“Ed ecco io farò venire il diluvio di acque sulla terra, per distruggere ogni carne che ha alito vitale sotto il cielo: tutto ciò che è sulla terra morirà (…) tutte le fonti del grande abisso irruppero e le cataratte del cielo si aprirono e piovve a dirotto sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi). Ma dai, non è piovuto a dirotto e tantomeno per quaranta giorni (sulle notti possono dare testimonianza i nottambuli) ma è bastato per inondare la più bella città del mondo (“Venezia che muore / Venezia appoggiata sul mare, / la dolce ossessione / degli ultimi suoi giorni tristi” – Guccini), per rivedere l’Arno sfiorare i ponti di Firenze (ed ecco i ricordi dei giovani che arrivarono in città da tutta Italia a spalare fango e salvare i libri nel 1966). E i soliti bilanci di frane e smottamenti, per raccontarci storie di gente che sopravvive e noi a brontolare se quello dell’auto davanti rallenta o per la pozzanghera presa in pieno da quell’altro che la spruzzata ci ha lavato le braghe. Abbiamo smosso la terra, la terra si muove. E a volte viene il dubbio che Dio si rimangi la parola, come uno qualsiasi dei nostri politici che negano di aver detto quello che abbiamo sentito in tv il giorno prima, che sembrano i calciatori che danno una gomitata all’avversario, quello perde sangue ma loro recitano la parte di chi non lo ha nemmeno sfiorato, sprezzanti dei var e dei replay impietosi. La promessa non è registrata in tv, ma sta scritta nel libro sacro: “Io stabilirò il mio patto con voi, e nessuna carne sarà più sterminata dalle acque del diluvio, né ci sarà più diluvio a sconvolgere la terra”. E le spere di sole fanno ricordare la canzone in cui “un giorno di sole fa dire a dicembre l’estate è già qui”. Archiviato il Dio irato dell’Antico Testamento, ci abbiamo pensato noi a sconvolgere la terra, a sterminare le carni.
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“Anno di nocciole, anno di neve”. Perfino i proverbi tarati sui millenni subiscono l’insulto delle nuove stagioni, ridotte a due come una semplificazione delle frazioni dell’aritmetica, estate e inverno. “Mai vista tanta neve a novembre”. La neve che eguaglia tutto, si va tutti in bianco. E poi il silenzio che certe mattine sentivo solo mia madre che spalava la neve in cortile per farmi uscire con la Dyane e arrivare in tempo a scuola che i ragazzi si godevano la manna dal cielo e arrivavano vociando in ordine sparso, con l’esaltazione del ritardo giustificato dal cielo.
E “quelli” che a Roma fanno riunioni che poi c’è sempre uno che minaccia nuove elezioni che non dovrebbero essere per definizione una minaccia, in una democrazia rappresentativa. Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur, e a noi interessa poco a niente, che ricorda quella scritta sui muri di Roma nell’inverno del 1943: “Andatevene tutti, lasciateci piangere da soli”. La piazza si colora, piena come le “sardine” in scatola, liberate dalla noia e dalla nausea per chi pure abbiamo votato e a volte troppo esaltato. Ad ogni ondata giovanile c’è chi spera che siano loro, i giovani, non a costruirsi il loro futuro (di cui non ci curiamo molto), piuttosto siano loro a risolvere i… nostri problemi, quelli che ovviamente abbiamo creato noi stessi e contavamo di lasciargli in eredità (della serie “si arrangeranno”) ma non vorremmo allo stesso tempo che ci scalzassero troppo presto dalle nostre postazioni di potere, anche piccolo, che ci siamo costruiti a fatica e sgomitando (molto).
E allora una nevicata metterebbe la sordina perfino ai risentimenti esaltando i sentimenti: “Si sentiva soltanto il rumore del fiume la sera (…) e c’era posto pure per le favole (…) Roma era tutta candida, tutta pulita e lucida (…) l’hai più vista così?”. No che non l’abbiamo più vista così e servirebbe anche a rallentarci che andiamo troppo di fretta e non abbiamo ancora capito per dove.
(Ma è stato davvero un anno di nocciole?).