crisi, soprattutto a L’Eco di Bergamo. C’è poi stata la crisi di Radio Emmanuel che è stata chiusa, ma poi c’è la tv più grande come Bergamo Tv e radio Alta. Ci si devono aspettare dei cambiamenti? “Su Radio Emmanuel sto facendo una seria riflessione. Sto riflettendo su questa esperienza, voglio provare a farla diventare una comunicazione ‘bassa’, nel senso una radio ecclesiale, desidererei collocarla lì ma sto cercando di capire come. Per quanto riguarda L’Eco è innegabile la grandezza dell’opera che si rifà alla sua storia ma ci sarà bisogno di un’ulteriore riflessione anche critica ma in questo momento c’è l’apprezzamento di una grande storia che in questo momento mi conforta. Poi è necessaria per me una conoscenza soprattutto della realtà bergamasca per capire come viene riportata sui media, devo capire se quello che traspare è la nostra provincia e per farlo ci vuole tempo”. Allora ci risentiamo fra sei mesi? “Volentieri”. Volentieri.

Uomini senza frontiere

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GIORGIO CONTESSI

“…noi volontari siamo osservatori privilegiati che possono vedere l’orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante misero fardello. E poi raccontare, urlare, le privazioni dei diseredati, la lontananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri terremoti, contro cui è davvero difficile, se non impossibile costruire argini o rifugi…”. Carlo Urbani, medico, ex-presidente di Medici Senza Frontiere Italia Viviamo in una società dell’informazione “ad alta velocità”. Ma tutto il mondo ci entra davvero in casa? L’informazione va al risparmio, almeno per un’ampia fetta di mondo. Di alcune aree di crisi del pianeta si parla poco e ad intermittenza e questo non aiuta a comprendere ciò che ci circonda e a dare le risposte adeguate. Medici Senza Frontiere (MSF) è nata con due obiettivi: portare soccorso alle popolazioni in pericolo, ma anche fare testimonianza. Raccontare la vita e le sofferenze delle popolazioni vittime della guerra, delle malattie e delle catastrofi naturali, è per noi essenziale. E’ affermare che milioni di profughi, donne vittime di violenza, feriti di ogni genere, esistono. Raccontare significa anche sollevare un problema che altrimenti rischia di rimanere sconosciuto e richiamare alle proprie responsabilità, nei confronti delle popolazioni in pericolo, i governi e le istituzioni, significa lanciare un grido d’allarme quando persino la nostra azione, l’azione umanitaria indipendente, viene ostacolata. Molte delle crisi umanitarie che attraversano imenticate, perché i media se ne occupano troppo poco o affatto. Per questo MSF da alcuni anni pubblica il rapporto “Crisi dimenticate” (www.crisidimenticate. it). Il quinto rapporto riguarda il 2008 e presenta una triste “top ten”, quella delle dieci crisi umanitarie più gravi e ignorate nel corso del 2008 a livello internazionale, accompagnata da un’analisi italiana realizzata dall’Osservatorio di Pavia sullo spazio dedicato alle crisi umanitarie dalle principali edizioni dei telegiornali Rai e Mediaset. Le dieci crisi umanitarie identificate da MSF come le più gravi e ignorate nel 2008 sono: la crisi sanitaria nello Zimbabwe; la catastrofe umanitaria in Somalia; la situazione sanitaria in Myanmar; i civili nella morsa della guerra nel Congo Orientale (RDC); la malnutrizione infantile; la situazione critica nella regione somala dell’Etiopia; i civili uccisi o in fuga nel Pakistan nord-occidentale; la violenza e la sofferenza in Sudan; i civili iracheni bisognosi di assistenza; la confezione HIV-Tubercolosi. Nel 2008 ad un paese come l’Etiopia – gigante del Corno d’Africa e non minuscolo staterello – i telegiornali italiani hanno dedicato 6 servizi durante tutto l’anno. Eppure nella regione somala dell’Etiopia la popolazione è esclusa dai servizi essenziali e dagli aiuti umanitari, la situazione è drammatica a causa degli scontri fra ribelli e forze governative e della siccità, aumentano le malattie e diminuisce la quantità di cibo disponibile. Il caso etiope non è l’unico, ma ben rappresenta l’ottica di risparmio che l’informazione, soprattutto quella televisiva, presta alle zone di crisi del mondo e che viene evidenziato dal rapporto 2008 “Crisi dimenticate”. L’attenzione alle aree di crisi del pianeta, peggiora di anno in anno. L’analisi delle principali edizioni (diurna e serale) dei telegiornali RAI e Mediaset nel 2008 conferma la tendenza riscontrata negli ultimi anni di un calo costante delle notizie sulle crisi umanitarie, che sono passate dal 10% del totale delle notizie nel 2006, all’8% nel 2007 fino al 6% (4.901 notizie su un totale di 81.360) nel 2008. Per alcuni dei contesti della “top ten”, l’attenzione dei media si concentra esclusivamente su un breve lasso temporale in coincidenza con quello che viene identificato come l’apice della crisi. È il caso del Myanmar, di cui i nostri TG si occupano solamente in occasione del ciclone Nargis, che rappresenta solamente l’ennesimo colpo inferto a una popolazione quasi dimenticata dal resto del mondo, dove l’HIV/AIDS continua a uccidere decine di migliaia di persone ogni anno, così come malaria e tubercolosi. E in Africa? E’ il caso del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), dove anche nel 2008 sono proseguiti i combattimenti tra l’esercito governativo e diversi gruppi armati, degenerati in una vera e propria guerra a partire da agosto, che ha provocato la fuga di centinaia di migliaia di persone. I TG hanno parlato della crisi solo in occasione dell’assedio di Goma a ottobre e novembre, e già a dicembre la situazione era tornata a essere una crisi dimenticata. Nel caso di crisi umanitarie cui i TG hanno dedicato uno spazio notevole, come l’Iraq o il Pakistan, va notato come le notizie relative alla drammatica situazione umanitaria della popolazione civile irachena o di quella del Pakistan nord-occidentale, rappresentano una netta minoranza. Vengono invece privilegiate, nel caso dell’Iraq, oltre alla cronaca degli attentati, notizie incentrate sul coinvolgimento italiano o statunitense nelle vicende irachene; nel caso del Pakistan, le elezioni e gli attentati. Infine, anche per il 2008 viene confermata la tendenza, da parte dei nostri media, di parlare di contesti di crisi soprattutto quando sono riconducibili a eventi o a personaggi italiani o occidentali. Emblematiche sono la crisi in Somalia, a cui i TG hanno dedicato 93 notizie (su 178 totali) che coinvolgevano uno o più nostri connazionali; la malnutrizione infantile, di cui si parla soprattutto in occasione di vertici della FAO o del G8; il Sudan, cui si fa riferimento per iniziative di sensibilizzazione che vedono coinvolti testimonial famosi e per notizie circa l’inchiesta da parte della Corte Penale Internazionale per il presidente del Sudan. Fra le dieci crisi umanitarie la più dimenticata è una questione medica: la co-infezione HIV-Tubercolosi. La Tubercolosi (TBC) è una delle principali cause di morte per i malati di Aids, tuttavia, sono state appena cinque le notizie dedicate dai principali TG italiani alla tubercolosi in tutto il 2008. E la confezione HIV-TBC non ha avuto alcuna copertura nei TG durante il 2008, anche se negli ultimi 15 anni si sono triplicati i nuovi casi di TBC nei paesi ad alta incidenza di HIV-Aids, con forte aumento in particolare nell’Africa meridionale. A fronte di tale quadro, MSF ha lanciato nei mesi scorsi anche la campagna “Adotta una crisi dimenticata” (con il patrocinio della Federazione Nazionale della Stampa Italiana – FNSI), per chiedere a quotidiani e periodici, trasmissioni radiofoniche e televisive e testate on-line di tutta Italia di impegnarsi a parlare nel corso del 2009 di una o più crisi dimenticate. L’azione di stimolo costante nei confronti dei mass media è essenziale, affinché non tralascino di informare sulle realtà dei numerosi contesti, nell’erronea convinzione che questi non interessino. Per raccontare la vita quotidiana di un pezzo di mondo che sta nell’ombra. E’ una sfida non solo informativa, ma anche etica. *Giorgio Contessi, giornalista, 33 anni, è originario di Lovere e lavora dal 2008 all’ufficio stampa di MSF a Roma.