Benedetta gente

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    E’ già stato tutto detto, vissuto, scritto. Era la fine della pestilenza. Ma il medico che si era speso per tutti nella città di Orano, il dott. Rieux, non partecipava alla festa. “Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava e cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”. (La peste – Albert Camus). Già perché tutto nel romanzo comincia dai topi che, come nell’antiche storie, sono i primi ad abbandonare la nave e gli uomini sono gli ultimi a capire che si sta per affondare. “Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Quando scoppia una guerra tutti dicono, è una follia, non durerà. E forse la guerra, come la peste, è davvero una follia, ma ciò non le impedisce di durare”.

    Nel romanzo c’è tutto, potrebbe essere stato scritto in questi giorni, c’è il prete che tira fuori le piaghe d’Egitto come castigo divino (ma si ricrederà), l’esplosione degli egoismi, le rivolte popolari alle restrizioni (“persone finora rispettabili indotte ad azioni riprovevoli che furono subito imitate” creando una folla che reclama “pane e libertà”), l’ignoranza che prevale sulla conoscenza (“Il male presente nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza”), gli atti di eroismo personale (“ma se non si è anche capaci di grandi sentimenti non mi interessa”) come le vigliaccherie degli approfittatori (“le famiglie povere diventavano sempre più povere mentre le famiglie ricche non mancavano di nulla acuendo il sentimento d’ingiustizia”). E ancora, il coprifuoco, la confusione tra verità e leggende, i funerali deserti e frettolosi, i tram svuotati e trasformati in “strani convogli” funebri carichi di bare che sferragliano sui viali di notte (e viene in mente quel convoglio notturno di camion a Bergamo), le cremazioni, le mascherine “di garza”, il vaccino del dott. Castel che dopo alcuni insuccessi salverà la città. Ma non sarà mai più come prima, “distruggere è più semplice che ricostruire” e “la peste può venire e andarsene senza che il cuore degli uomini ne sia trasformato”.

    “E’ proprio vero che gli uomini non potevano fare a meno degli uomini”. Giò, ma Dio dov’era? “Si può essere santi senza Dio”. Santi laici. La religione sopraffatta dalle “superstizioni assai poco razionali” ognuno attaccandosi a “profezie” e pareri che fossero rassicuranti, anche di fronte all’evidenza della tragedia. “Chi poteva sostenere che l’eternità di una gioia (il paradiso) bastasse a ripagare un istante del dolore umano?”. E “la religione dei tempi di peste non poteva essere la religione di tutti i giorni”, anche se poi uno, nella disperazione o anche solo nell’incertezza “sceglieva di credere tutto per non essere costretto a negare tutto”.

    Già gli uomini non cambiano e si ripetono. Non leggono, ignorano la loro storia. E credono di vivere in esclusiva, nel presente, ignorando il passato, precludendosi il futuro. “Non avete capito? La peste è un continuo ricominciare”.

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