Io il mare me lo porto in tasca per i giorni disperati. Lo chiamo per nome e aspetto che il vento mi porti l’odore della risacca. Riempio le scarpe di sabbia e soffio in ogni buco che paia di conchiglia. Ho il cuore pieno di acqua. La tempesta e l’inquietudine dei gabbiani quando rientrano le battane. E io che ne so, qui seduta sulla mia di riva, a guardare il cielo coprire come un manto i bimbi che tornano a scuola, incuriositi, vivaci.
Conto i gironi per i frutti dei gelsi che nemmeno so cosa sono e quando spuntano, ma ho bisogno di qualcosa che mi faccia tenere a mente che sono ancora qui, ed è davvero cosi strano vedere che in ogni caso tutto passa, ci cambia, anche troppo, ma tutto passa e io che quando sono in mezzo alla tempesta mi sembra che la riva sia lontana. Ma poi arriva. Quel quotidiano che mi porta comunque lontano, fuori da qui. Piegare il bucato, aprire le imposte, rinchiudere il cuore e spalancarlo quando serve sentirlo battere davvero, ostinarsi a coltivare una pianta che non cresce. E poi riparto. Oggi ho molte cose da fare. Devo uccidere fino in fondo la memoria. Devo impietrire l’anima. Devo imparare di nuovo a vivere.