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Fino all’ultimo respiro

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Per anni in attesa dell’esecuzione i condannati a morte vivono in celle di cemento e acciaio con una luce al neon sempre accesa

Livingston, Texas, una cittadina della quieta provincia americana, 90 miglia dalla capitale dell’astronautica Houston. Un’incredibile grande barriera di filo spinato segna il confine con un mondo lontano come un altro pianeta, il luogo delle vite sospese del penitenziario Polansky Unit. All’interno, 447 detenuti attendono l’esecuzione della loro condanna a morte. Negli Stati Uniti i detenuti già condannati in attesa dell’esecuzione sono 3.697 ed il Texas vanta il triste primato con una media di 40 esecuzioni ogni anno. Tutte le carceri dure americane sono off-limits per un giornalista, ma dopo tre anni di estenuanti tentativi ecco che finalmente nel gennaio scorso ottengo l’autorizzazione ad entrare nel braccio della morte del Texas. Fa una brutta impressione attraversare tutto quel fi lo spinato. Prima si è setacciati a fondo, poi una pesante lastra di ferro si apre, scorre su binari e si richiude rumorosamente alle spalle.

Accompagnato entro in uno dei blocchi di cemento e acciaio; si percorrono lunghi corridoi e… il rumore dei passi, lo scorrere delle pesanti porte di acciaio, lo sbattere dei cancelli delle celle e la voce degli altoparlanti… quello è un non mondo. Non un colore, non un sorriso, non una musica. Poi la grande sala colloqui divisa tra il mondo dei vivi ed i condannati a morte, che lì, visitatori e prigionieri, possono divisi da una pesante lastra di vetro, comunicare le emozioni e sensazioni, ed attraverso l’interfono sentire la voce e scambiare i pensieri. Sono di fronte a Mariano Rosales, 66 anni, nel marzo 1985 uccide la moglie Mary e l’intera famiglia del suo amante. Da allora non è che la matricola 814. Chi mi accompagna, alza il braccio, tira su la camicia dal polso, mi mostra l’orologio e dice: forty fi ve minuts – 45 minuti – questo è il tempo che mi concede per l’intervista.

Ho di fronte un uomo sulla sessantina, pelle scura, messicano, scuri gli occhi ed i capelli, che mi sorride. Un breve saluto e poi l’intervista. Come è stare qui dentro? Sono colpevole ed è giusto che paghi per le mie colpe, ma nessuno può rendersi conto di cosa significhi vivere qui dentro, sei giù fisicamente, ti senti solo, ci sono detenuti che vorrebbero uccidersi, ma non è permesso. Ditelo in Italia: il modo in cui viene data la pena di morte è troppo semplice, e non serve a bloccare il crimine.

Perché sei finito in carcere? Ero ubriaco, mia moglie mi aveva lasciato. Io stavo impazzendo di gelosia. Non avrei mai pensato di essere in grado di fare una cosa del genere, di uccidere. Credevo di essere una persona forte… ero come impazzito. Sono entrato armato di pistola in quella casa, dove sapevo esserci mia moglie. Ho ucciso Patricia di 19 anni, sua sorella Rachele di 14 anni incinta di 7 mesi, il ragazzo di Patricia e poi sono arrivato in quella stanza dove ho trovato mia moglie Mary e Ector il suo amante… non capivo più niente.

Ho scaricato loro addosso i colpi che rimanevano. Come è la vita qui dentro, come ti trattano. Non vi hanno mai raccontato nulla del braccio della morte? E’ davvero un posto terribile dove vivere non è vivere. Riesco a sopravvivere, ad accettare tutto questo perché credo in Dio, in Gesù Cristo, ma è un posto dove stai 23 ore al giorno senza vedere fuori, senza vedere nessuno, solo muri tutto intorno. Possiamo uscire all’aria aperta solo 1 ora al giorno. Non ci sono contatti umani e anche quando usciamo abbiamo le mani legate dietro la schiena. C’è privacy, come sono le celle? Tutto è molto stretto, la cella misura 9 piedi per 10 (neanche 2 metri per 3 circa), il posto per un wc, una mensola che funge da tavolino e un letto. Dai muri si sente quello che succede nelle celle vicine.

Ci sono due aperture da cui le guardie possono vedere dentro. Cos’è che ti manca di più? Poter toccare ed abbracciare i miei fi gli e i miei due nipotini… non sono belli? -schiaccia contro il vetro le foto dei suoi nipotini- …non sono belli? -mi ripete piangendo. Come vivi l’attesa… Cerco di vivere senza pensare troppo al giorno della mia esecuzione. Cerco di essere forte spiritualmente e di pensare che le cose possono ancora fi nire bene. Comunque sono pronto a qualunque cosa Dio vorrà. Quindi c’è ancora posto per la speranza nel braccio della morte… Sì, non l’ho mai persa, credo in Dio ed aspetto di entrare in una vita migliore. Come ti senti ora? Quando un uomo è privato della sua libertà come lo sono io che sono rinchiuso da 20 anni, caro amico, anche solo venire qui e poter ammirare attraverso questo vetro il colore degli alberi e del cielo, mi fa sentire più vicino a Dio e mi da un po’ di speranza, perché anche un condannato a morte ha speranza. Mi alzo tutti i giorni con il rimorso per quello che è successo, ho sbagliato e prego i famigliari delle vittime di perdonarmi per ciò che ho fatto. Sento una mano che mi batte sopra la spalla, ho un soprassalto. E’ il guardiano che mi dice: “Finish!”. Saluto Rosales. Appoggio la mia mano al vetro e lui la sua. Ci salutiamo così, “grazie” gli dico, “adios” e lui mi risponde “scrivimi, scrivimi”.

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Per anni in attesa dell’esecuzione i condannati a morte vivono in celle di cemento e acciaio con una luce al neon sempre accesa. L’ora d’aria la passano in una stretta gabbia di ferro dove tra le sbarre di un soffi tto altissimo si vede il cielo. Il rimbombo delle serrature, gli specchi visori, i pulsanti elettrici, le luci elettroniche, suoni metallici e le guardie armate sono la vita inquietante di quel non mondo che sprofonda nel nulla i condannati a morte. Poco dopo sono di nuovo tra i “vivi”. Nonostante il largo consenso popolare verso la pena di morte, ribadito in tutti i referendum, ora la mentalità sta cambiando e più del 40 per cento degli americani si dice comunque contrario. E non sono pochi gli attivisti che si battono per la sua completa abolizione.

A Houston incontro David Atwood, fondatore del movimento contro la pena di morte in Texas: “La tragedia di questa vicenda è che esistono detenuti che stanno anche 25 anni nel braccio della morte. Il motivo per cui tanta gente è a favore della pena di morte credo sia una lunga storia di tradizione qui in Texas. I governatori l’hanno sempre applicata,viene presentata come un deterrente. Ma anche nel caso di persone colpevoli è una inutile brutalità … non avrei mai sospettato che potessero esserci degli innocenti nel braccio della morte, ma in questi anni ho scoperto anche questo. Se è vero che una democrazia dovrebbe proteggere i propri cittadini, allora non dovrebbe andare contro il diritto sacro della vita”.

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Le polemiche sulla legittimità della pena di morte nascono soprattutto dalla preoccupazione che la sentenza possa colpire un innocente. Non sarebbe del resto la prima volta. Nel gennaio 2004, dopo aver trascorso 23 anni nel braccio della morte, grazie al test del DNA, Nick Yarris è stato riconosciuto innocente: “Nessuno mi potrà risarcire della mia vita, il mio passato è perduto –mi dice Yarris piangendo – non c’è legge che prevede un mio risarcimento per ciò che mi hanno fatto, come posso pretendere giustizia se non c’è legge che mi tuteli. Recentemente il mondo ha potuto vedere le torture di Abu-Grybe, Charles Graner, ufficiale della Pensilvenia che si è macchiato di questi crimini, ha lavorato nel mio carcere… l’ho visto fare qui le stesse cose fatte in Iraq. Io ero innocente. Guardate cosa hanno fatto alle mie mani – e me le mostra alzandole – …vedete cosa mi hanno fatto?”

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Ancora David Atwood… “Abbiamo bisogno di fermarci e di rivedere il nostro sistema giudiziario. La corte Suprema dice che è un sistema che funziona ma che ci sono troppi errori. Quello che succede in Illinois, con il governatore Ryan , il fatto che abbia scoperto molti errori giuridici ed abbia sospeso molte esecuzioni è eclatante”.

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Chi difende la pena di morte chiama immediatamente in causa il suo valore di deterrente per i crimini più gravi. Ci si chiede allora perché negli Stati Uniti vengono commessi quasi 20.000 omicidi ogni anno che significa 1 omicidio ogni 12.500 abitanti, invece in Italia dove la pena di morte non c’è, abbiamo 1 omicidio ogni 93.000 abitanti? Nel gennaio 2003, George Ryan, alla fi ne del suo mandato, ha commutato in ergastolo le condanne a morte di 167 detenuti e graziato altri 14 a suo giudizio innocenti. L’ho incontrato a Chicago: “Quando nei primi anni ’70 iniziai la mia carriera politica ero a favore della pena di morte. Poi diventai governatore dell’Illinois e dovetti analizzare alcuni casi di detenuti nel braccio della morte, tra cui la vicenda di Antony Bore che doveva essere giustiziato da lì a poco, aveva passato 16 anni nel braccio in attesa dell’esecuzione. Un gruppo di studenti scoprì il colpevole e Bore venne liberato 24 ore prima di essere giustiziato. Questo mi fece acquisire una nuova prospettiva sulla pena di morte e decisi di analizzare… Il sistema giudiziario nello stato dell’Illinois ha delle falle. 26 persone sono state condannate a morte e poi si è scoperto che erano innocenti. 14 sono state scarcerate ma 12 sono state giustiziate. 26 persone condannate a morte innocenti. Capite? E’ un pessimo sistema e penso che l’Illinois non sia l’unico stato dove si incappa in errori giudiziari.”.

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“Non è vero che la pena di morte è riservata alla gente che ha commesso i crimini più feroci – dice Suor Helen Preyan, autrice del libro da cui hanno tratto il fi lm Dead Man Walking – in realtà è riservata a povera gente perché tutte le 3600 persone che sono nel braccio della morte incluse quelle del Texas, sono tutte povere. E’ vero che hanno commesso terribili crimini, quando vai a vedere le ragioni a volte bisognerebbe riflettere, ma loro non possono pagare il grande avvocato e ricevono una difesa miserabile che non permette di beneficiare dei vantaggi previsti dalla Costituzione per i processi giusti”.

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A 40 miglia da Livingston, ad Huntsville, c’è un vecchio grande edificio di mattoni rossi, monumento nazionale, costruito nel 1848; è un carcere di massima sicurezza ed è l’ultimo edificio che vedono i condannati a morte del Texas alla fi ne del loro viaggio. Lì trascorrono l’ultima notte prima dell’esecuzione. Il giorno dell’esecuzione, le ore sono scandite da uno schema obbligato: -Mattino colloquio con il cappellano; -ore 12.00- ultimo pasto; -ore 14.00- ultima telefonata; -ore 15.00- visita della guida spirituale e dell’avvocato; -ore 16.30- passaggio per il miglio verde; -ore 18.00- iniezione letale. Accompagnato dalle guardie e dal cappellano il condannato a morte percorre un lunghissimo corridoio tra sbarre di ferro ed in fondo si apre una porta che dà accesso alla stanza della morte.

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“Tutti sappiamo di dover morire – mi dice il cappellano O’Bryan – ma nessuno sa quando. Questa è la grande differenza rispetto ai condannati a morte. E’ molto duro vedere una persona morire e vederla morire con il cronometro in un’ora stabilita”.

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Don Guido Todeschini che ha vissuto l’esperienza di accompagnare fi no all’ultimo un condannato, mi racconta gli ultimi momenti: “Verso le 17.30, l’esecuzione era per le 18.00, arriva un’altra guardia e dice: andiamo. Allora attraverso un corridoio stretto entriamo nel buio prima e poi siamo introdotti in una specie di piccolo antro dove si arriva a questa vetrata e dove nello squallore di una cella, steso su un patibolo, altroché lettino, io dico che mai chiamiamo letto la croce… la croce è croce e quella li è una croce. Era già steso e legato ai piedi e alle mani. Come disse al guardiano sono pronto, il guardiano ha dato il via. Noi non abbiamo visto coloro che hanno premuto i pulsanti per le tre iniezioni, perché tre sono state le iniezioni. La prima è una specie di sonnifero, la seconda è un veleno che va ai polmoni, la terza è un veleno che spacca il cuore. Il tutto in brevissimo tempo. Eravamo stati preparati a queste tre iniezioni, lo psicologo, il medico ci avevano spiegato come sarebbe avvenuto, probabilmente anche perché non ci impressionassimo certo è che come lui ebbe finito di parlare lui rimase, si vedeva proprio così, con gli occhi rivolti al cielo.

Ci siamo accorti che era arrivata l’iniezione ai polmoni quando ad un certo punto egli fece un gesto: Mmmmmm ed emise un rantolo. Così e tutto si sentì perché c’era il microfono aperto sopra il suo capo e noi avevamo l’altoparlante, poi io guardavo… non si è più mosso. Dopo qualche minuto entrò una persona vestita di nero, seppi che era medico perché portava anche gli aggeggi del medico. Allora controllò il cuore, i polmoni, aveva una piccola pila in mano apri gli occhi andò dentro, ha chiuso gli occhi, ha fatto così con l’orologio:18.24. Detto questo uscì, era la dichiarazione di morte”.

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Dietro una parete di vetro i parenti delle vittime del reato e i testimoni assistono… nel nome di un diritto riconosciuto dal fondamentalismo biblico che è alla base del sistema giudiziario americano. E poi i cadaveri vengono sepolti nel campo del carcere; è un luogo chiamato il cimitero dei criminali, dei condannati a morte. Un grande campo dove ci sono centinaia di croci di pietra e su quelle croci ci sono i numeri, non c’è il nome e il cognome, c’è la matricola.

Miseria e Nobiltà

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Sopravvivere con 250 euro al mese

L’asfalto profuma di terra e il golf bianco di G. non serve a riparare niente e nulla. Fa freddo dalle parti della famiglia di G. Lei 42 anni, lui 44, convivono da 11, felicemente, nel senso affettivo, poco felicemente nel senso remunerativo. Storia di nuove povertà, arrivate all’improvviso tra capo e collo, a raffreddare tutto e tutti. G e L abitano in un paese dell’Alto Sebino, 1150 euro lui, impiegato, lavori in nero per lei, donna delle pulizie quando capita. Un mutuo per la casa dove se ne vanno 600 euro al mese e prestiti un po’ dappertutto: “Abbiamo comprato il frigo a rate, il computer a rate, il divano a rate”, quello che resta, poco, serve per arrivare a fi ne mese, in mezzo bollette, assicurazione auto e imprevisti. Come quello capitato un mese fa quando l’auto di L finisce fuori strada, asfalto bagnato, gomme lisce da cambiare da tempo, auto dal carrozziere. 800 euro di riparazione imprevisti. 800 euro che non ci sono. G e L cominciano il giro delle banche, serve un altro prestito, appuntamenti, incontri, spiegazioni, niente di niente. G e L passano alle società finanziarie che controllano e scoprono che due anni fa G e L avevano saltato un mese di rimborso rata e allora non se ne fa niente, non ci sono garanzie. G e L girano in pullman da un mese, l’auto rimane dal carrozziere. Soldi non ce ne sono. Ce ne saranno quando G e L si affideranno a qualcuno che presta soldi subito, senza guardare in faccia troppo a rate e numeri, con tassi altissimi: “Gli strozzini ci sono anche da noi – racconta Simone M, promotore finanziario – praticano tassi altissimi e ti danno i contanti subito, una spirale da cui non esci più, ma purtroppo noi promotori e anche le banche abbiamo dovuto chiudere i rubinetti. I prestiti sono sempre più selezionati e controllati e molto più difficili da ottenere”. Michele e Simona invece sono sposati da poco, sei mesi, giusto il tempo di tirare assieme un appartamento, fare il mutuo per pagarlo e rimanere incinta, gravidanza inattesa, Simona che lavora con contratto a tempo determinato perde il posto e nell’appartamento appena acquistato manca la cameretta per il bimbo. Michele e Simona girano le banche alla ricerca di un nuovo prestito, niente, alla fi ne glielo concede una società finanziaria, tasso 20%, Michele guadagna 1200 euro, Simona non guadagna più niente, mutuo di 700 euro, 150 euro al mese per la cameretta e siamo a 850 euro. Michele e Simona vivono, devono vivere con 250 euro al mese, sperando che non capiti un dente cariato o una multa sul parabrezza, le società ffinanziarie non contemplano imprevisti.

Chi non si adatta alla povertà: “Una volta era il pane necessario per alcuni adesso è il cellulare ”

La famiglia M. abita dalle parti di Sarnico, una casa vicino al lago ereditata dai genitori, Alessandro, il marito fa il geometra per uno studio d’architettura, Michela la commessa in un negozio di abbigliamento part time. Due auto, una Audi A 3 per Alessandro, una Smart per Michela. Due auto prese a rate, 300 euro al mese per l’Audi, 200 euro al mese per la Smart. Lo stipendio di Alessandro è di 1500 euro al mese, quello di Michela di 550. In tutto 2.050 euro. Due auto, la donna delle pulizie una volta a settimana per un costo di 300 euro al mese che sommati alle rate dell’auto fanno 800 euro. E poi un’infinità di prestiti che hanno messo sul lastrico la coppia. “Il problema – spiega sempre Simone, il promotore finanziario – è che ci sono due tipologie di persone che chiedono il prestito, quelli che lo chiedono per beni di prima necessità e quelli che lo chiedono per beni voluttuari”. Alessandro e Michela hanno chiesto il prestito anche per un frigorifero da 2000 euro e poi per la vacanza di 4 giorni a Pasqua in una città d’arte Europea e poi l’ultima richiesta di pochi giorni fa che la finanziaria ha rifiutato: “Alla fi ne – spiega Simone – abbiamo dovuto dire no per l’ultimo prestito che ci ha chiesto l’altro giorno, per acquistare una piscina interrata in giardino, ma oramai sommando tutte le rate dei beni acquistati supera di gran lungo la capacità di rimborso. Una coppia che si ritrova con la lingua a terra e piena di debiti, in questo caso per acquisti non di prima necessità ma anche qui non è una novità. Le persone e le coppie che si indebitano per acquisti così detti voluttuari sono in vertiginoso aumento”, E’ cambiato lo stile di vita: “Altroché. Molti erano abituati a un tenore di vita che è sostenibile solo quando tutto gira per il verso giusto ma quando le ore di lavoro diminuiscono così come i redditi bisogna tirare il freno e invece continuano ad avere lo stesso livello. Una volta era il pane necessario per alcuni adesso è il cellulare, bisogna scindere e anche noi quando facciamo prestiti dobbiamo fare queste valutazioni. C’è poi un’altra caratteristica, gli italiani fi no a qualche anno fa erano delle vere e proprie formiche, era la caratteristica degli italiani, risparmiavano, adesso si spende quasi tutto e così quando capitano periodi di vacche magre si ricorre al prestito per qualsiasi cosa”. Due quindi le tipologie di chi richiede prestiti: “Sì, c’è chi ha bisogno per prima necessità e in quel caso il rapporto diventa quasi come quello degli assistenti sociali, all’inizio sono molto timidi e hanno quasi vergogna a parlare, poi prendono confidenza e raccontano tutto, anche situazioni drammatiche, credo ci sia un forte bisogno di sfogarsi, di liberarsi di angosce e paure, doversi ingegnare in ogni modo per arrivare a fi ne mese magari con bambini piccoli è un dramma, soprattutto per italiani che si vergognano a dover ammettere di non farcela più”. E poi i prestiti molte volte generano prestiti: “Per quelli che hanno davvero difficoltà il prestito non risolve il problema ma alla lunga lo aggrava, assomma somme da restituire ad altre somme e il dato pauroso è che le persone che chiedono prestiti sono in continuo aumento. Anche per noi non è facile concederlo perché sulla carta quasi sempre risulta solo il reddito del marito perché molte donne lavorano in nero e non può essere calcolato”. Meglio cercare di ottenere prestiti dalle banche: “Hanno tassi di interesse più bassi ma è più difficile ottenere prestiti, poi ci sono le società finanziarie che hanno maglie più larghe ma tassi molto più elevati”. Più italiani o extracomunitari? “Ormai la percentuale è uguale ma c’è un altro fenomeno che riguarda gli extracomunitari. Molti non avendo stipendio fisso o non essendo ancora regolari si fanno prestare soldi da extracomunitari che hanno i requisiti per avere prestiti e quindi girano il prestito poi a chi non poteva ottenerli. Fanno i prestiti anche se non ne hanno bisogno per poi girarli a tassi alti a chi ne ha bisogno ma non può ottenerli, un fenomeno in forte espansione”. E poi ci sono le cosiddette ‘trappole legalizzate’: “E le più facili sono le carte di credito che hanno interessi anche del 17-20%, si acquista un bene, non lo si paga subito ma con la carta di credito magari a 100 euro mensili ma gli interessi sono altissimi e così se si acquista un computer in questo modo alla fi ne è come se ne avessi pagati quasi due”.

Gino Strada

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 “Non sono un pacifista, sono semplicemente contro la guerra. Noi andiamo dove c’è bisogno e… dove essere curati costa”

Missionario laico? Laico lo sono di sicuro, missionario direi proprio di no”. E’ della generazione che già fatica a inquadrare se stessa in un mondo scomparso, le date, gli avvenimenti della storia fanno aggio su quelli personali. E definiire se stessi oggi oltre che faticoso, è spesso inutile, il giorno dopo già devi cercare di non farti inquadrare da qualcuno cui fa comodo “arruolarti” per (sua) convenienza. Gino Strada è divertito dal fatto di non ricordare con precisione l’anno in cui si è laureato in medicina, che importanza può avere nel quadro della grande storia quel dettaglio, ai margini dell’affresco? Comunque dovrebbe essere il 1978. Poi si è specializzato in “chirurgia d’urgenza” che già sembra una scelta di qualcosa di… insolito. “Sì prima la chirurgia d’urgenza e poi quella cardiovascolare”. Quest’ultima più comprensibile, il fi lone dei trapianti si capisce che possa affascinare un giovane laureato. Ma la chirurgia d’urgenza? “Perché è molto interessante professionalmente, vuol dire lavorare anche in condizioni non sempre facili, anche qui, e poi a Milano c’era questa grande scuola di chirurgia d’urgenza che era stata fondata dal Prof. Staudacher (Carlo Staudacher che dal 1969 al 1980 fu assistente ospedaliero nella Divisione di Chirurgia d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Milano – n.d.r.). Io lavoravo nel suo reparto quindi è stato naturale affezionarmi a quella disciplina”. Hai detto “anche qui”, che vuol dire in Italia… “Beh, la chirurgia d’urgenza è quella che si occupa dei traumatismi acuti, è una chirurgia molto impegnativa, si lavora tanto, non ci sono mai orari, non è un’attività di tutto riposo”. Una carriera davanti, anche se non di tutto riposo, e uno decide di occuparsi di “traumi” in paesi lontani… “Lontani per modo di dire, lontano è tutto quello che non vogliamo sentire come nostro, ma se ci si pensa non sono poi tanto lontani…”. Adesso no, ma in quegli anni… “Allora non pensavo specificamente alla chirurgia di guerra. Volevo appena verifi care cosa poteva voler dire essere un chirurgo in quelle parti del mondo dove chirurghi e medici non ce ne sono molti”. E il primo impegno fu con la Croce Rossa. “Partii con la Croce Rossa Internazionale da non confondere con la Croce Rossa Italiana. Partii e fi nii in un ospedale per feriti di guerra in Pakistan. I feriti della guerra afgana venivano trasportati in Pakistan… credo fosse il 1987. Era un ospedale della Croce Rossa Internazionale”. E poi ti sei staccato dalla Croce Rossa. “Ci ho lavorato un po’ di anni, fi no al 1992”. E come è nata l’idea di creare i “tuoi” ospedali? “L’idea di Emergency è nata da quell’esperienza lì, dai bisogni enormi che vedi e di quanto poco si possa rispondere e quindi una mano in più serve sempre”. Adesso che l’organizzazione l’hai creata sembra naturale, ma ritornando a quell’epoca uno si può chiedere, perché non sei restato con la Croce Rossa, non deve essere stato facile metter su degli ospedali in terre straniere. “Ma era anche successo che la Croce Rossa Internazionale ha smesso di mettere a disposizione ospedali, hanno cambiato la loro politica degli aiuti, diciamo così, e quindi i bisogni semplici, naturali, di curare i feriti sono diventati ancora più drammatici”. Il primo ospedale che hai realizzato? “E’ stato un piccolo ospedaletto che abbiamo messo su nel 1995 nel nord dell’Iraq, ai confi – ni con l’Iran”. E hai avuto diffi coltà? “No, era una piccola cosa, non era certo un grande centro. Poi a mano a mano siamo andati avanti e così abbiamo realizzato altri ospedali in Iraq, in Cambogia, in Afghanistan, in Sierra Leone… Quest’anno Emergency compie 15 anni e nessuno allora immaginava sarebbe diventata quello che è oggi”. Quanti sono adesso gli ospedali che avete? “Abbiamo una decina di centri tra ospedali e centri di riabilitazione. Poi abbiamo moltissime cliniche e posti di pronto soccorso…”. Una grossa organizzazione. “Grossa no, siamo sempre piccoli rispetto ad altre organizzazioni, ma abbastanza unica nel suo genere, cioè praticamente siamo gli unici che costruiscono e gestiscono ospedali in tutto il mondo, una cosa è inviare un medico ad aiutare per tre mesi, un altro è costruire e gestire un ospedale, devi coinvolgere molta gente e deve durare”. Tutta gente che non vuole essere considerata “missionaria”. E allora come ti consideri? “Uno che fa il suo mestiere in modo professionale, mi piace lavorare bene, non mi piace l’approssimazione. Tanta professionalità e tanta passione”. Uno dice, va bene, cose che si possono fare anche in Italia. “Certo. Se vai in un pronto soccorso italiano in genere trovi abbastanza medici, magari trovi anche quelli che fanno a gara per curare un paziente, anche per fare esperienza, se vai in un pronto soccorso africano ci sono pochi medici e un sacco di pazienti. E allora serve farlo in Italia ma a maggior ragione serve farlo dove i medici non ci sono”. Voi siete praticamente presenti in tutti i posti del mondo dove ci sono focolai di guerra, guerre vere e proprie o conseguenze di guerre appena sopite. Quindi hai una grande esperienza, una lettura sul campo dei perché? La maggior parte di queste guerre sembrano “guerre di religione”. Che rapporto c’è tra religione e guerra? “No, assolutamente no. Le guerre sono una piaga che dura da centinaia di anni anche se nella storia sono state sempre più violente e quelle di oggi sono le più violente che si siano mai viste. Ma le ragioni delle guerre hanno sempre tutt’altra origine, le guerre si fanno per rapinare qualcosa, poi si usa la religione come è stata usata anche nei secoli scorsi per giustifi care le guerre, per farle accettare, per tenere alto il morale, ma le ragioni vere sono altre”. Una delle ragioni ultime è stata quella dell’esportazione della democrazia… “La chiamerei la ragione, più che altro, dell’importazione del petrolio, quella dell’esportare la democrazia era una scusa, la ragione vera era un’altra… cosa vuol dire, per regalare la democrazia a un paese vengo lì e lo bombardo? Mi sembra un approccio assolutamente folle”. Tu lavori in zone in cui l’Islam è dominante. Siccome in occidente si sta guardando all’Islam come al futuro “invasore” e si coltiva la paura… Ma io credo che tutte queste cose siano fenomeni assolutamente italiani, molto provinciali. Chi vive spesso all’estero si rende conto che queste paure sono delle grandi stupidaggini che si inventano i nostri mezzi di informazione, i nostri politici. Le comunità islamiche convivono da molti anni in altri paesi europei e sono parte normale di una società. E’ soltanto qui che creiamo queste fobie stupide”. Da noi c’è chi ha usato anche il termine di “civiltà inferiore”. “Chiunque usi il termine ‘civiltà inferiore’ dimostra soltanto di essere un cretino”. Hai detto una volta che tu non sei un pacifista ma sei contro la guerra. Che differenza c’è? “La differenza è che io sono semplicemente contro la guerra mentre ho sentito molti che si definiscono pacifisti e poi sono a favore di questa o di quella guerra. Sono quei pacifisti a giorni alterni, di solito vanno bene le guerre che sono condotte dagli amici politici mentre quelle condotte dagli avversari non vanno bene. Questo tipo di pacifismo non è il mio”. Ma pacifismo non vuol dire avere necessariamente un carattere accomodante… “Vuol dire semplicemente non accettare la violenza, soprattutto quella di massa, come rapporto tra le persone”. E questa presa di posizione deriva da un tuo atteggiamento interiore? “No, nasce semplicemente da un atteggiamento di civiltà. Credo che la violenza sia uno dei sintomi più evidenti di inciviltà”. Hai mai subito un torto per cui sei stato anche solo tentato di reagire con violenza o l’hai fatto? “Fatto no ma tentato di reagire, boh, poi sai, non è che uno ha molte possibilità di tirare un cazzotto a qualcuno, la tentazione ovviamente ti viene, io a quello lì gli spaccherei la faccia, poi nella realtà ti ritrovi a… non farlo”. Non ti piace la definizione di “missionario” anche con l’aggiunta di laico. Ma nel mondo in cui vai a portare l’aiuto della tua organizzazione, ti incontri con i “missionari cattolici”, che spesso la loro parte la fanno. Come li giudichi? “Il giudizio è molto vario. Io ad esempio ho un buonissimo rapporto con i Comboniani che ritengo persone serie, lavoratori molto aperti mentalmente. Perlomeno sono quelli con cui ho avuto più incontri. Con altre realtà non ho avuto molti contatti”. Sei in giro per il mondo, ti chiedono di dove sei, va bene, sei italiano. Come vieni giudicato? Cosa dicono di noi? “In questo periodo preferirei avere un avvocato per rispondere a questa domanda”. Non c’è più la concezione degli Italiani brava gente… “No, chissà perché, è svanita. E non parlo degli ultimi due o tre anni, parlo degli ultimi 15-20 anni. Non è che siano scortesi. Certo quando si parla dell’Italia si deve essere gente di spirito per sopportare le battute”. Non dai fastidio quando arrivando in un paese straniero costruisci un ospedale dando un esempio di efficienza ed efficacia che indirettamente può essere vissuto come uno schiaffo morale alle inefficienze statali di quella nazione? “No, gli interessi che si toccano sono soprattutto interessi economici di chi sulla medicina specula e fa soldi. In tutti quei paesi la medicina è rigorosamente a pagamento. L’importante che sia d’accordo la popolazione e in molti casi anche le autorità sanitarie”. Se per una sorta di resurrezione tornasse al potere il centrosinistra in Italia e ti offrisse, per un altro miracolo soprannaturale e soprapolitico, la poltrona di Ministro riesumando quello della Sanità… “Non mi sembra un problema che me lo debba offrire la sinistra, non capisco perché la sinistra piuttosto che la destra…”. Lo dico perché mi sembra improbabile che te lo possa offrire Berlusconi… “Lo riterrei probabile almeno quanto quello che me lo offrano i suoi attuali oppositori”. Va bene, era solo un’ipotesi. Di che cosa avrebbe bisogno la sanità italiana? “Sulla sanità la penso in modo molto semplice, la sanità dev’essere di alto livello, pubblica e gratuita. Fine”. E non è così. “Mi sembra di no. Mi sembra che la nostra sanità pubblica sia contaminata pesantemente dalla logica del privato, tanto che gli Ospedali si chiamano Aziende Ospedaliere. Poi, accanto alla contaminazione del pubblico, c’è la “La sanità? Dev’essere di alto livello, pubblica e gratuita. Quella italiana è sempre più Azienda” “Paura dell’Islam? Tipico provincialismo italiano” “Gli immigrati? Non è che vengano sui barconi cantando di gioia” presenza di un privato di solito di qualità bassissima, che si camuffa bene, che si presenta col rossetto, le camere eleganti con le televisioni e i fi ori, però medicina poca; e infi ne una sanità che comincia a non essere più gratuita totalmente per tutti i cittadini, come dovrebbe essere. E questo è preoccupante”. Era una domanda in un certo senso “politica” in quanto sei stato accusato (che poi sostanzialmente non era neppure una vera accusa) di aver avuto un ruolo appunto politico a livello internazionale, con l’episodio del sequestro e della liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo nel 2007. Insomma dicono che sei una sorta di ministero ombra che tratta direttamente con i Governi. “Intendiamoci su cosa vuol dire far politica. Se si intende la capacità di avere rapporti con i governi dei paesi dove andiamo a lavorare, è ovvio che dobbiamo averli, è un pezzo del nostro lavoro. Se per politica invece intendiamo entrare nell’arena di opposizione-governo, non solo sono totalmente fuori ma anche totalmente equidistante. Quanto all’episodio citato non so se si possa chiamare politica salvare la pelle a una persona. Poi sapevano benissimo che senza Emergency non ci sarebbe stata più alcuna possibilità…”. Emergency è italiana o internazionale? “Recentemente è stata stabilita anche negli Stati Uniti e in Inghilterra ma resta un’organizzazione italiana”. Tu hai lavorato anche per mettere al bando le mine antiuomo, costruite prevalentemente in Italia: “Si costruivano, adesso non è più consentito, l’Italia era uno dei grandi produttori mondiali. La campagna fu un grande movimento di civiltà e adesso dal 1997 sono al bando. E’ un’altra delle grandi belle cose che è riuscita a fare Emergency”. Una sorta di provocazione: voi andate nei posti dove ci sono i bisogni per dare risposte all’origine. Sembra quello che sostiene la Lega, “aiutiamoli a casa loro”. Anche se quella posizione nasce dalla paura dell’immigrazione. “La nostra paura dell’immigrazione la vedo come una stupidità. Il nostro comportamento di fronte al problema dell’immigrazione lo vedo come una forma di razzismo criminoso. Non ci sono mezzi termini per definirlo. Andare ad aiutare sul posto: io penso che le persone che vengono o tentano di venire qui, magari su un barcone che rischia o addirittura affonda, non stiano cantando di gioia mentre sono in navigazione. Penso che arrivino dei disperati e quelli che sopravvivono o che noi facciamo sopravvivere, perché a volte non ci preoccupiamo nemmeno di salvarli, sono proprio disperati. Penso che se queste persone potessero avere un lavoro, da mangiare a casa loro, sarebbero ben felici di stare a casa loro. Quindi una ragione in più per essere là”. Già, è la piccola differenza tra chi è là e chi si limita a dire che bisognerebbe esserci.

Ma chi bussa a… (e vuol comprarlo) ‘sto convento?

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Ma chi bussa a… (e vuol comprarlo) ‘sto Convento?

Suonano le campane, vento freddo sul lago, fi ne febbraio, la barba di Padre Generoso sembra ancora più bianca, lunga che si muove sul saio marrone, il cordone svolazza, il lago d’Iseo è lì sotto, talmente azzurro da mischiarsi al cielo e sembrare una cosa sola, lì a metà ci sta il convento di Lovere, dentro un pugno di frati cappuccini, quelli rimasti, quelli che lì dentro pregano, sorridono, sperano, mangiano, soffrono e guardano il mondo. Anche i frati cappuccini devono fare i conti con la crisi delle vocazioni, come i preti, peggio dei preti, come le suore, peggio delle suore, ma loro non si scompongono, niente ‘supermercato delle vocazioni’, la fede mica s’inventa, quella dei frati ancora meno. Conventi bergamaschi Bergamo fi no a pochi anni fa contava 6 conventi, conventi di prim’ordine. Quello centrale di Bergamo, quello dell’Ospedale di Bergamo (con un suo Superiore), Bergamo Infermeria anche qui con un suo Superiore (spieghiamo più sotto cosa significa “Infermeria”), quello di Albino dove c’era anche il seminario, quello di Lovere con il noviziato e quello di Sovere, incassato in mezzo alla vallata. Adesso i conventi sono cinque ma anche quelli rimasti sono cambiati. Sovere ha chiuso, il convento è rimasto ma all’interno c’è la comunità delle Beatitudini, convento ceduto in comodato gratuito, sono rimasti i tre di Bergamo, Albino (che però ha dovuto chiudere il seminario) e Lovere. Un ridimensionamento importante ma che non scuote naturalmente i cuori dei frati rimasti: “Se abbiamo paura che l’ordine finisca? Macché, Dio a questo proposito aveva detto a San Francesco che l’ordine non sarebbe mai finito”. Il ribaltone Ma anche i frati cappuccini hanno vissuto una crisi economica e non solo di vocazioni, molto forte. Una crisi economica scoppiata qualche tempo fa e tenuta ovviamente ‘coperta’, poi qualcosa è trapelato: “Una gestione economica ‘sbagliata’ – spiega un frate che preferisce non rivelare il nome – e da lì è scoppiato il fi nimondo. Ognuno di noi consegna i soldi al Padre Superiore, ma poi c’è un economo provinciale che gestisce tutto e qualche tempo fa, non si è capito esattamente cosa è successo, abbiamo perso tutti i soldi. Si parla di investimenti sbagliati e di altri fondo spariti. Alla fi ne quando si è scoperto quello che stava succedendo c’è stato un ribaltone, vertici cambiati, i due considerati responsabili, l’ ‘economo’ e il ‘provinciale’ sono stati più volte messi alle strette dai nostri vertici maggiori e poi ‘puniti’”. Punizione che vuol dire trasferimento: “Poi purtroppo uno di loro è stato male ma la situazione non è migliorata, nessuno ha più saputo esattamente che fi ne hanno fatto i fondi e a ricominciare da capo a raccogliere i fondi per riuscire a mandare avanti l’ordine. Certo, anche l’ordine è fatto di uomini e tutto può succedere”. La notizia però, a differenza che in qualsiasi altro settore, non è trapelata, l’ordine ha fatto da scudo e provato a risolvere la vicenda al proprio interno: “I conti sono ancora in rosso ma si spera di recuperare”. Vendesi Conventi Intanto mentre si aspetta drecuperare qualche soldo, i conventi si stanno svuotando, non per la crisi economica ma per la crisi delle vocazioni. E così si vende, conventi in vendita. In Lombardia stanno per essere messi in vendita il convento di Sondrio, uno dei più antichi, quello di Lenno, uno dei più belli d’Italia sul lago di Como, sul quale sembra abbiano buttato l’occhio le solite star americane che frequentano le sponde vip del lago di Como. Convento con un’abbazia considerata fra le più belle d’Italia. “Ma non potranno snaturarla – continua il nostro addetto ai lavori – chi l’acquista sarà comunque soggetto al vincolo delle Belle Arti, non si potrà intervenire per stravolgere la struttura”. Sovere all’asta Struttura salvaguardata ma inevitabilmente venduta. Sorte che potrebbe toccare presto anche al convento di Sovere, attualmente ‘affi ttato’ alla Comunità delle Beatitudini in comodato gratuito dopo che i frati avevano ‘abbandonato’ il convento qualche anno fa. La vendita dipende da come e se si risolleveranno le casse dei frati cappuccini nei prossimi anni, convento che ‘paga’ la troppa vicinanza (5 chilometri) dal convento di Lovere che è anche sede di noviziato. Anche a Lovere si fanno i conti con la crisi delle vocazioni, novizi in vertiginosa diminuzione. Chi invece è stato costretto a chiudere il seminario è il convento di Albino, vocazioni in fuga e a rimanere aperto il convento che rimane comunque uno dei conventi di riferimento della Lombardia. Resiste Bergamo che ha un convento ma anche un’infermeria con tanto di Padre Superiore, nell’infermeria vivono i frati che per ragioni anagrafi che o di salute non possono più stare nei conventi cosiddetti ‘normali’. I frati non rientrano mai a casa a vivere come invece succede ai preti ‘in pensione’, rimangono in fraternità fi no alla fi ne. Professioni Una vocazione che imbocca strade lunghe, si comincia con un anno da ‘postulante’ (non c’è l’abito) si prova a fare la vita da frate, si sta a casa ma c’è un convento di riferimento poi tocca al noviziato (si indossa l’abito), per la nostra “provincia” (che coincide per i Cappuccini con la Regione Lombardia, tranne le province di Pavia e di Mantova) si va a Lovere, un anno (minimo) vissuto assieme ai frati a fare la vita da frati e a seguire lezioni per un’infarinatura generale. A fi ne anno la cosiddetta ‘professione semplice’ per chi decide che la fede può essere la strada giusta, quindi due anni di studi filosofi ci nel convento di Cremona, poi un anno chiamato di ‘missione’ sul campo, chi negli ospedali, chi nei conventi, chi negli oratori. Alla fi ne dell’anno chi sceglie la strada di ‘frate’ fa la professione solenne, ‘frati’ che non sono ‘padri’ e non possono quindi ‘fare messa’. “Una scelta fatta da molti – spiega il nostro frate – non perché non hanno la capacità di far messa ma una scelta di umiltà estrema, rimanere semplici frati pronti a servire gli altri”. Per chi invece prosegue ci sono gli ultimi quattro anni a Milano, al termine si diventa Padri Cappuccini. Una strada lunga, si studia un anno più dei preti. Chiusi 33 conventi Una strada che è praticata sempre meno. Il crollo degli ultimi anni è vertiginoso. Ai tempi del Concilio Vaticano II (negli anni Sessanta) in Italia c’erano più di 5.500 frati Cappuccini. Nel 1997 erano 2.871. L’ultimo censimento, nel 2007, ha contato 2.466 frati. E così le antiche celle, i chiostri, gli orti e i giardini rischiano di essere trasformati in hotel, appartamenti, bed and breakfast e agriturismi. In cinque anni sono stati chiusi ben 33 conventi. Qualche esempio raccolto da ‘Repubblica’: a Parma è stato chiuso quello di Borgo Santa Caterina, con affreschi del Guercino. La chiesa è stata donata alla diocesi e parte dell’edificio  è stato venduto ai privati. A Lugnano di Teverina il convento cappuccino del 1579 è diventato una Casa per ferie, ‘luogo ideale anche per banchetti e ricevimenti’. E l’antica chiesa è a disposizione per la ‘meditazione personale e per i momenti di preghiera’. La chiesa del Convento ai Cappuccini di Cologne in Franciacorta, già dal 1990, è diventata una sala speciale per convegni e banchetti dell’omonimo hotel e centro benessere. Costruito nel 1569 il convento era chiamato ‘una poesia scandita nella pietra’. Quattro stelle, camera doppia da 160 a 280 euro a notte. Nell’hotel San Paolo al Convento di Trani, sull’altare della cappella affrescata, trovi le mozzarelle e le brioches della prima colazione. I conventi chiudono ma i frati che rimangono in giro per l’Italia tengono duro, non hanno ‘stipendi’ come i loro cugini preti, non beneficiano dell’8 per mille, niente di niente, vivono esclusivamente della ‘carità del popolo’. Loro non battono ciglio, sorriso stampato in faccia, barba e saio che svolazza dappertutto, ‘pace e bene’ comunque e sempre, parola di San Francesco.

amare Dio, amare l’uomo

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giorgio fornoni libro

“L’unico modo per amare Dio è amare l’uomo”

Giorgio Fornoni a Udine ci è arrivato come sempre e come al solito con la sua voglia di conoscere, capire, provare a vedere.

Lui che la testa la mette assieme al cuore dentro a ogni inchiesta che fa, in ogni posto che va, così è stato anche sabato 31 gennaio quando è arrivato a Udine per il premio Nonino 2009, assegnato quest’anno alla scrittrice Chimanda Ngozi Adichie, allo storico inglese Hugh Thomas, all’economista, sociologa e documentarista Silvia Perez-Vitoria e ai malgari della Carnia.

Giorgio era là per Chimanda, premiata per aver scritto e ricordato “gli orrori di una guerra africana che si è combattuta prima della sua nascita”, pagine “intrise di pietas domestica e d’amore per la sua terra”, la terra africana è la Nigeria dove in questo periodo Giorgio sta realizzando un’inchiesta che approderà fra poco a Report.

Quel giorno Giorgio incontra Ermanno Olmi, anche lui a Udine: “Ci siamo piaciuti subito – racconta Giorgio – ognuno conosceva già il lavoro dell’altro ma non ci eravamo mai incontrati.

C’è un filo che ci unisce da sempre, tutti e due denunciamo le sofferenze dell’uomo, abbiamo cominciato a parlare, poi si è fatto accompagnare da me in auto in un posto in mezzo alla campagna, un giro lungo, ed è nata una chiacchierata che è diventata più di un’intervista, un impegno da portare avanti, da provare a concretizzare”.

Da un anno Olmi ha mollato la regia e ha scelto la strada del documentarista: “Mi ha detto ‘dobbiamo fare qualcosa assieme, Report va bene ma è un programma di nicchia, i nostri li abbiamo già convertiti, dobbiamo fare altro, provare spazi diversi’.

Sì, dobbiamo reinnamorarci della vita per dare valore alla vita”. Giorgio Fornoni ed Ermanno Olmi, qui sotto la chiacchierata-intervista.

GIORGIO FORNONI Chi è il monaco, chi è l’eremita e… cosa cercano? “Io credo che ci sono molti modi di scegliere di vivere, queste persone hanno scelto, come dire una sorta di contemplazione interiore, in qualche modo poi aiutata, sostenuta dalla contemplazione che hanno davanti al loro sguardo.

Non per niente questi eremiti e questi monaci creano intorno a loro quelle condizioni per essere appunto in una situazione contemplativa, la contemplazione che cos’è se non il nostro dialogo col mondo davanti al nostro sguardo, possibilmente il più bello possibile e la nostra interiorità?”.

L’amore verso l’uomo secondo lei può essere uguale all’amore verso Dio? “No, no, io privilegio l’amore verso l’uomo e credo sia l’unico modo, se uno crede alla trascendenza, l’unico modo per amare Dio”. Lei in una conferenza a cui avevo assistito aveva detto: “Il mondo sta andando sempre più basso in un imbuto, diventa sempre più brutto e dobbiamo riinnamorarci”.

“Diciamo che il 7′ bello e il brutto dipende spesso dal nostro stato d’animo, allora, per ottenere una buona disposizione a uno sguardo favorevole alla vita, cosa c’è di meglio se non l’innamorarsi?

Io ricordo da ragazzo quando spessissimo ci si innamorava, ecco, quella condizione era una condizione di felicità, questa felicità poi non rimaneva soltanto nell’ambito di quel sentimento specifico rivolto a quella persona particolare ma era una felicità generale.

Quando si è innamorati tutto è bello e quindi anche il meno bello lo facciamo diventare bello. Credo che, al di sopra di una soglia di indegnità del vivere, quindi la violenza l’egoismo ecc, al di sopra di questa soglia che non si può assolutamente superare, nel baratro del fallimento umano, ecco, tutto può diventare bello o quanto meno il brutto meno brutto, quando si è innamorati”.

Come potrà l’uomo combattere il potere? Il debole sarà sempre più debole e il forte sempre più forte. Che speranza ha l’uomo “debole”? “Il potere può molto, proprio perché è ‘potere’, ma l’uomo ha un potere superiore, la capacità di rendersi libero dentro se stesso, se uno è libero dentro se stesso il potere non potrà mai varcare la soglia di questa libertà e, anche nel silenzio di tutte le censure possibili, la libertà che è nella mente e nell’animo di un uomo supera queste barriere”.

Sto facendo un video sui Gulag. Perché secondo lei si parla sempre e solo di Nazismo e non si denuncia anche il periodo buio dello Stalinismo? “Nazismo e lo Stalinismo? Ma non è vero, non è vero, che parliamo solo di una delle due fazioni: noi giustamente parliamo spesso quando gli orizzonti si annuvolano e sentiamo delle inquietudini, allora si torna a parlare spesso, e bisogna farlo, di ciò che fu il Nazismo.

Nella nostra area in particolare il Nazismo con il Fascismo hanno creato situazioni per le quali abbiamo dovuto pagare un prezzo molto alto. Ma al di là di questa nostra realtà italiana, oltre il confi ne di quello che era la divisione est/ ovest, là si parlava tanto di Stalinismo, perché l’avevano sulla loro pelle.

Quindi noi tendiamo a parlarne di più rispetto allo Stalinismo, ma la cosa importante è considerare un altro aspetto, a mio avviso, l’aspetto del non dimenticare, vale a dire che si parli di Stalinismo o si parli di Nazismo l’importante è che se ne parli come di una cosa che ci riguarda tutti i giorni che noi viviamo, perché il pericolo è la dimenticanza con la lontananza nel tempo, oggi chi si preoccupa più della strage degli innocenti di Re Erode?

Nessuno si preoccupa più, eppure c’è stata… ancora oggi centinaia, migliaia, milioni di bambini vengono sacrificati.

Bene, cosa dobbiamo fare noi di fronte a questi esempi recenti? Mantenere viva la memoria ma non solo del presente, la memoria di una storia di umanità costellata da delitti criminali, che fanno scadere l’umanità a un livello davvero di quell’indegnità di cui parlavo prima.

Allora non polemizziamo, è stato peggio il Nazismo o peggio lo Stalinismo… facciamo in modo che Stalinismo e Nazismo vengano considerati il peggio e quindi non è nel confrontare i mali ma nel distinguere i mali dal modo, come dire?, più civile, più umano, più fraterno di vivere la società”.

Lei ha detto “E’ meglio bere un caffé con un amico che leggere 100 libri”…

“Un libro può darci grandi, enormi soddisfazioni, si dice anche che un libro è un buon amico quando è un buon libro, ma bere un caffé con un amico vale molto di più di un libro, questo non vuol dire che dobbiamo bere 30 caffé al giorno e non guardare nemmeno un libro.

il libro è lì, aspetta che noi lo prendiamo tra le mani e iniziamo questo rapporto di confidenza tra noi e il libro, l’amico no, l’amico lo cogli in quel momento, poi può essere che un momento dopo non lo puoi più vedere, allora se bussano alla mia porta un libraio e un amico, io apro prima all’amico, perché appunto il libro è una sorta di amico che ho sempre lì a disposizione.

‘Val più un caffé con un amico che tutti i libri del mondo’ perché? Da un libro posso sentire il desiderio suscitato dalla lettura di amare il mondo che è intorno a me, ma se io ho la possibilità di amare subito il mondo che è intorno a me e mostrarlo attraverso una stretta di mano un bacio una carezza una parola, questo è già l’esito tangibile, materializzato di un sentimento letto nel libro perché quel sentimento diventa realtà”.

Lei ha tirato in causa il Signore, ha tirato in causa il Signore dicendo: “Dovrà anche lui rendercene conto!! Mi pare abbia detto questa frase”. “Si. Dio, non il Signore, Dio perché sia davvero Dio tace.

In questo silenzio di Dio c’è il bene e il male, c’è la giustizia e l’ingiustizia perché Dio fa soffrire alcune persone altri invece possono godere di tutto, perché Dio ad esempio fa delle creature bellissime e altre invece un impasto mal riuscito della creazione, allora questo mistero Dio è bene e male insieme.

Allora io chiamo in causa quel Dio che verrà a giudicare noi e mi deve dare la possibilità di essere giudicato, cosi come fece Giobbe, e come rispose Dio a Giobbe guarda il creato e vedi cosa c’è di buono e meno buono.

A questo punto io mi sento di lodare il Dio del bene ma condanno il Dio della sofferenza, perché gli innocenti debbono pagare?

Si dice è il disegno di Dio, non accetto questa risposta poiché gli uomini che si riferiscono a Dio possono fare il bene o il male, questi uomini hanno scelto spesso di fare il male invocando il nome di Dio. Allora vuol dire che c’è un Dio del male?

Se questi uomini invocano la morte del nemico la morte dell’innocente calpestano gli umili quindi condanno questo Dio”.

Una chiesa senza Apostoli

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chiesa parroci

E adesso arrivano anche i numeri ad ufficializzare la “crisi della Chiesa”. E’ appena stata pubblicato un volume della Fondazione Giovanni Agnelli curata dal professor Luca Diotallevi e da Stefano Molina dal titolo: La parabola del clero. Uno sguardo socio-demografi co sui sacerdoti diocesani in Italia. Numeri impietosi. I preti diventano sempre più vecchi.

L’età media dei sacerdoti diocesani in Italia è ormai di 60 anni. Il record di anzianità è delle Marche (età media 64 anni), seguite da Piemonte (63,7) e poi, via via, da Emilia, Liguria, Umbria, Triveneto, Toscana, Sardegna, Sicilia, tutte regioni in cui i preti hanno un’età media superiore ai 60.

Più giovane il clero in Lombardia (età media 58 anni) e poi in Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, Basilicata. Il record di gioventù va a Lazio e Calabria, con un comunque poco consolante 54 anni e mezzo di media.

Secondo dato: è sempre più difficile rimpiazzare i preti che se ne vanno. In Italia il 40 per cento di chi esce dalla parrocchia (per pensionamento, per invalidità o per decesso) non viene sostituito.

In alcune regioni la situazione è drammatica: nelle Marche e in Piemonte le uscite sono tre volte le entrate. Appena meglio in Lazio, Calabria e Puglia.

Così così in Lombardia. Terzo dato: i preti diminuiscono in tutta Italia. Oggi sono poco meno di 32 mila i sacerdoti diocesani. Un terzo di essi (10 mila circa) sta in Lombardia e Triveneto (Umberto Bossi direbbe: in Padania).

Poi 2.700 stanno in Piemonte, 2.500 in Emilia-Romagna, 2.200 in Sicilia, altrettanti in Campania, in Toscana, nel Lazio. Attenzione, però: i preti erano 69 mila (più del doppio) agli inizi del Novecento, a disposizione di una popolazione di appena 33 milioni di italiani. Insomma: c’era 1 prete ogni 500 abitanti.

Oggi la popolazione in Italia ha appena raggiunto i 60 milioni di persone, dunque c’è un prete ogni 2 mila abitanti (per la precisione, 0,53 ogni mille). Certo, le statistiche ci dicono che in Italia ci sono più sacerdoti che ostetriche (0,26 per mille abitanti), più preti che ricercatori universitari (0,36 per mille abitanti).

Ma ci sono meno sacerdoti che odontoiatri (0,60 per mille abitanti), che psicologi (0,66 per mille), che commercialisti (0,89 per mille abitanti). E naturalmente meno preti che insegnanti (sono 21,4 ogni mille italiani). Non tutta l’Italia è uguale.

Va peggio nel centro-sud, soprattutto in Puglia, Sicilia, Lazio e Campania, dove i sacerdoti – dicono le statistiche – sono sotto lo 0,5 ogni mille abitanti.

Va meglio invece nel centro-nord e soprattutto in Umbria, nelle Marche e nel Triveneto, regioni in cui ci sono 0,8 preti ogni mille abitanti.

Bene, dunque? No, perché maggior densità vuol dire anche maggior anzianità: nelle zone d’Italia dove ci sono più preti, questi sono più vecchi. Ordini religiosi Se i preti diocesani non stanno bene, non stanno meglio neppure gli ordini religiosi, i frati, i monaci (20 mila persone complessivamente).

Statistiche e numeri precisi in questo campo non ce ne sono ma basta fare un giro nei conventi per accorgersi che le vocazioni latitano. In Italia ci sono 26 mila parrocchie. Dunque già oggi nel nostro paese operano, in media, 1,2 preti a parrocchia.

Se questo rapporto diminuirà fino ad arrivare sotto l’un sacerdote per parrocchia, le parrocchie rimaste senza prete dovranno chiudere.

O si dovranno affidare a preti che stanno nella parrocchia accanto e andranno “in trasferta” a celebrare qualche rito (la messa, la confessione, matrimoni e funerali). All’estero va anche peggio.

Anche in paesi tradizionalmente cattolici come la Spagna e il Belgio: oggi i preti sono solo 0,46 ogni mille abitanti. E ancor più in Francia e Austria: hanno soltanto 0,31 sacerdoti ogni mille abitanti.

La Chiesa rischia davvero l’estinzione? Preti d’importazione Meno male che c’è il “clero d’importazione”, o “clero immigrato”. In Italia ci sono 1.500 sacerdoti stranieri, nati all’estero ma incardinati nelle diocesi italiane.

Mica pochi: sono il 4,5 per cento dei preti diocesani. La regione con più preti stranieri è il Lazio, dove sono ben 462 (il 21,3 per cento del clero totale).

In Toscana sono 230 (il 10,3 per cento). Nel Triveneto sono 106, un numero che pesa però solo per il 2 per cento del clero.

Nell’Abruzzo e Molise sono 105, in Umbria sono l’11,8 per cento. I freddi numeri sui preti stranieri non raccontano le difficoltà concrete che incontrano.

Difficoltà culturali: non sempre un prete proveniente da un ambiente diverso e da una diversa cultura riesce a entrare in perfetta sintonia con la sensibilità, le attese, le difficoltà dei fedeli italiani.

In più – non si può negarlo ci sono difficoltà di accettazione. Ha fatto clamore, l’ottobre scorso, il caso di padre Joseph Moiba, 37 anni, nato in Sierra Leone e cacciato dalla sua parrocchia, a Oppdal, nella civilissima (e protestante) Norvegia.

Senza arrivare al rifiuto razzista del prete nero, anche in Italia a volte scatta il pregiudizio, magari inconscio, del cristiano italiano nei confronti del sacerdote “arrivato da fuori”, ritenuto da alcuni incapace di comprendere i problemi e inadeguato a ricevere le confidenze più intime.

Da dove vengono i preti nati all’estero? Dalla Polonia innanzitutto, in totale, sono 232 i sacerdoti prestati all’Italia dal paese di Wojtyla. Poi dallo Zaire: 96. Dalla Colombia: 86.Dall’India: 82. E poi dalla Romania, dal Brasile, dalla Nigeria, dalle Filippine, dall’Argentina, dal Venezuela, dal Congo… Ma anche da Francia, Stati Uniti, Germania, Svizzera…

I preti stranieri sono molto più giovani, hanno un’età media molto più bassa dei locali.

Saranno loro la salvezza della Chiesa cattolica? Intanto però, anche con i rinforzi stranieri, la diminuzione del clero continua inesorabile.

Lo dimostra una simulazione statistica realizzata dai ricercatori della Fondazione Agnelli: per mantenere l’attuale numero di preti, mantenendo inalterati gli attuali volumi d’ingresso, in Piemonte i preti dovrebbero restare in servizio 108 anni dopo la loro ordinazione, 118 nelle Marche. Evidentemente impossibile.

Dunque il calo è inevitabile. Vocazioni in calo Anche perché ogni anno arrivano sempre meno nuovi preti; le ordinazioni sacerdotali sono in caduta dal 1999: quell’anno erano 550, sono scese progressivamente fi no alle 435 del 2003.

I dati ufficiali si fermano a quell’anno, ma la tendenza alla diminuzione è confermata, informalmente, anche per gli anni seguenti.

Di quei 435 nuovi sacerdoti, ben 77 (quasi il 18 per cento!) sono stranieri. Gli altri da dove vengono? Basilicata e Calabria sono le regioni più generose, seguono Abruzzo, Puglia e Liguria. Ultime: Sardegna, Piemonte, Emilia – Romagna

Ci fu un “caso Bergamo”

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il caso Bergamo

Ci fu un “caso Bergamo” che scomodò perfino un Papa che porta il nome dell’attuale, Benedetto XV e poi Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, Giovanni Gronchi, futuro Presidente della Repubblica, Benigno Crespi, proprietario del Corriere della Sera, Antonio Gramsci, Benito Mussolini.

In soli tre anni (1919-1922) il caso fu aperto e chiuso.

Un ciclone che ha un nome, Romano Cocchi, definito di volta in volta “il ribelle bianco” (il titolo del volume), “piccolo zar”, “duce supremo”, “re delle bagole”, “il giovane bolscevico di Gesù”.

Espulso da tutti i partiti cui aveva aderito, accusato di tutto e del suo contrario, pipino (nel senso del Partito Popolare), socialista, comunista, fascista (quest’ultima accusa dopo un colloquio con Mussolini).

Nato ad Anzola dell’Emilia, provincia di Bologna nel 1893, morì poco più che cinquantenne il 28 marzo 1944 nel campo di concentramento di Buchenwald.

Uno studioso bergamasco, Giampiero Valoti, ha lavorato sul “campo” per anni, per raccontare lo sconvolgimento di quegli anni nella sua provincia e adesso ha pubblicato la storia di quegli anni in “Il ribelle bianco – Romano Cocchi e le agitazioni dei lavoratori nel bergamasco (1919-1922) in Quaderni dell’Archivio della cultura di base 37/38 – Bergamo 2008”. “Negli anni ottanta intervistammo più di 150 persone sulla storia della bassa Valle Seriana. E mentre gli uomini parlavano della guerra, le donne immancabilmente raccontavano del Cochi (con una sola c, la doppia in dialetto è superflua).

E così è nata la curiosità di capire. Scoprii che su certi vecchi muri c’erano ancora delle scritte inneggianti al Cocchi, che c’erano canzoni a lui dedicate.

Non è stato facile ricostruire quel fenomeno, la memoria del Cochi era stata rimossa dalle fonti ufficiali.

La sua colpa era di avere fatto esplodere il conflitto tra la teoria della dottrina sociale della Chiesa, i privilegi dell’imprenditoria cattolica e le disastrose condizioni dei lavoratori cattolici, aprendo di fatto una conflittualità interna, un dibattito che si fece scontro fi no alla frattura e alla scissione, l’Ufficio del Lavoro che si spacca, nasce l’Unione del Lavoro, ma anche la nascita del Partito Cristiano del Lavoro (“per l’avvento di Cristo, per l’avvento del popolo”) in contrapposizione al Partito Popolare Italiano di don Sturzo, che si confrontarono nelle elezioni nazionali del 15 maggio 1921.

C’era un detto, per capire quanto fosse profonda quella frattura: ‘L’anima a Dio, il corpo a Cocchi’”.

I preti, i parroci, sul campo, si dividono. Quelli che si vedono soffi are il controllo sociale dal sindacalismo dell’Ufficio del lavoro fanno fuoco e fiamme (dell’inferno: “Quelli che avete ottenuto sono soldi del diavolo”) dai pulpiti, prendendo spunto da slogan oggettivamente rivoluzionari: “la terra a chi la lavora”. Reazione: “Certi atteggiamenti superano quelli dei rossi”.

Siamo nel giugno 1919: gli operai prendono due lire al giorno (una lira le ragazze), tre lire per i pochi maschi. Il pane costava 80 centesimi al chilo e aumenterà a una lira. La Federazione operaia dei tessili (18.000 iscritti) chiede un aumento del 50%, una lira per le donne e 1.50 per gli uomini. Gli industriali rispondono irridenti con un’offerta del 5%, cioè 10 centesimi. Scoppia la rivolta: a Ponte Nossa Guido Miglioli “è accolto dalla musica”, le operaie intonano il “Noi vogliam Dio”. Così all’Honegger di Albino, alla Beltracchini di Gazzaniga, al Linificio di Villa d’Almè, alla Legler di Ponte S. Pietro, e poi a Zogno, Desenzano al Serio, Gandino, Cene, Ranica, Urgnano, alla Crespi di Nembro, Capriate. Il Cocchi è il nuovo segretario dei tessili. Parla a braccio, è un trascinatore. L’Ufficio del lavoro è diretto da Don Franco Carminati che con Miglioli va a Roma, al ministero e tratta con gli industriali (Enrico Beltracchini, Riccardo Albini, Pietro Radici…).

Si spuntò un aumento del 33%, 75 centesimi per le donne e una lira e venti per i maschi. Ma con gli arretrati: era la prima volta che accadeva che si conteggiasse l’aumento

dall’inizio dello sciopero. Fu “il più grande sciopero condotto in Italia unicamente dai cattolici”.

E da qui partono le rivendicazioni di tutti gli altri settori: le fi lande con la capitale del settore, Alzano, dove il Cocchi prese casa e dove durante lo sciopero delle filandiere intervenne anche l’esercito: ma il Cocchi a Milano spuntò un accordo per 4 lire e mezza e fu portato in trionfo. Quello fu “lo sciopero delle 4,50 lire”. Nacquero le canzoni dedicate al Cocchi (“Vogliamo Cocchi fi no alla morte, questa è la sorte che noi vogliam”), la moda (“la gala a la Cocchi”, un papillon nero), la bandiera bianca. Poi fu la volta dei mezzadri, dei cartai, dei cementieri, degli scalpellini, dei cerai, dei bottonieri, dei muratori, dei ferrovieri, dei barcaioli di Tavernola, dei cavatori di Gandino, dei minatori della Val dei Riso e Val di Scalve, degli infermieri e perfino dei sacristi (“fan sciopero tutti i mestieri, perfino i beccamorti e anche i tramvieri, la vita è troppo cara così non può andar, bisogna far lo sciopero per farsi ben pagar”).

Nel febbraio del 1920 si riprende: l’accordo del luglio dell’anno prima non viene rispettato dagli industriali e il costo dei generi primari aumenta troppo in fretta, insomma gli industriali, che controllano praticamente tutto, si rifanno con il carovita. A Gandino l’agitazione comincia dopo una riunione all’oratorio: “Una folla di uomini e donne uscì sulla piazza e con un tamburo cominciò a percorrere le vie del paese gridando morte ai padroni, vogliamo l’uguaglianza, abbasso i signori. La folla lanciò sassi contro le abitazioni di alcuni industriali tessili: Maccari, Radici, Gabriele Testa…”.

Spuntarono aumenti superiori a tutti i lavoratori tessili d’Italia. Il volume di Valoti ripercorre tutto il fermento di questo “biennio bianco” bergamasco.

In particolare quello dei contadini che toccava il tema della proprietà non di uno stabilimento ma della terra: qui veniva coinvolto ben più che un rapporto di lavoro, la terra “creata” da Dio, regalata agli uomini, le condizioni dei mezzadri ma anche del “beneficio” parrocchiale, dove molti parroci agivano come “padroni”.

La contraddizione con l’Ufficio del Lavoro, l’organizzazione diocesana, sarebbe inevitabilmente esplosa. Capitò il 1 marzo 1920 al teatro Rubini di Bergamo.

Don Franco Carminati concluse: “Sulle rovine dell’edificio putrido e puzzolente della odierna società noi fabbricheremo una novella pacifica società e voi, come disse Toniolo, voi sulle vostre robuste spalle riporterete Cristo dove fu scacciato dalla odierna società e regnerà la sola vera giustizia che ora non esiste”.

Un discorso di un prete o di un socialista? Gli agrari reagirono con gli “escomi”, insomma sloggiarono i mezzadri sindacalizzati. Per solidarietà suonarono le campane di molte chiese, un proprietario terriero, per giunta “conte” fu “sequestrato” con i fi gli in casa sua. Il settimanale (cattolico) “Lo Svegliarino” lanciò l’allarme: “Se è vero, questo è bolscevismo”.

I parroci conservatori uscirono allo scoperto, scrissero al Vescovo lettere di fuoco.

In che cosa si distinguevano dai socialisti? “La Squilla dei lavoratori”, il settimanale dell’Uffi cio del Lavoro, la differenza la spiegava così: “I socialisti concepiscono la riforma come un puro e semplice passaggio della proprietà della terra dalle mani degli attuali detentori a quelle dello Stato, che è lo stesso che dire un cambiamento di padrone”.

Il 29 novembre 1920 la tragedia: tremila cittadini circondano la caserma dei carabinieri di Osio per bloccare l’arresto di due mugnai che macinavano granturco non portato all’ammasso; arrivano altri carabinieri di rinforzo, parte una scarica di fucile, una donna viene colpita a morte, un giovane viene colpito alla schiena da quattro proiettili. Nessuna rivoluzione, anzi, reazione a catena dei “moderati” contro “chi istigava all’odio”.

La situazione sembra sfuggire al controllo del Vescovo Luigi Maria Marelli (Vescovo dal 1915 al 1936), che nulla aveva a che vedere con il suo predecessore Giacomo Maria Radini Tedeschi, il Vescovo (1905-1914) che andava nelle fabbriche al tempo della prima ondata di scioperi (1909), sospettato di essere favorevole al modernismo (accusa che toccò il suo segretario Angelo Giuseppe Roncalli, poi Papa Giovanni XXIII).

I parroci fanno pressione, il Cocchi ha un seguito immenso di lavoratori “che se Cocchi andrà all’inferno lo seguiranno anche là”.

Il 1 luglio 1920 Romano Cocchi viene licenziato: L’Eco di Bergamo non fa altro che accentuare la sua avversione verso il personaggio. Il licenziamento diventa un caso nazionale e fa scomodare Don Sturzo, il quale arriva a Bergamo ma invece di dirimere la questione parla d’altro.

Arriva a Bergamo Giovanni Gronchi, segretario della Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL). Papa Benedetto XV l’11 marzo invia una lettera al Vescovo di Bergamo condannando i metodi di Romano Cocchi.

I due preti dell’Ufficio del Lavoro vengono sostituiti. I cochiani occupato la sede dell’Ufficio del Lavoro, Cocchi si difende con un leone in gabbia, scrivendo ai giornali, pubblicando manifesti, rivendicando di essere un cattolico a tutto tondo, dando de “ricchi Epuloni” (ispirandosi alla parabola evangelica) agli imprenditori.

Quando il Vescovo, il 2 agosto 1920, lo condanna come “sciagurato, ribelle, traditore”, capisce che è finita, se ne va, fonda l’Unione del Lavoro portando via la metà degli iscritti al sindacato dell’Ufficio del lavoro. I cattolici bergamaschi sono divisi tra “diocesani” e “cochiani”. La divisione si accentua.

L’anno dopo, il 7 agosto 1921 Cocchi viene addirittura arrestato, dopo essere stato espulso dal PPI di Don Sturzo e dalla CIL di Gronchi. Il fascismo era alle porte: Gramsci segnala i fatti di Bergamo, dove Cocchi trascina tra i socialisti centinaia di lavoratori.

Come “emblematici di un avvicinamento tra popolari cattolici e socialisti”. Fonda un nuovo partito (Partito Cristiano del Lavoro) che in bergamasca in molti paesi otterrà più voti dello stesso Partito Popolare di Sturzo.

Tutta la stampa diocesana (e anche periferica come il “Corriere di Clusone”) scendono in campo contro il Cocchi e il suo partito. E mentre si combatteva una battaglia contro un (relativamente) piccolo nemico, avanzava la corazzata fascista.

E qui si apre il lungo discorso sulla posizione della Chiesa nei riguardi di Mussolini, che ebbe un lungo discorso con il Cocchi che valse a quest’ultimo l’accusa di collusione con fascismo, ultimo delle accuse contro un personaggio anomalo e trascinatore che andò a morire in un campo di concentramento tedesco, senza che nessuno lo rivendichi come suo, nemmeno da morto, essendo stato di nessuno.

Da Delhi, una lunga corsa in macchina verso il nord, verso Dharamsala.

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Da Delhi, una lunga corsa in macchina verso il nord, verso Dharamsala. E’ qui che vive in esilio da quarant’anni il XIV Dalai Lama. Tanto verde e profumo di pino tutt’attorno.

Un grande cartello sulla sinistra della strada all’entrata del paese: “Benvenuti nella nuova piccola Lhasa”.

Entriamo nella piazza principale, camminiamo in mezzo ad una folla di monaci, lungo una via di negozi che mettono in bella mostra collane di corallo e turchese, bandierine di preghiera, e tutto ciò che può ricordare il paese d’origine. Qui si svolge la vita quotidiana della gente tibetana che ha seguito il capo spirituale in esilio. Proseguiamo verso il palazzo sede del Dalai Lama, qualche centinaio di metri oltre l’abitato, in un luogo isolato. Un grande cancello, un ampio recinto di mura lo circondano.

Ci facciamo annunciare, e siamo ricevuti poco dopo dal segretario generale di “Sua Santità” (questo il suo titolo per i seguaci della religione buddista).

L’udienza è stata fissata all’ 1,30 del pomeriggio, ma un’ora prima siamo già seduti in attesa in una grande stanza piena di targhe, medaglie e riconoscimenti al Dalai Lama.

Per noi sono momenti di tensione. Sotto gli occhi onnipresenti del Buddha, tra gli affreschi dei monasteri anche i viaggiatori più smaliziati sentono che si entra in una dimensione dove la severa maestà del buddismo li sovrasta con forza straordinaria.

Ci si spoglia di tutte le convenzioni, di tutti gli orpelli del mondo, per guardare alle sorgenti della nostra esistenza. Un correre veloce di passi annuncia l’incontro atteso. Il segretario ci accompagna nella sala delle udienze, dove il Dalai Lama ci dà il benvenuto.

Il colore giallo è predominante, tante sete dipinte appese alle pareti rappresentano l’iconografi a tibetana. L’intervista può avere inizio. Lei ha viaggiato ormai in tutto il mondo. Conosce da tempo l’Italia e la nostra cultura? “Il mio primo viaggio al di fuori dall’India è stato nel 1973 e la mia prima destinazione è stata Roma, dove contavo di incontrare il Papa. Fin da bambino leggevo con grande interesse riviste e libri illustrati di carattere geografi co. E così quando mi sono trovato in piazza S. Pietro, in un certo senso ero già preparato.

Molti dei luoghi che ho visitato in questi ultimi anni erano già familiari nella mia mente da quando ero bambino, in una stanza del Potala di Lhasa”. Il pianeta nel quale viviamo è minacciato da problemi gravissimi: povertà, inquinamento, guerre.

Come il buddismo affronta questi problemi? “Le guerre, i conflitti oggi minacciano il benessere di tante persone. Bisogna cominciare a pensare che siamo tutti fratelli e sorelle, che ciò che ci divide – la cultura, la nazionalità, la lingua – sono solo etichette, categorie superficiali. In fondo siamo tutti uguali. Io non penso a me stesso come un asiatico, non mi dico: ‘Dimentica l’Occidente, tu sei un orientale’; sarebbe stupido. E dall’altra parte sarebbe stupido dire: ‘Noi siamo i ricchi dell’Occidente, sfruttiamo il resto del mondo’.

Perché – come insegna la nostra religione – tutto è interconnesso, il danno di qualcuno diventa il danno di tutti”. Qual è lo stato delle trattative con il governo cinese alla vigilia del 50° anniversario dall’invasione del Tibet? “L’anno scorso le cose sembrava avessero finalmente preso una buona strada, c’erano segnali incoraggianti di un dialogo con le autorità cinesi, anche se sul piano informale, non ufficiale.

Da questa primavera purtroppo la situazione è decisamente peggiorata. Si è intensifi cata la repressione della dissidenza interna, abbiamo avuto notizia dell’uccisione della nostra gente, dei nostri monaci… sono in vigore repressioni e gravi restrizioni nel Tibet.

Tutto ciò non è un bene né per il nostro popolo né per la Cina. Perché la Cina vuole comunque unità e stabilità, e non possono essere imposti con le armi”. Lei recentemente ha chiesto per il Tibet una “genuina autonomia”.

Cosa intende? “Resta valido il piano di pace in cinque punti da tempo proposto ai cinesi. ‘Autonomia genuina’ significa riconoscere una specificità della cultura tibetana per tutto quanto attiene alla spiritualità del buddismo, all’educazione, alla gestione dell’ambiente.

In questi settori i tibetani hanno lunga esperienza, possono e devono avere poteri decisionali. Per tutto quanto riguarda invece la difesa, gli affari esteri, lo sviluppo tecnologico abbiamo bisogno di un aiuto: i fratelli e le sorelle cinesi possono contribuire benissimo, questo potrebbe essere il loro ruolo nel Tibet.

In tutto ciò che attiene allo sviluppo materiale, tecnologico, scientifico, economico i cinesi possono fare molto di più e meglio di noi. Ma ci lasciano la nostra libertà in materia di religione, di educazione, di cultura. La realtà è che dobbiamo comunque convivere. Io non penso allo scontro tra Tibet e Cina nel senso di una lotta con un vinto e un vincitore. Non è così che si devono affrontare i problemi.

La scelta giusta è quella del mutuo benessere. Per quanto riguarda la mia posizione personale, già nel ’92 ho rimesso in discussione l’istituzione dei Dalai Lama in quanto capo politico del Tibet. Il compito della politica va affidato a un governo tibetano locale democraticamente eletto. Quando questo sarà costituito, cederò i miei poteri in quanto Dalai Lama, diventerò un semplice monaco buddista e potrò dedicarmi ancora di più al lavoro spirituale e alla promozione dei diritti umani”.

Il buddismo va diffondendosi anche in Europa. Sappiamo dalla storia che passando da un paese all’altro esso si è evoluto in molte scuole diverse: indiana, tibetana, zen. Lei crede che potrebbe oggi nascere una “via occidentale” al buddismo? “In Occidente e nei paesi del mondo arabo c’è un patrimonio culturale e religioso ricchissimo, ben radicato in una tradizione secolare.

Milioni di persone hanno tratto grandi benefici spirituali dalle religioni dell’Occidente, ed è per questo che ritengo giusto, in linea di principio, conservare la propria fede religiosa originaria. Non credo che il buddismo debba necessariamente essere esportato, anche se effettivamente si sta diffondendo e oggi ci sono molte persone, anche da voi, che hanno scelto questa via.

Naturalmente esiste un principio fondamentale, quello della libertà religiosa, che consente a chiunque di scegliere la propria fede. Quanto alle vie o scuole diverse, è vero, ma l’insegnamento fondamentale resta quello di Buddha Sakyamuni.

La diversità delle scuole nasce dall’incontro e dalla sintesi di culture e tradizioni diverse, ma questo non significa che cambi il senso più autentico dell’insegnamento. Il buddismo si rivolge all’individuo, parla alla mente e al cuore dell’uomo, lo aiuta a capire quale è la sua natura più vera e autentica. Non importa a quale scuola si faccia riferimento per superare lo schermo delle illusioni terrene e calarsi nell’ascolto che è in noi.

L’incontro tra culture e tradizioni diverse è certamente positivo, arricchisce gli uni e gli altri, ma l’uomo resta sostanzialmente lo stesso come essere pensante, dotato di sensazioni ed emozioni.

Come buddisti possiamo imparare molte cose dai buoni cristiani o dai buoni musulmani, il senso del perdono per esempio, o della tolleranza. E loro possono imparare da noi i valori della compassione e le tecniche di meditazione”.

La cultura occidentale dello sviluppo ha privilegiato negli ultimi secoli l’aspetto materiale dell’esistenza. Non c’è una contraddizione netta con l’approccio buddista? “Il buddismo parla all’individuo, ed è attraverso l’individuo che si può cambiare il mondo. Certo, in Occidente dominano l’economia, la politica, la tecnologia, la scienza. Non so però se queste categorie rappresentino qualcosa di veramente diverso.

Perché quando si va a vedere cosa muove l’individuo, cosa lo spinge ad agire in questi campi come l’economia, la politica, la tecnologia, alla fi ne si arriva al ‘principio della motivazione’. Per un buddista essa si identifica nella ‘compassione’, il principio cioè secondo cui niente di ciò che si fa deve arrecare danno o male agli altri. La mentalità buddista è per sua natura interconnessa e interdipendente di tutte le cose, dal nostro prossimo all’ambiente naturale”.

Il Dalai Lama mi guarda. Mette la bianca sciarpa attorno al mio collo in segno di benedizione e amicizia; sorride, e mi stringe forte le mani nelle sue. Sorride a lungo, solo per me. Torniamo in albergo: arriva presto la sera qui a Dharamsala.

Fuori la luna rischiara questo “profugo piccolo Tibet”, le stelle sono così prossime alla Terra da sembrare bianchi fiori di montagna.

La Valle Seriana è alle stelle come consumo di droga e alcolici

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La Valle Seriana è alle stelle come consumo di droga e alcolici

La Valle Seriana è alle stelle come consumo di droga, l’incidenza è la più alta della provincia di Bergamo, numeri altissimi e in crescita che fanno scattare l’allarme rosso nella Valle.

Campanello d’allarme anche per il consumo di alcool dove la Valle Seriana rimane ai primi posti come numero di alcooldipendenti in cura al Sert superata solo da Bergamo, Dalmine e Isola Bergamasca.

L’Alto Sebino si conferma invece “pericoloso” sul fronte cocaina e droga in genere ma non ha molti utenti invece alcooldipendenti in cura al Ser.T..

Il contrario della Val di Scalve dove ci si fa di meno ma si beve di più.

Provincia di Bergamo che rimane nelle zone alte della classifica italiana come consumo generale di droga e di alcool, con età medie che soprattutto nell’alcool si abbassano pericolosamente.

Nei pronto soccorso dei nostri ospedali week-end da bollino rosso con ricoveri per coma etilico di ragazzi di scuola media.

E il fenomeno si allarga. Ma attenzione: si tratta dei dati Ser.T.: poi c’è il fenomeno non quantifi cabile di tutti coloro che usano droga e alcool ma non si rivolgono al Ser.T.. * * * LA PROVINCIA DI BERGAMO L’utenza dei Ser.T. L’utenza dei Ser.T. in bergamasca è costituita per il 70,9% da tossicodipendenti, da 22,7% alcoldipendenti e da una percentuale minore di soggetti con altri comportamenti di dipendenza: 3,8% tabagisti, 1,6% giocatori d’azzardo, 0,1% sex addiction e, in via residuale, da una quota pari a 0,9% di soggetti con disturbi del comportamento alimentare. Tossicodipendenti I 2.660 soggetti trattati nell’anno in provincia di Bergamo sono prevalentemente persone già in trattamento dall’anno precedente o rientrate in trattamento nell’anno a causa di recidiva (80,6%) e solo in percentuale minore (19,4%), soggetti che accedono per la prima volta ai Servizi (il dato nazionale mostra l’86% di utenti già in carico dall’anno precedente o rientrati e il 14% di nuovi utenti).

Essi sono prevalentemente soggetti di genere maschile, 85,6%, (87% dato nazionale), di nazionalità italiana 92,2% (94% dato nazionale) e con età media di 34,8 anni. Sul totale dell’utenza trattata dai Ser.T. provinciali il 7,8% è costituito da cittadini stranieri, percentuale che rimane stabile rispetto al biennio precedente. I soggetti seguiti in carcere nel 2007, 461 utenti, hanno subito un incremento del 12,7% rispetto all’anno precedente. I soggetti contattati dall’Unità Mobile (intervento di prossimità gestito dalla Cooperativa di Bessimo e cogestito dal Ser.T. di Bergamo) nell’anno 2007 sono stati 703, il 5,7% in più rispetto al 2006 e il 47,1% in più rispetto al 2004.

Le sostanze per le quali è richiesto il trattamento sono nella maggior parte dei casi, 66,5%, oppiacei (72% dato nazionale), seguite dalla cocaina col 23,3% (16% dato nazionale) e dalla cannabis col 9,1% (10% dato nazionale). Queste ultime due sostanze sono molto più diffuse tra i nuovi utenti dove la cocaina costituisce la sostanza elettiva per il 43% dei soggetti. L’uso iniettivo si riscontra nel 93,8% (74% dato nazionale) degli utilizzatori di oppiacei e nel 3,3% (8% dato nazionale) degli utilizzatori di cocaina.

Tra la nuova utenza eroinomane l’assunzione per via endovenosa (tendenzialmente in calo) rappresenta nel 2007 il 44,7 % a fronte del 52,9 di uso per via inalatoria. II 63% (49% dato nazionale) degli utenti utilizza almeno un’altra sostanza psicoattiva oltre a quella per la quale risulta in trattamento – 52,1 % tra i casi incidenti (43% dato nazionale).

La maggior parte degli utenti in carico 70,8% (61% dato nazionale) dichiara di avere un livello di istruzione medio ed il 62,3% (60% dato nazionale) di avere un’occupazione lavorativa. Il 34,6% (38% dato nazionale) degli utenti dei Ser.T. sono stati sottoposti a trattamenti terapeutico-riabilitativi psico-sociali (non farmacologicamente assistiti).

Il 65,4% (62% dato nazionale) dell’utenza ha usufruito di trattamenti farmacologicamente assistiti, la metà dei quali integrati con terapie di tipo psico-sociale e/o riabilitative.

L’11,8% (8% dato nazionale) degli utenti in carico nei Ser.T. risulta aver ricevuto un trattamento presso strutture terapeutiche residenziali. Di questi il 47,9% (54% dato nazionale) riceve, ad integrazione, trattamenti farmacologicamente assistiti (metadone e buprenorfi – na) integrati con terapie psicosociali e/o riabilitative.

Alcoldipendenti Nel 2007 sono stati trattati 850 soggetti alcoldipendenti, valore in aumento del 3,5% rispetto all’anno precedente (+4,3% dato nazionale). Il 30,5% (36,3% dato nazionale) dell’utenza complessiva è rappresentato da utenti nuovi, il rimanente 69,5% (63,7% dato nazionale) da soggetti già in carico dagli anni precedenti o rientrati.

Il 94,7% (95,8% nel 2006) dei soggetti è residente in provincia di Bergamo e il 2,2% pari a 19 soggetti (2,3% nel 2006) proviene da altre province, il 3,1% è senza fi ssa dimora. Come nel caso della tossicodipendenza i soggetti di sesso maschile costituiscono la quota più signifi cativa, sia tra la nuova utenza che tra quella già conosciuta, rappresentando il 77,2% dell’utenza totale (77,8% dato nazionale 2005). Il rapporto M/F è pari a 3,4 maschi ogni 1 femmina (3,5 dato nazionale). In linea con il dato nazionale si evidenzia che la classe modale (frequenza maggiore) è 40-49 anni, sia per l’utenza totale sia per le due categorie dei nuovi e vecchi utenti.

Il 69,2% dei soggetti ha un’età superiore ai 40 anni, e il 34,2% ne ha più di 50; non trascurabile è la quota degli individui di 60 anni ed oltre, che costituisce l’11,3% (12,4% nei nuovi utenti e 10,8% nei vecchi utenti), leggermente inferiore al dato nazionale (13,5% negli utenti totali, 11,6% nei nuovi utenti e 14,5% nei vecchi utenti).

La nuova utenza ha un titolo di studio più elevato della media nazionale (diploma superiore 14,7% contro il 13,9% e diploma universitario o laurea 6,2% a fronte del 3,9% a livello nazionale). Differenze tra i due gruppi di utenti nuovi e già in carico o rientrati) si riscontrano anche nella condizione lavorativa.

Tra i primi è meno rappresentata la categoria disoccupati / sottoccupati / occupazione saltuaria rispetto agli utenti già in carico (20,5% vs 27,7%) e per contro gli occupati costituiscono il 55,6% dei primi contro il 49,7% dei secondi.

I soggetti stranieri che hanno richiesto un trattamento per problematiche connesse all’uso di alcool costituiscono il 9,3%, dato in costante aumento dal 2004 (di cui il 12% tra la nuova utenza l’11,2% nel 2006) Le valli più colpite Dal rapporto tra i soggetti alcoldipendenti trattati nell’anno 2007 e la popolazione totale residente in provincia di Bergamo si conterebbero 0,8 soggetti in trattamento presso i Ser.T. ogni 1000 residenti.

In numeri assoluti, l’utenza proviene principalmente dagli ambiti di Bergamo, Dalmine, Isola Bergamasca e Valle Seriana inferiore mentre il rapporto soggetti in trattamento e popolazione residente indica che gli ambiti con tassi di prevalenza maggiore (rapporto con il totale della popolazione) sono quelli di Valle Seriana Superiore e Valle di Scalve, Bergamo, Valle Brembana, Valle Cavallina, Alto Sebino.

Cosa bevono Tra il totale dei soggetti trattati la bevanda primaria continua ad essere il vino 41,6%, (contro il 56,1% del dato nazionale) seguita dai mix di bevande alcoliche che costituiscono il 33,8%, dalla birra con il 14,8% (23,5% dato nazionale) e dai superalcolici con il 8,8% (11,6% dato nazionale). Il 54,4% (129 su 337) degli alcoldipendenti presenta un uso problematico di una seconda sostanza psicoattiva: nel 30,4% si tratta di cocaina, nel 10,5% di cannabinoidi e nel 3,4% di farmaci ansiolitici benzodiazepine. II trattamento più rappresentato è quello psicosocioriabilitativo pari al 49,9%, seguito da quello farmacologico 32,6%.

Si rileva un sempre minore ricorso alla disintossicazione in ambiente ospedaliero (0,6% nel 2007 contro il 6,8% del dato nazionale) presumibilmente dovuto al maggior utilizzo da parte dei Ser.T. di strumenti farmacologici effi caci.

Costante rimane l’invio da parte dei Servizi ai gruppi di auto-mutuo-aiuto, leggermente superiore al dato nazionale 9,8%). In aumento è il ricorso al trattamento residenziale, confermando un trend di crescita negli anni.

Tale dato è superiore al dato nazionale che si attesta 2,5% Altre dipendenze I soggetti con diagnosi primaria di “altra dipendenza” (tabagismo, gambling, disturbi del comportamento alimentare e sexual addiction) costituiscono il 6,3% (7,2% nel 2005, 8,7% nel 2006) dell’utenza trattata dai Ser.T.. Contribuisce al calo la chiusura dell’offerta di trattamento rivolta soggetti in carico per Disturbi del Comportamento Alimentare D.C.A. e alla conseguente dimissione di quelli in carico, a fronte dell’indicazione della Regione Lombardia che affi da ai Dipartimenti di Salute Mentale il trattamento di questi soggetti. Sul totale di questi il 59,5% di questi è costituito da tabagisti, il 13,9 da persone con disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia…), il 25,3% da gamblers (gioco d’azzardo) e da 3 soggetti con sexual addiction, pari all’1,3% I numeri dei Ser.T. Nell’anno 2007 le persone che sono entrate in contatto con i Ser.T. dell’ASL della provincia di Bergamo e che hanno ricevuto una o più prestazioni per richieste personali riferite alle aree dell’uso/abuso o dipendenza da sostanze stupefacenti o alcoliche o ad altri comportamenti di dipendenza sono state 4.859. Sono esclusi da questo numero familiari, parenti o conoscenti che pur rappresentano una quota importante di persone che accedono ai Ser.T. per richieste di consulenza o come “mediatori/facilitatori” di una richiesta di trattamento o perché coinvolte nel programma terapeutico del proprio familiare. (Vedi Tab.1 – Utenti afferiti nei Ser.T. – in basso).

L’utenza trattata I soggetti che nell’anno 2007 hanno ricevuto uno o più trattamenti per problematiche connesse a comportamenti di abuso o di dipendenza sono state 3.747. Il 70,9% di questi sono tossicodipendenti, il 22,7% alcoldipendenti e il 6,3% persone con altri comportamenti di dipendenza.

Ci sono 3065 maschi in trattamento e 682 femmine, il rapporto è 7,3 maschi per ogni femmina tra i tossicodipendenti, 3,4 maschi per ogni femmina tra gli alcolisti e 2,7 maschi ogni 1 femmina tra i giocatori d’azzardo. Ser.T. e Unità di Strada Nel 2007 sul totale dell’utenza trattata dai Sert provinciali il 7,8% è costituito da cittadini stranieri.

Dei 292 soggetti stranieri trattati dai Ser.T. nel 2007 il 71,9% è tossicodipendente, il 27,4% alcoldipendente e lo 0,7% altre dipendenze. 86 stranieri sono senza fi ssa dimora. Molti sono in prigione, il 47,3% e poi ci sono gli stranieri entrati in contatto con l’Unità di Strada.

In carcere ci sono 461 soggetti con problemi di tossicodipendenza o alcoldipendenza. E poi c’è l’Unità Mobile, gestita dalla Cooperativa di Bessimo in collaborazione con il Ser.T di Bergamo un servizio rivolto d una fascia di utenza che vive in situazioni di marginalità e che non sempre accede a servizi ambulatoriali. Costituite quindi da counselling sociale e sanitario, distribuzione di materiale sanitario (set per medicazione, naloxone, profilattici, siringhe, ecc.) interventi in rete con gli altri enti o strutture pubbliche e privati afferenti alla rete della Bassa Soglia (dormitori, Centro di Primo Ascolto e Coinvolgimento e altri servizi Caritas, Patronato S. Vincenzo, ecc.) terapie farmacologiche.

Tutte le prestazioni sono garantite anche da anonimato, ad eccezione delle terapie farmacologiche. La rilevazione dei soggetti è possibile solo per coloro che usufruiscono di terapie farmacologiche. I soggetti contattati nel 2007 sono stati 703.

Sono persone che chi opera nell’Unità di Strada incontra quotidianamente anche per mesi. Nel 2007 sono state distribuite 290.284 siringhe, 203.514 siringhe rese, e distribuiti 7.363 profilattici. Tossicodipendenti in zone Distribuzione degli utenti tossicodipendenti in trattamento presso ogni Ser.T. suddivisi per tipologia: Bergamo (1201), Gazzaniga (290), Lovere (144), Martinengo (331), Treviglio (340), Ponte San Pietro (354) per un totale di 2660. C’è un progressivo invecchiamento dell’utenza: la fascia inferiore ai 24 anni è diminuita passando dal 25,8% nel 1999 al 14% nel 2007 mentre quella relativa alla fascia d’età più avanzata (maggiore di 39 anni) è regolarmente aumentata passando dall’8,9% nel 1999 al 31,8% nel 2007. Sul totale dell’utenza trattata la fascia d’età maggiormente rappresentata è quella superiore ai 35 anni che costituisce il 52,4% costituita per il 91% da utenza già in carico.

L’età media è 34,8 anni. Utenti tossicodipendenti in carico ai Ser.T. suddivisi per stato civile nuovi e già in carico: celibe/nubile (1713, il 64,4%), coniugato/a (389, il 14,6%) convivente (280, il 10,5%), separato/divorziato (233, il 8,8%), vedovo/a (13, lo 0,5%) non noto (32, l’1,2%). * * * Utenti tossicodipendenti in trattamento nei Ser.T distribuiti per titolo di studio: nessuno (10, lo 0,4%), licenza elementare (192, il 7,2%), licenza media (1882, il 70,8%), corsi professionali (184, il 6,9%), diploma superiore (330, il 12,4%), diplomi universitarie, scuole dirette, laurea (23, lo 0,9%), non rilevato (39, l’1,5%). Alcooldipendenti Utenti alcoldipendenti in trattamento nei Ser.T. suddivisi per sesso: maschi (656), femmine (194). La classe d’età più “gettonata” quella fra 40 e 49 anni. Il 69,2% dei soggetti ha un’età superiore ai 40 anni, e il 34,2% ne ha più di 50, non trascurabile è la quota delle persone di 60 anni e oltre che costituisce l’11,3%. La fascia d’età inferiore ai 30 anni costituisce il 7,2% del totale, poiché ricerche effettuate sulla popolazione giovanile bergamasca sembrano rilevare un quadro opposto (abuso di alcool superiore rispetto alla media nazionale), sarà necessaria una rifl essione sull’adeguatezza dell’offerta terapeutica in relazione ai soggetti giovani.

L’età media è pari a 45,5 anni. La nuova utenza per l’alcool ha un titolo di studio più elevato. Bevono di più gli occupati costituiscono il 55,6% dei primi contro il 49,7% dei secondi. Il 12% della nuova utenza alcoldipendente è costituita da cittadini stranieri.

A differenza di quanto avviene per la tossicodipendenza, che vede tra l’utenza straniera una netta prevalenza di soggetti di origine maghrebina, l’utenza alcoldipendente straniera si presenta maggiormente eterogenea: le aree geografi che di maggior provenienza sono costituita da paesi UE (15 soggetti), seguiti del Nord Africa (14), da paesi est europei extra UE (12), dall’America centro meridionale (7), da altri apesi europei (3) e da paesi asiatici (3). Bevanda d’abuso primaria: superalcolici (8,8%), aperitivi-amari-digestivi (0,9%), vino (41,6%), birra (14,8%), altro (mix) 33,8%. I soggetti con diagnosi primaria di ‘altra dipendenza’ (tabagismo, gambling, gioco d’azzardo patologico) disturbi del comportamento alimentare e sexual addiction costituiscono il 6,3% dell’utenza trattata dai Ser.t. Soggetti trattati dai Ser.t dell’Asl di Bergamo per gioco d’azzardo patologico: 60.

Più di due terzi ha un’età superiore ai 39 anni. Quasi tutti italiani e quasi tutti con la licenza media. Quasi tutti ‘affetti’ da video poker: 41 persone. 3 dal gioco dei cavalli, 2 da giochi da casinò, 13 da lotterie e 1 non noto.

I TRATTAMENTI Tossicodipendenza I trattamenti di tipo psico-sociale e/o riabilitativi consistono in psicoterapia individuale, counselling individuale e sostegno psicologico individuale, effettuati generalmente insieme a interventi di servizio sociale individuale e monitoraggio.

Nel 2007 il 57,6% del totale dei trattamenti è stato di tipo farmacologico integrato e il 30,5% ha benefi ciato in via esclusiva di un trattamento psico sociale. In aumento il trattamento residenziale o semiresidenziale. Alcoldipendenza Il trattamento più rappresentato è quello di tipo farmacologico pari al 49,9% (28,2% dato nazionale), seguito da quello psicosocio-riabilitativo 32,6%. Si rileva un sempre minore ricorso alla disintossicazione in ambiente ospedaliero presumibilmente dovuto al maggior utilizzo da parte dei Ser.t. di strumenti farmacologici effi caci. Costante rimane l’invio da parte dei Servizi ai gruppo di automutuo-aiuto leggermente superiore al dato nazionale (9,8%).

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Apre l’ospedale più bello d’Italia

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Non ha l’aria soddisfatta che ti aspetti da uno che si appresta a fare passerella. Anzi, Amedeo Amadeo, Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate, sembra preoccupato. Arriva con la sua auto sul cantiere, entra, sale sul terrazzo della palazzina di fronte per dare un’occhiata d’insieme, ha appena litigato con qualcuno che va ancora a rilento, per il giorno dell’inaugurazione magari sembrerà tutto a posto, si stanno asfaltando i parcheggi dell’entrata sul vialone, si stanno disegnando i nuovi parcheggi sull’entrata principale, dove c’è la portineria, si vede la gru che gira e operai che non sembrano nemmeno parenti di quelli che si vedevano mesi fa. Amadeo si siede: “Forse dopo il 20 dicembre, se tutto sarà andato bene, tirerò un sospiro di sollievo. Basta ricordare che un trasferimento del genere a Lecco è durato addirittura 8 anni, che a Seriate, per i nuovi reparti, abbiamo impiegato cinque mesi, da dicembre ad aprile”.

Appunto. Tanto ritardo (due anni abbondanti) sui tempi previsti e adesso perché tutta questa fretta? “Una questione di finanziamenti da non perdere”. Il riferimento, oltre che al bilancio regionale, è anche alla seconda rata che il Comune di Clusone deve versare per l’acquisto del S. Biagio, l’attuale sede dell’Ospedale, che da tre anni il Comune baradello ha acquistato, di cui ha versato una sola rata, ricevendo per assurdo, visti i ritardi, un “affitto” per niente simbolico dall’Azienda Bolognini di 300 mila euro l’anno per il suo utilizzo (del S. Biagio!). Amadeo è in valle, sul cantiere, per dare la sua occhiata che si farà, a ridosso dell’inaugurazione, quasi quotidiana. “C’è sempre qualcosa che non va, non sono un tecnico, ma ci sono sempre delle grane”.

La storia dell’appalto di questo Ospedale è di quelle che dovrebbero far cambiare in un giorno al Parlamento le varie leggi Merloni, che invece resistono all’urto perfino della ragione. Fatto sta che nel 2002, quando si affidano i lavori, le ditte vincitrici sono la Co.gi. per la parte muraria e la Satrel per l’impiantistica. Le cose non vanno bene fi n dall’inizio, nel 2004 la Co.gi. fallisce, la Satrel rileva i lavori ma non si va avanti fi no a che, un anno dopo, Amadeo rescinde il contratto unilateralmente, affidandolo a una nuova ditta, la Magsistem per l’edilizia e la Dervit per l’impiantistica con la parte dei “gas medicali” alla Cattaneo di Sovere. Nemmeno così le cose vanno per il verso giusto per le prime due ditte, fi no a quando Amadeo riesce a ottenere che i subappalti siano “guidati” dalla sua Azienda Ospedaliera. I subappalti affi dati ad aziende locali fanno faville e si recupera in pochi mesi, praticamente da fi ne agosto ad oggi, quello che ormai, lasciando andare le cose come andavano, si sarebbe terminato a dicembre 2009.

Quindi un anno di anticipo sul… ritardo potenziale di tre anni. Con la Satrel c’è un contenzioso giudiziario, ma già al 90% il CTU (il tecnico nominato dal Tribunale) ha dato ragione all’Azienda Ospedaliera. “Quindi alla fi ne di tutto, con i lavori partiti nel 2003, la revisione prezzi (rame e ferro schizzati in alto) quando abbiamo cambiato e fatto il nuovo appalto, arriveremo a spendere 22, massimo 23 milioni, sui 21 preventivati sei anni fa”. Quanti posti letto? “135 posti letto”. Posti di lavoro? “330 persone, con un aumento, rispetto ad oggi, di 18 unità. Credo che in questo momento di crisi della valle questo sia un segno della presenza del pubblico, un segnale che noi ci siamo, distribuiamo servizi e stipendi e godiamo di discreta salute”. Mi guarda un momento, poi capisce che se stiamo “nei conti della serva” non si capisce cosa sta succedendo: “Questo è uno degli interventi più importanti, forse il più importante degli ultimi anni in bergamasca e non solo. Per la rilevanza storica e anche per il futuro. In questo momento ci sono 4 mila famiglie in valle Seriana che sono in cassa integrazione.

Questo è un segnale psicologicamente importante che il pubblico non abbandona la valle. Non è certo stato costruito per questo, visti i tempi, ma arriva nel momento giusto. Andare ad inaugurare un’opera pubblica così rilevante in una zona in difficoltà, è un segnale importante”. Amadeo è stato anche parlamentare europeo, è uno che la politica la mastica da sempre e la sa fare. Faceva il medico-chirurgo e nelle nomine regionali la sua non ha certo sorpreso, insomma l’ambiente lo conosce.

Poi gli intoppi burocratici e tecnici spiazzano questi manager: “Guarda, la mia più grande delusione, che mi ha fatto troppe volte rimanere male, è incontrare gente che non mantiene la parola data… Per il lato tecnico sono stato supportato in maniera clamorosa dall’ing. Renato Mauri che è il nostro responsabile unico del procedimento e dal geom. Ezio Puccini”. Va beh, dai, siamo arrivati alla fi ne, l’importante è avere un ospedale che sia tale: “No, guarda, questo, dal punto di vista strutturale, penso sia il più bell’Ospedale d’Italia”. (Pausa: a qualsiasi valligiano fa sempre piacere sentire che qualcosa di quello che sta sul suo territorio abbia un primato. Però subito dopo gli viene il sospetto che lo stiano prendendo in giro. Amadeo sembra convinto).

“Certo, perché recupera un ospedale del 1932 con tutte quelle caratteristiche di bellezza del tempo ma al tempo stesso con tutti i servizi con l’accreditamento 2008 e spazi incredibili. E in più diventa il più bello d’Italia non perché sia solo bello in sé, ma perché la collocazione geografi ca è impagabile, questa mattina venendo su guardavo le montagne innevate e guarda che cosa vedranno dalle loro finestre quelli che saranno ricoverati, beh, almeno la vista li consolerà. Io non l’ho scelto, questo posto, l’ho ereditato come una polpetta avvelenata perché andare a ristrutturare un posto così era da manicomio, però mi hanno anche dato l’occasione di fare, come dicevo, il più bell’Ospedale d’Italia perché penso che una collocazione come questa non ce l’abbia nessuno”. (Cerco di uscire dalla visione idilliaca come Ulisse con la Maga Circe).

Torniamo al tecnico per un momento. Vi hanno accusato di aver liquidato la  con una percentuale di avanzamento, mi pare il 64%, pazzesco rispetto a quello che si vedeva realizzato. “Il 60%… C’è da dire una cosa che all’inizio, la quantità di lavori che vengono fatti, siccome devi tirar su dei muri ecc. sembra di meno ma è di più, mentre quando cominci a far la stanza, mettere le porte… è un lavoro molto costoso e impegnativo ma di minore impatto…”. Non avete fatto un po’ di regalo, per farli andare a casa e riaffilare l’appalto? “Non abbiamo regalato niente a nessuno. Tutta l’operazione è stata condotta nella massima trasparenza e nel massimo rispetto delle regole”. Ma quando esattamente ti senti di dire che entrerà in funzione? “A Natale ti invito qua a bere il caffè e andiamo a salutare i malati che ci sono dentro”.

E funzionerà tutto? “Certo”. Una lamentela che mi è arrivata da uno che lavora nell’Azienda S. Biagio: ma perché non ci chiamano giù a vedere dove vanno messe le spine, dove mettere le cose visto che noi siamo gli operatori e dovremo usarle quelle attrezzature? “Perché verranno chiamati quando chiudiamo di là, abbiamo 15 giorni di intervallo da quando chiude il S. Biagio e apre questo nuovo. Dal 5 dicembre entra in funzione l’ospedale da campo. Dal 10 di novembre noi abbiamo chiuso le accettazioni ordinarie al S. Biagio e cerchiamo gradualmente di ricoverare il meno possibile a Clusone e di accorpare”. Cosa vuol dire accorpare? “Chirurgia con l’ortopedia per consentire a una quota di personale di venir qui a prendere visione di dove e come lavoreranno e fare formazione per vivere la vita del nuovo ospedale. Questo lavoro è coordinato dal dott. Bonomi, è già incominciato e va avanti. Meno gente sarà nel S. Biagio e più personale riusciremo a spostare qui per adattarsi al nuovo ambiente di lavoro…”.

Quando cominceranno ad accettare i ricoveri qui? “Quando saremo in perfetta sicurezza”. Cioè quando? “Penso che possa esser verso metà dicembre, al massimo qualche giorno dopo”. L’ospedale da campo che funzione ha? “Di pronto soccorso”. Altra lamentela che mi è arrivata, questa volta dall’alto Sebino. C’è chi doveva fare la chemio a Clusone e adesso gli hanno detto che deve rivolgersi o ad Alzato o a Seriate. “La chemio è stata messa a Clusone da un anno. Deve andare in altri ospedali anche per la sicurezza: la chemio è un farmaco che deve essere preparato nella massima sicurezza, non possiamo rischiare con un trasloco in atto. Nei limiti del possibile andiamo incontro certamente all’ammalato, però qualche disagio ci sarà”. Il trasferimento comporta anche cambiamenti di prestazione? “Il modello organizzativo all’inizio sarà perfettamente identico a quello del S. Biagio, dopo di che abbiamo tre o quattro mesi di tempo per prendere le misure e sperimentalmente vedere se c’è da fare qualcosa di diverso”.

Il più bell’Ospedale d’Italia per il posto e l’edificio. Ma i servizi, torno lì, saranno anche loro all’avanguardia? “Abbiamo speso 2 milioni e 980 mila euro di arredi e tecnologia, l’80% è nuovo, insomma abbiamo speso 6 miliardi di vecchie lire, questo non è il Niguarda, la Tac nuova è una cannonata”. Che tipo di ospedale sarà? “Un ospedale per acuti, puramente per acuti, con i reparti di medicina, chirurgia, ostetricia, traumatologia e il day hospital pediatrico, che è un po’ il motivo di polemica”.

Perché? “Perché i day hospital diagnostici non ci sono più quindi non dovrebbe esserci nemmeno il day hospital pediatrico che noi abbiamo mantenuto ugualmente vista la peculiarità della zona. Con l’Asl capita che delle volte non ci pagano le prestazioni ma noi lo manteniamo lo stesso. Insomma io voglio mantenere il day hospital per mantenere qui il pediatra per cui al pronto soccorso per un bambino c’è lo specialista che per i ricoveri indirizza poi verso altri ospedali ma intanto interviene e tamponare la situazione e la prima terapia”. Un’altra cosa: qualcuno avanza il sospetto che la fretta nel fare questi lavori comprometta la qualità dei lavori stessi.

Si parla di pavimenti incollati alle caldane umide… “No, abbiamo avuto la fortuna di tre mesi di bel tempo per cui è asciugato tutto. E’ anche vero che avevamo preso contatto con delle ditte specializzate per eventuali impianti per asciugare. Non ne abbiamo avuto bisogno. Abbiamo acceso anche i nostri termosifoni per 15 giorni. E’ venuto tutto al meglio. Detto questo sono consapevole che andiamo incontro a una valanga di problemi”. Ma come, se hai detto che va tutto bene… “Guarda, lo spostamento di un Ospedale non lascia tranquillo nessuno. Sai, fi nchè c’erano i lavori ‘ho sputato sangue’, sono venuto tre giorni alla settimana, ho messo qui due miei tecnici a tempo pieno anche se il contratto parlava di chiavi in mano, però adesso sono più preoccupato di prima perché incominciano ad esserci di mezzo gli ammalati, finché non vedo di qua tutto bello tranquillo, non sono tranquillo io…”. Sì ma vuoi mettere, il 29 hai qui La Russa, Formigoni, Fazio e poi altre autorità, tutti ai tuoi piedi… oh, l’ospedale è a posto quel giorno? “No, guarda, la passerella non me la godo proprio.

L’Ospedale è a posto, il 27 invito la stampa e le televisioni a fare un giro per l’Ospedale e lo vedrete a posto”. Non vediamo l’ora di essere orgogliosi di avere l’Ospedale più bello d’Italia.

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