Quando si sposò, Maria andò a vivere lontano da qui, nella città del marito e, dalla puericultrice diplomata che era, trovò subito impiego nell’asilo-nido comunale. Tra i bimbi che accudiva c’era anche Salvatore: un anno e mezzo, sempre triste, sporco e malnutrito, Turi – così lo chiamavano le maestre – veniva ospitato nel nido a spese del Comune, la madre si prostituiva e il padre era in carcere.
Maria curava, nutriva, lavava, vestiva quel bimbo così sfortunato con particolare dedizione e così finì per affezionarglisi moltissimo. Lo portava con sé anche fuori dell’orario di servizio, a passeggio, a giocare nel parco, e perciò, quando l’assistente sociale le propose di prenderlo in affido, d’accordo col marito non ci pensò su nemmeno un attimo.
Turi diventò così uno di famiglia anche per tutti i parenti di Maria: quando tornava al paese d’estate, per le vacanze, anche i “nonni” e gli “zii” lo accoglievano a braccia aperte, i “cuginetti” lo consideravano uno di loro e tutti gli volevano un gran bene. Certo anche per questo era rifiorito: scomparse le dermatiti e le infezioni ricorrenti, recuperato il peso giusto per la sua età, era finalmente un bambino vivace, intelligente, sempre allegro…
Ma intanto diventava grande, purtroppo.
Dico purtroppo perché quando compì i 15 anni la madre – che nel frattempo di figli ne aveva messi al mondo altri quattro – lo reclamò con sé perché “ormai Turi poteva lavorare e guadagnare”. Maria e suo marito cercarono di opporsi, ma alla fine videro sfumare ogni loro speranza perché il giudice, accampando enfaticamente “le superiori ragioni del sangue” e “la necessità di preservare l’unità della famiglia d’origine”, non concesse l’adozione e decretò il ritorno del ragazzo nella famiglia d’origine, appunto, anche se questo significava il totale sradicamento affettivo dopo tanti anni di vita serena con le persone che ormai considerava i suoi “veri” genitori.
Fu una vera tragedia per tutti, ma soprattutto fu una tragedia per Turi che fece una brutta fine: furti, carcere, e a 20 anni la morte per droga, mentre Maria e il marito non si sono mai del tutto rassegnati alla sua perdita, al punto che lei non è mai uscita completamente dalla depressione seguìta alla perdita di Turi.
Racconto questa storia perché una recente legge sulle adozioni ha finalmente deciso che i genitori affidatari possano diventare adottivi per ragioni di “continuità affettiva”, riconoscendo così il diritto dei minori a stare con chi li ha amati ed accuditi per anni. Una legge che rimuove un divieto assurdo, causa di sofferenze a non finire; ma che, tuttavia, presenta ancora un lato oscuro inaccettabile, e cioè che non si ascoltino i bambini e i ragazzi prima di decidere del loro destino. Mi chiedo perché, in ogni causa fra adulti che li riguarda, non possano anch’essi dire il loro parere, perché non vengano coinvolti in scelte che saranno determinanti per il loro futuro. Sembra che i giudici, gli avvocati e i legislatori abbiano più fiducia negli adulti. I quali spesso, invece, non ne sono degni e non la meritano affatto, perché la capacità di essere buoni genitori non dipende certo dal DNA.
Anna Carissoni