“Settembre. E’ tempo di migrare…” (e c’è chi il verbo lo prende alla lettera per il dopo elezioni). Il passaggio del gregge è uno spettacolo. Anticipa il gregge di cui facciamo parte che andrà alle urne, in fiumane molto più ridotte. Davanti ci sono “pastori” che indicano la via (obbligata, visto il sistema elettorale senza preferenze) e dietro incalzano pastori che ci spingono in avanti, per dove non si sa, ma ci promettono “verdi pascoli” paradisiaci, a salve. Intanto zampettiamo nel gregge, qualche pecora cerca di “smarrirsi” ma è subito costretta dai cani di guardia a rimettersi in fila.
Abbiamo intervistato in questi giorni tutto quello che un tempo si sarebbe chiamato “arco costituzionale”, vale a dire quelli che vogliono essere rappresentati dalle istituzioni. Non ci sono più movimenti extraparlamentari, che nei decenni ruggenti della seconda metà del secolo scorso proliferavano, nella sfiducia di poter cambiare le cose dal “dentro”. Ognuno col suo “sogno diverso, ognuno in fondo perso”. “Ed è proprio aver perduto che ci fa credere ancora” (Vecchioni). In chi e che cosa non sappiamo, nemmeno ci sforziamo di capire, in una confusione delle menti che ci fa rimpiangere e, per molte famiglie, perfino piangere. La paura della povertà. Le due donne (anziane) al mercato ne discutono col sorriso, “dovremo andare ancora per legna nel bosco, come una volta, scaldare solo la cucina, ai miei tempi non si scaldavano le camere”. Un salto all’indietro di decenni, il secondo dopoguerra. Eppure allora sembrava davvero che stesse arrivando “primavera”. E poi la fine degli anni sessanta e quel movimentismo non solo giovanile, extra istituzioni, nato e fermentato in basso. “Formidabili quegli anni, formidabili quei sogni” (sempre Vecchioni) anche se “non vi passi per testa che si celebri il terrore”. Solo che quel tempo davvero “sembrava primavera”.
Che poi è la stagione indicata come simbolo di risveglio: primavere celebrate come rivoluzioni sociali prima ancora che politiche, dalla “primavera di Praga” in poi, sono poi finite in risvegli deludenti, restaurazioni più o meno cruente che hanno spento quei “sogni formidabili”, allo spuntare di albe spesso sanguinose.
Si vota in autunno, forse in futuro lo indicheremo come un segno dei nuovi tempi. No, sia chiaro, “noi non siamo della razza di chi frigna e si dispera”, figurarsi “noi siam quelli del rimorso prima ancora del peccato, siamo i primi della classe di un amore immaginato”. Poi sento un politico di lungo corso che rimpiange quelli che al tempo voleva spazzare via, i Craxi, i De Mita ecc. che adesso gli sembrano giganti non solo della prassi ma anche della teoria.
La nostalgia non fa bene, immalinconisce e non produce futuro, solo rimpianto. E allora prendiamo il meno peggio per l’ennesima volta, prendiamo atto che se non sappiamo coniugare il futuro è perché siamo, noi tutti, analfabeti di ritorno, sappiamo coniugare a mala pena il presente indicativo ma solo nella prima persona, io, io, io, il “noi” comporta confronti che finiscono in scontri.
Alziamo gli occhi, gente, guardiamo oltre la siepe del nostro giardino. Cominciando dal paese in cui viviamo, poi, chissà, forse riusciremo a mettere a fuoco anche la valle e poi, chissà, forse torneremo a sognare primavere che non finiscano all’alba dell’autunno.