Benedetta gente

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    Se ne vanno in troppi, bandiere e ricordi, nostalgie, canzoni, immagini e amori perduti nel vento. Anouk Aimée era protagonista in “Un uomo, una donna” di Lelouch, certe mattine mi sveglio con il motivo di quella colonna sonora, la canticchio con un paradadada e mi ritrovo in quelle atmosfere autunnali, del resto consone all’età. No, “La dolce vita” la vedemmo molti anni dopo, mica la proiettavano negli oratori. Ma anche Françoise Hardy con “Tous les garçons et les filles de mon âge…”, dai che elaboravamo i lutti delle delusioni amorose con la magra consolazione che, se perfino quei cantanti famosi restavano soli per strada, “je vais seule par les rues, l’âme en peine…”, mal comune mezzo gaudio nel crogiolarci nei perduti amori.

    Vedete, ci sono giorni che uno stacca, chi se ne frega di chi ha vinto e chi ha perso alle elezioni, “Credo che in certi momenti il cervello non sa più pensare. E corre in rifugi da pazzi e non vuole tornare” (Bertoli).

    Poi si torna giù, “Poi cado coi piedi per terra e scoppiano folgore e tuono”. leggo dell’ennesima strage di gente disperata nel grande mare; o di conferenze di pace dove tutti (quasi tutti) la vogliono ma sono assenti i signori della guerra e allora è come stringere la mano all’aria; o di ragazzi che, direbbe Pascoli, agli uomini, la loro vita volevano lasciargliela lì”, una lunga sequenza di suicidi, non reggono la competizione, il continuo sgomitare per farsi largo, si sentono fuori misura, fuori ruolo, fuori vita e per molti c’è alle porte un esame (di maturità? Ma dai!).

    Sulla scuola: sta passando la convinzione che i ragazzi, i giovani, avendo a disposizione tutte le nuove tecnologie debbano “imparare” a sopportare la sofferenza, il sacrificio, la fatica per prepararsi alla competizione della vita. E la scuola quella sofferenza debba proporgliela come allenamento al futuro. È come se, per allenare alla sopportazione del dolore futuro, i genitori dovessero picchiare a sangue e ferire fisicamente i figli, così a poco a poco, come Mitridate col veleno, sapranno sopportare il dolore futuro che sembra debba piombargli addosso, ineluttabile. Invece i genitori cercano di preservarli dal dolore e gli insegnanti reagiscono infastiditi aumentando i carichi di lavoro e tranciando giudizi parametrati aritmeticamente al punto che c’è gente che viene bocciata avendo una media del 5,8, “sufficienza non raggiunta”. Per esperienza personale i giudizi si davano conoscendo il ragazzo nella sua complessità, nei suoi momenti no e comunque non facendo “medie” ma dando un giudizio finale sul livello raggiunto di competenza e soprattutto di conoscenza. Se uno ha preso durante l’anno dei 3 o 4 e poi alla fine è approdato sul livello 6 si dovrebbe prendere atto che alla sufficienza ci è arrivato, tardi, ma ci è arrivato, ma se si fa la media dei voti precedenti viene bocciato. Avevo un insegnante di greco al liceo che durante l’anno dava degli 0 col puntino in mezzo. Alla richiesta di cosa volesse dire quel puntino aveva risposto che valeva per 40 sottozero. Misteriosamente in pagella ci trovavamo con il 6, rimediato nell’interrogazione di fine anno. Non aveva tenuto conto dei precedenti, gli interessava che alla sufficienza ci fossimo arrivati. Al netto delle eccellenze, troppi insegnanti non solo sono digiuni di pedagogia e psicologia dell’età evolutiva, ma anche di buon senso. Possedere la materia non vuol dire automaticamente che la si sappia insegnare. Einstein era un genio, ma non credo sarebbe stato un buon insegnante. Il mestiere di genitori, tramandato per secoli nelle famiglie patriarcali, oggi è molto più problematico, per un conflitto generazionale accentuato dalla globalizzazione, nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale e adesso da quella industriale a quella tecnologica. Il mestiere degli insegnanti è ancora più faticoso, non avendo più il mandato pieno della comunità, come avveniva per i “maestri” d’antan. Ma chiudersi nel proprio campo di competenze senza affrontare il tema della conoscenza, produce e produrrà uno sconquasso nei giovani. Ai quali abbiamo già spento i sogni prima dell’alba, imponendo un ritmo frenetico che in troppi non sanno reggere e “la loro vita ce la lasciano qui”. Poi vai con i “lunghi funerali, senza tamburi né musica (che quelli sì), sfilano lenti…” (Baudelaire).