Trump e wrestling

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    (p.b.) “Più wrestiing per tutti” commenta ironicamente Mattia alla notizia che in America sarà Trump il Presidente degli Stati Uniti. Il wrestiing è la parodia del pugilato e della lotta libera, un baraccone di atleti muscolati (artificialmente) che fingono di darsi colpi che, se arrivassero per sbaglio a buon fine, sarebbero devastanti. Se salisse sul ring (perché c’è la parodia del ring) Mike Tyson tutti quei presunti atleti sarebbero in coma al primo pugno. La bravura è nel fingere e non farsi male davvero. Deliri di folle. Trump era del giro, Mattia mi fa vedere video di pochi anni fa in cui Trump spinge al tappeto un (finto) avversario e arringa la folla. Da un popolo di immigrati di ogni parte del mondo, che ha sterminato popoli indigeni e azzerato civiltà, che ha la concezione che ogni dissenso si possa ridurre a un duello finale alla pistola con musica di sottofondo, che ha fatto la parodia del rugby con mascherate di marziani nel football americano, c’era da aspettarsi che prima o poi avrebbero fatto la parodia anche della democrazia.

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    Domenica di novembre, sole gelido, le guglie del Duomo di Milano dominano la bellissima piazza. Una Milano pulita come non la ricordavo da decenni, perfino il metrò ha le carrozze decorosamente linde (merito di Pisapia), con la gente ammassata in ordine (ossimoro di umanità), tutti che pagano il biglietto, una città-oasi nello squallore moderno delle nuove piazze dei social network, sempre più cloaca di volgarità egoistiche e di spensierate opinioni prive di retroterra culturale. La piazza vera è un andirivieni di gente che si incrocia con i piccioni che volano radenti su teste piene o vuote, bianche o tinteggiate, senza distinzione di razza e perfino di religione, a fronte del simbolo di un cattolicesimo un tempo imperante. Ai lati estremi est-ovest della piazza ci sono due lunghissime file, colonne pazienti di gente che ha una meta da raggiungere, nel tempo che le sarà dato.

    La fila ad est è da capelli bianchi, gente della mia età o giù di lì. E’ incolonnata per entrare in Duomo, dopo i controlli visivi, manuali ed elettronici che garantiscano che non ci siano malintenzionati che si facciano magari esplodere nel bel mezzo dell’immensa navata, mandando in frantumi fedi e speranze e soprattutto carità cristiane verso i migranti del mondo conosciuto. Dall’altra parte della piazza una lunga coda di ragazzi tra i 10 e i 16 anni, così ad occhio, chiusi a blocchi transennati con colori diversi, prima l’arancione, poi il giallo ecc. e il bianco che è il colore-incolore e quindi meritatamente è ultimo dello spettro dell’arcobaleno adolescenziale, arrivato da paesi lontani di buonora per… Già, per che cosa? In programma l’arrivo di quattro youtubers, chiamati Mates (che sta per “amici”) che firmeranno il loro libro, di cui tutti i ragazzi in fila, per ora mille e cinquecento, sono provvisti. Sono quattro ragazzi che sono seguiti da milioni di altri ragazzi. Si chiamano Anima, St3pny, SurrealPower e Vegas che mentre Mattia e i suoi amici me li elencano già sono in difficoltà linguistiche. Cosa fanno? Nei loro video scherzano, si fanno dispetti, giocano ma soprattutto chiacchierano, a proposito o a sproposito. Insomma fanno compagnia a milioni di ragazzini di cui sono diventati idoli. E infatti, quando appaiono sul balcone, si alzano grida, urli, invocazioni, addirittura qualche pianto emozionale, cose che un tempo succedevano all’arrivo dei divi d’antan. Non ci sono attori, cantanti o calciatori su quel balcone, solo ragazzotti di medio-bassa cultura (a sentire i loro discorsi), a volte divertenti, altre volte banali (per noi). E allora cosa spinge quella massa di ragazzini (che supererà nella notte i tremila) ad aspettare il loro turno per uno svolazzo sul libro comprato con i soldi di papà e mamma? Sono le parole, quei ragazzi parlano per ore nei loro video. I ragazzini hanno bisogno di qualcuno che gli parli. Sembrerebbe questa una spiegazione (non ne sono sicuro) anche per il fatto che i cantanti più gettonati sono i rapper, appunto i cantanti che parlano.

    Passano le ore sulla grande piazza, le due file procedono lentamente ma si riformano con i nuovi arrivati. Due file serrate, e ciascuno era solo e il vicino, direbbe Pascoli, che “lo pungea di sua cute, più lontano gli era del più lontano astro del cielo”. Ciascuno in cerca di un sorriso esclusivo del divo comune, da una parte e dall’altra, ognuno ad est con una sua preghiera da far arrivare al cielo in via preferenziale, ognuno ad ovest con una speranza di un gesto preferenziale.

    Due file di persone che viaggiano su binari, sogni e speranze divergenti, che non si incontreranno mai, nemmeno con la curiosità di capire perché erano accumunati dalle lunghe ore dell’attesa, nel freddo serale novembrino.

    Affrettiamoci a chiedere “perché”, intanto che ancora, anche solo per obbedienza residuale, sono tenuti a darci delle risposte. Prima che spariscano dai nostri presuntuosi (in realtà datati e modesti, visto come e chi votiamo) orizzonti.