Benedetta gente

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    (p.b) Ho visto le luci farsi ghiacciate sulle strade dei paesi. Giochi di luci bianche che hanno soppiantato quelle colorate che facevano caldo. Scimmiottano le stalattiti di ghiaccio, simboli inverecondi della sterilità dei sentimenti. E non più i simboli cristiani, solo cascate di banalità, nella celebrazione di una finta tolleranza verso il mondo che cambia e che ci ha cambiato. In peggio. Ogni casa mette luci natalizie all’esterno, come si mette il vestito buono quando si esce di casa, perché in casa siamo diversi ma nascondiamo sapientemente le solitudini. Perché ci sono solitudini morali che fanno male anche nel fracasso della festa, anche con la bocca piena di ripieno di tacchino o di chissà che altro. Cosa stiamo mai festeggiando che non crediamo più a niente, più a nessuno, nemmeno in noi stessi? Dai, “proviamo anche con Dio, non si sa mai”, passami un’altra fetta di panettone, un altro bicchiere di spumante… “Ed era solo, e l’uomo che col gelo / lo pungea di sua cute, più lontano / gli era del più lontano astro del cielo” (Pascoli). Che ne sa chi ci sta accanto, gomiti che a volte si urtano, scusi, cosa ci rode dentro, anche tra parenti che un tempo si sarebbero detti “stretti” si è allargata la distanza, ognuno si tiene i suoi guai.
    E ci sono solitudini materiali, gente che non ha più nessuno e quasi più niente. Sono tornati i poveri, seduti sui marciapiedi. La vecchia tiene gli occhi bassi, ha un cartone con su scritto: “Non ho più niente, aiutatemi”. Frugo nelle tasche in cerca di una moneta che le servirà a poco o niente, dietro di me una signora elegante passa via con gli occhi che fissano lontano un punto indefinito di indifferenza. Al semaforo arriva l’uomo con un cartello con la foto dei figli, la mostra, non insiste, nessuno abbassa il finestrino, fa freddo. E i vecchi che nelle case vuote girano su se stessi toccando oggetti che sembrano residui di una vita estinta, se ne sono andati tutti, alcuni stanno al cimitero, altri si sono persi nelle strade del mondo e nemmeno telefonano e si beve alla salute di se stessi.
    E ci sono solitudini di gente che è stata abbandonata e si ritrova a fare bilanci personali, cosa ho combinato, potessi rifare tutto da capo, credevo di spaccare il mondo ed eccomi qui spaccato dal mondo, “fallito”, secondo i canoni di adesso. Gente che ha trattato a calci nel sedere la gente che gli stava sotto quando era in sella, e adesso, caduta con un tonfo nella fanghiglia aspetta che qualcuno gli tenda una mano e non si capacita che tutti gli passino davanti senza vedere, nemmeno la consolazione di una vendetta subita, nemmeno ti vedono più. E ci sono quelli che sono soli con i soldi in tasca e non sanno come spenderli e nel telefonino solo numeri di lavoro, nessun amico e nemmeno una vera amica, capace che stasera esco a fare baldoria, da solo, brinderò a me stesso, che poi ci ripensa, se vado a mangiare da solo mi si nota, piuttosto mi rintano in un cinema e finisce che in un mare di risate l’unico che non ride sono io.
    “La luna ha un sonno di grandi ventagli / i panni esalano un rumore di deserto / con chitarre senza corde e voci decapitate” (Garcia Lorca).
    E poi le solitudini del dolore, negli ospedali, nei ricoveri, nelle carceri. Dal letto bianco guardano alla porta di continuo, aspettando, aspettando. E nei ricoveri dove il Natale è un giorno terribile perché fa ricordare altri Natali con il “desco fiorito d’occhi di bambini”. Sono diventati grandi e adesso mi hanno messo qui, mi hanno accompagnato dicendomi che qui starai da dio, servito e riverito. Che perfino le infermiere mi danno del tu, come fossi un bambino… No, non verrà nessuno, festeggiano senza di me, vecchio, troppo vecchio nell’anticamera dell’eterno riposo che non vedono l’ora che me ne vada che gli costo un occhio. E nelle carceri dove si ha nostalgia del caldo buono di una cucina, la bontà fa male anche nella sua assenza, la mancanza del bene acuisce il male. “Vorrei che la mia anima ti fosse leggera / come le estreme foglie / dei pioppi, che s’accendono di sole / in cima ai tronchi fasciati / di nebbia / Vorrei condurti con le mie parole / per un deserto viale, segnato / d’esili ombre / fino a una valle d’erboso silenzio” (Antonia Pozzi).
    C’è sempre qualcuno che spara botti nella notte, anticipando la fine, saltando le agonie. Ha fretta di lasciarci indietro. I nostri presepi, se mai abbiamo avuto la pazienza di costruirli, sono cartoline di una civiltà morta, come le nostre fedi sfilacciate. E’ cambiato il mondo ma non abbiamo il fegato di rappresentarlo in un presepio, i bambini direbbero che schifo, vogliono sogni e fiabe, il male che sta su al palazzo di Re Erode e il bene che cammina seguendo una stella cometa.
    E comunque è Natale. Se ci lasciamo andare capace che riusciamo a sentire le sue nenie, le piccole luci colorate, non quelle bianche ghiacciate e l’annuncio dell’Angelo di Paradiso che ripete il suo grido, ascoltarlo nel buio, una volta l’anno, magari fingendo una tantum di crederci davvero. Buon Natale e buon anno, benedetta gente. E spero vi riesca.

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