benedetta gente

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    Le feste non sono per tutti, di questi tempi. Il trittico dei giorni “santi” erano un evento penitenziale, tutti i quadri della chiesa coperti da teli neri, la lavanda dei piedi, le campane “legate” nel silenzio del venerdì e del sabato, il “sepolcro” nella cappella o nell’altare laterale con i lumi, le tende a pizzo, la spogliazione della santa croce (“crucem tuam adoramus domine”) durante quella che la gente chiamava la “messa secca” del venerdì, il falò sul sagrato del sabato e si accorreva a portarsi a casa la brace benedetta per accendere le stufe, i pentolini dell’acqua benedetta, il cero pasquale nella tenebra, e infine l’exultet cantato come una liberazione dallo stato quaresimale, le campane che tornavano a suonare e poi le uova di Pasqua colorate e benedette e finalmente la festa.

    No, questi sono ricordi da vecchi. E sono i vecchi che colgono i cambiamenti del tempo. Li hanno messi da parte, non producono, fanno perdere tempo, non li vogliono per casa, danno fastidio con le loro tiritere dei ricordi, di quando quel curatino si sbagliò e suonò la campana per far venir gente a togliere un’impalcatura ed era Venerdì Santo… nonna, l’hai raccontata mille volte, basta! Lei resta mortificata. L’hanno messa in casa di riposo adesso: così stai con quelli della tua età e vi raccontate le vostre storie. Lei non ci voleva andare, questa è casa mia; mamma, noi dobbiamo lavorare, non possiamo lasciarti qui da sola, se ti sentissi male cosa fai, vedrai che là starai come una signora. La badante? Sì, l’abbiamo cercata ma dobbiamo pagarle i contributi e poi vuole un giorno libero, come facciamo? E da capo, se poi ti senti male? Si è rassegnata, sta in stanza con una che ogni tanto dà fuori da matta, non si sopportano, telefona di continuo ai figli, mamma sto lavorando, non ho tempo, porta pazienza. Ma quando venite a trovarmi? Quando troviamo un minuto di tempo. Quel minuto non lo trovano mai.

    Per Pasqua sarà come a Natale, la signora si è messa in ordine, vengono i miei figli, ha detto a quella che urla sempre e difatti si è messa a urlare che lei non vuol più vedere nessuno che tanto è finita. Non è arrivato nessuno. Per Pasqua aspetta di nuovo. Chissà!

    Mi viene in mente il mio sussidiario di quarta elementare, anno 1954. Ma dai, anche tu con la noia dei ricordi. Porta pazienza, se hai quel famoso minuto ti racconto una storia.

    C’era una volta un vecchio che non ci vedeva più, non ci sentiva più, e le ginocchia gli tremavano. E quando era a tavola non riusciva a tener fermo il cucchiaio e faceva cadere la minestra sulla tovaglia, e qualche volta gliene scappava anche dalla bocca. La moglie di suo figlio non lo compativa per niente, ma neppure suo figlio lo sopportava. Così non lo vollero più a tavola con loro. Il vecchio doveva star seduto accanto al camino e mangiava un po’ di zuppa in una scodella di terracotta. Un giorno, siccome le mani gli tremavano, gli cadde per terra la scodella che andò in pezzi. Quante gliene gridò la nuora! Il vecchio non rispose, abbassò la testa mortificato. Gli dissero, ti compreremo una scodella di legno, almeno quella non la romperai!

    Quella sera il figlio e la nuora videro il loro bambino che raccattava i cocci della scodella rotta. Cosa fai?, gli chiese suo padre. Rispose: cerco di incollare i pezzi della scodella così, quando sarò grande, avrò la scodella per dar da mangiare a te e alla mamma che sarete vecchi come il nonno.

    La favola, tratta da un racconto dei Fratelli Grimm e tradotta da Giovanni Pascoli, finisce bene con i due genitori che riprendono a tavola il nonno “e da allora in poi lo trattarono bene”. Esopo finirebbe con la morale della favola: O mythos deloi oti (Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι): la favola insegna che… beh, credo che la morale sia scontata. Buona Pasqua, gente, e spero vi riesca.