domenica 1 Settembre, 2024 - 01:18
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Editoriale Anna Carissoni

Mi sono chiesta spesso come mai l’orto mi sia diventato tanto necessario e come mai riesca a regalarmi tanti  momenti di relax e di gioia e credo di essere arrivata a questa conclusione: l’orto risponde, puntualmente e concretamente, nel bene e nel male, alle mie azioni ed al mio impegno, cosa che non succede – o succede molto raramente – nel mio lavoro. Che è quello di cercare storie, emozioni, sentimenti, fatti e notizie e di raccontarli alla gente. Cosa che faccio con impegno, certo, ma senza sapere mai – o quasi mai – se il mio impegno è andato a buon fine, se ha prodotto idee e pensieri nuovi nei Lettori, se ha contribuito a renderli più attenti, più consapevoli, più buoni e – perché no? – magari anche un pochino più felici…. Di quello che faccio – o non faccio – nell’orto, e di come lo faccio, posso invece vedere sempre il risultato: concreto, evidente, inconfutabile, in modo da farmi capire chiaramente se ho sbagliato, dove ho sbagliato e perché; e anche in modo, naturalmente, da darmi soddisfazione e gioia quando ho fatto le cose come andavano fatte. E poi l’orto è anche un’efficace scuola di umiltà perché il senso della nostra umana fragilità e pochezza emerge soprattutto dalla constatazione, quotidiana o quasi, del miracolo che è la vita, anche quella del più piccolo ortaggio e del più esile filo d’erba. Niente meglio di un orto ridimensiona le manie di grandezza, la superbia, l’orgoglio, perché, per quanto bravi e saggi ed esperti ortolani possiamo essere, non potremo mai veder crescere nulla se non abbiamo seminato, e perché la forza misteriosa che fa germogliare un seme non dipende da noi. Anche veder distrutto di colpo  il lavoro di tanti mesi da una grandinata – o dalla pioggia incessante, come succede quest’anno – è scuola di umiltà, seppure dolorosa: poche cose mi addolorano quanto il rumore dei chicchi della tempesta che rimbalzano dal tetto al terrazzo e che mi riempiono di apprensione per i miei cespi e per le mie verdure…. E di fronte alla rovina – che appare solo in un secondo tempo in tutte le sue dimensioni – è sempre l’umiltà che mi fa rassegnare, che mi fa riprendere i miei attrezzi, i miei semi e le mie piantine e ricominciare da capo. Proprio come si fa dopo qualsiasi altro evento distruttivo: ricominciare, ricostruire, ripartire, restituire vita alla vita, perché questo è il compito e il destino dell’umanità. Perlomeno fino a quando l’umanità intera non sarà diventata più rispettosa della vita in tutte le sue forme

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Aristea Canini

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