LE VESTI LACERE DELL’ALBA

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    La primavera allunga il giorno. E accorcia me. Che mi ritrovo dentro ore chiare e piene di luce dove invece cerco penombra per riparare il cuore che ogni tanto ha freddo. Innalzo muri e poi finisce sempre che scelgo chi li scavalca e che magari si graffia il cuore. Tutto quello che si scheggia diventa tagliente, anche le persone. E resto senza nulla addosso e niente dentro. Come la poesia. Che è amputazione. Scrivere è annusare la rosa che non c’è.

    Mitragliate di parole stanche. Tuttologi del web. Social da strapparsi le vesti dell’anima e dell’alfabeto. Calici di vino e caffè macchiati che trasformano bar in talk show. Decisamente più comodo sedersi al bordo della vita con pop corn e birra fresca a godersi lo spettacolo di chi dovrebbe e non riesce o di chi riesce e non dovrebbe.

    Come con gli smartphone, protagonisti di vite altrui, a mostrare ciò che non siamo. Non ascolto nemmeno più, come uno scolapasta bucato che non lascia nemmeno la sostanza. E vengo a cercarti dove sbuca la primavera. Tu eri quella che dorme in fondo alle primavere, sotto le foglie mai spente del sogno. Ti indovinavo già da tempo, nella freschezza di una passeggiata nell’aria buona dei grandi libri o nella debolezza di un silenzio.

    Eri la speranza delle grandi cose. Eri la bellezza di ogni giorno. Eri la vita stessa. Mi toglievi la moderazione, che è peggio della morte. Mi davi la febbre, che è la vera salute. Il vento è un respiro di ferro che accartoccia la notte e la vedi tremare negli angoli con le stelle chiuse, i pugni serrati dentro tasche vuote a rubare a sé stessa la dignità del buio.

    Poi l’alba le vesti lacere sotto un cielo libero. Adesso il buio si fa da parte, le parole no, ma non importa. La luce dell’alba è il mio vizio preferito. Potevamo essere un peccato qualunque, ma abbiamo voluto strafare e siamo diventati un vizio. Quello di cui non puoi fare a meno. E del resto chi se ne frega. E’ ora che la calma trovi qualcosa da fare. Io non posso più mantenerla.