No, non siamo più “Italiani brava gente” (film del 1964 con un comico-tragico Raffaele Pisu e Riccardo Cucciola, ma anche Peter Falk e Arthur Kennedy). Il titolo alimentava il mito di un popolo tutt’altro che guerriero, con il risvolto “benevolo” di essere anche un popolo inaffidabile proprio perché non alimentato da uno spirito di appartenenza, al punto che non abbiamo mai finito una guerra con l’alleato con cui l’avevamo cominciata. E anche il tentativo mussoliniano di farne il popolo delle otto milioni di baionette è finito con le scarpe di cartone che si sfaldavano nella steppa gelata della Russia. Mi raccontava anni fa uno dei reduci di quella tragica ritirata di quando lui e un altro, praticamente congelati, entrarono in una isba dove c’erano una vecchia, quella che capirono era la nuora e un bambino piccolo. Il primo impatto fu il terrore negli occhi delle due donne. Poi vide una foto sul muro, era probabilmente il marito della signora, ritratto mentre suonava uno strano strumento musicale. Indicò la foto e si fece capire a gesti che anche lui suonava nella banda del suo paese. Il sorriso, la commozione, chissà che altro, le donne offrirono quel poco che avevano di cibo e lasciarono scaldare alla stufa i due “nemici” che il mattino dopo ripresero la loro marcia verso il ritorno a casa. Insomma l’arte di farsi voler bene.
Un’arte che abbiamo perso chissà dove e nemmeno cerchiamo di ritrovare. E’ imbarazzante leggere di un ministro che di fronte all’ennesima strage nel mare nostrum commenta con un giro di parole, in sostanza, che “potevano tralasciare di partire” o leggere sui social epitaffi velenosi su un morto che pure ha fatto la storia della tv. Un tempo anche a chi non moriva certo in odore di santità si concedeva l’onore delle armi, “qui giace per la sua e la mia pace” e requiem anche a lui. Adesso seppelliamo le persone buttandogli addosso non una manciata di terra compassionevole, ma tutti gli antichi rancori, ridestati per la poco mesta cerimonia. Sembriamo diventati gente che gode delle disgrazie degli altri, vicini e lontani, gelosa di chi ce la fa, sempre alla ricerca di qualcosa che scalfisca e rovini comunque il successo altrui. Oscar Wilde direbbe: “L’invidia è quel sentimento che nasce nel momento in cui ci si diventa consapevoli di essere dei falliti”.
Sulle nostre teste individualiste piovono minacce collettive: tale Soloviov che in Russia predica ogni giorno in tv, seguito da milioni di persone, minaccia gli italiani, “lasciateli tremare i bastardi. Poi ci sarà un’altra traversata delle Alpi…”. Della traversata delle Alpi ricordiamo a malapena, per un analfabetismo storico di ritorno, quella di Annibale (ma è finita male per i cartaginesi) e poi le invasioni barbariche, in effetti gli Unni venivano dalle steppe siberiane… semmai siamo stati noi italiani, a malincuore, a invadere la Russia, al seguito dei tedeschi di Hitler, ma ci è andata malissimo. In altri tempi ci sarebbe stato un moto d’orgoglio nazionale, identitario. Adesso reagiamo solo se ci toccano il nervo scoperto calcistico. Non sa (o forse lo sa benissimo) quel predicatore russo che siamo divisi per conto nostro, che se siamo in tre a discutere riusciamo ad avere almeno quattro opinioni diverse. Che fine ha fatto l’Italia cantata dal Manzoni, “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”? E Carducci con “Il Comune rustico” oggi sembra perfino patetico quando fa dire al console/sindaco del paese. “E voi se l’unno o se lo slavo invade / Eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade, / Morrete per la nostralibertà”. Figurarsi, ci dà fastidio perfino che gli ucraini scelgano di morire per la lorolibertà. “Nostra”, “loro”? Il plurale, da noi, come il congiuntivo (che significa appunto congiungere) non va più di moda. Altro che “brava gente”, la cloaca dei social ha Maramaldo (a insaputa dei nesci) come eroe di riferimento.