(p.b.) “El me’ indiriss de dûe sün nassü / mi me le ricordavi gnanca pû: / a l’era una câ vecia e per pissà, / tripli servissi, sì, ma in mess al prà!” (Jannacci). Racconto a Mattia di un mondo che non c’è più e sembra non esserci mai stato, non c’era l’acqua corrente in casa, si andava con i secchi alla fontana vecchia, il gabinetto era fuori, non “in mess al prà” ma in fondo nel cortile, un “buco nero” che si perdeva nella madre terra, la stufa con sopra i panni stesi ad asciugare, non c’era riscaldamento, non c’era telefono se non al posto pubblico, non c’era la tv, non c’erano computer, a scuola la boccetta dell’inchiostro, il pennino con la punta che si rompeva, l’astuccio di legno. Era una vecchia casa e la cucina dava sul portico con l’acciottolato, un vecchio albero di prugne e il portone di legno dove si conficcavano le bacchette degli ombrelli rotti, riciclati come frecce dei nostri archi di guerra di contrada. Un pallone di plastica era un regalo della grande fiera dell’Assunta. Le donne si “prestavano” le riviste con i fotoromanzi per esorcizzare la fatica della quotidianità.
C’è un mio compagno di scuola che adesso fa il missionario a Viloco, un paese boliviano in cima alle montagne (lo raccontiamo nella pagina di Sovere), dove il tempo si è fermato al livello dei nostri anni cinquanta.
Mattia, come nella canzone di Guccini, prende queste storie come favole.
* * *
La storia del “me indiriss”, mi è tornata in mente la scorsa settimana. “Quante case hai?”.La domanda è a bruciapelo, potrei essere scortese, ma è uno che conosco dai tempi delle utopie forti. “Mezza”, rispondo. Non gli va bene, per sostenere la sua tesi aveva bisogno di una risposta multipla. “Va bene, per te non vale, ma sai che a questa domanda, chi ha una certa età…” (e qui mi guarda come a dire, va be’, la tua per esempio e infatti…) “… ma scusa non fai gli anni in questi giorni?”. Sì, devo ammetterlo. “Ecco, quelli della tua età mi rispondono tutti, due o tre, alcuni anche quattro appartamenti o case”. E allora? Non crediate sia un idealista, il mio interlocutore è un imprenditore perché perfino le utopie più forti, se non muoiono all’alba, quando suona mezzogiorno sono già agonizzanti (già, c’è stato un tempo in cui “volevum trà per aria tutt’el mund”, poi abbiamo ripiegato sul meno peggio).
“Tutti noi” (bontà sua si aggrega) “abbiamo fatto o comprato case o appartamenti per i figli. Poi quelli se ne sono andati a stare magari all’estero che nemmeno ci scrivono più e abbiamo bisogno di affittare, perché ci paghiamo sopra l’Imu che è salata”, (Renzi ha promesso di rimuoverla, ma sospetto che cambierà nome per l’ennesima volta). Gli incontri occasionali sono anche piacevoli, ma poi uno ha fretta di fare qualcos’altro… E allora? “Ecco perché abbiamo bisogno di gente che venga a stare in Italia, siamo un popolo che fa un figlio, due al massimo, che ha un patrimonio immobiliare immenso… guarda, io lavoro nell’edilizia ed è in crisi, ormai si lavora solo per le ristrutturazioni, ma vedo in giro case vuote dappertutto, va bene un mese l’estate come questa, ma poi? E anche per il lavoro è la stessa cosa, abbiamo bisogno di manodopera…”. Capito. In questi casi non si sa come troncare la conversazione senza essere scortesi. Interessante, dico, ci vediamo. In realtà ci vedremo chissà quando, ma a me è rimasto in bocca l’amaro di una storia lunga, di mio padre che pensava allo stesso modo, dare la casa ai figli. Eravamo sette in famiglia, cinque figli. Adesso quattro dei sette sono al cimitero. Ma ci siamo trovati, domenica, siamo rimasti in tre, anche se ci sentiamo sette, come allora. Solo che stiamo altrove e la vecchia casa si riempie solo d’estate. “Turnavi a cà la sera, e la mia mama / la me nettava el nas tutt spurch’de sang’ / perchè la legge l’era de dài via, / ma l’era anca quella de ciapànn!”. Si dava e si prendeva.
In paese nelle case i vecchi (che al mio paese mica pensano nemmeno lontanamente di andare al ricovero) ci ballano dentro che certe stanze nemmeno più le aprono, per non sporcare e girano intorno al tavolo che un tempo fu “popolato d’occhi di bambini” con la malinconia della solitudine.
“Ma poeu, la vita va; fa quel che voeur: / chi va, chi resta chi, chi invece moeur…”.
“A chi la lasciamo la casa? Vedi, la mia famiglia finisce con me”, aveva detto prima dei saluti, il mio amico imprenditore, “e anche quelli che hanno figli lontani, cosa se ne fanno? Una Nazione di case vuote”.
Per questo i Comuni hanno varato PGT a crescita edilizia zero, la frenesia del costruire è svanita, la crisi ci ha solo messo sopra un epitaffio. Ma adesso basta, il mondo gira in tondo, dai, “via, menare! e scaricare anca l’infansia!”.