parigi e la banlieu

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    Anna Carissoni

    “La patria non è solo il luogo in cui sei nato, ma anche i luoghi che hanno contribuito a fare di te quello che sei” (Giordano Bruno). Dunque le patria non è una sola, anche un’altra nazione può esserlo, se significa una terra e una gente che hai nel cuore.

    Ecco, per me la Francia è sempre stata un po’ una patria, fin da quand’ero piccola e la conoscevo solo attraverso gli zii che erano partiti da qui con le pezze al sedere e con una fame atavica in corpo e là, nei dintorni di una Parigi provata dalla guerra, avevano fatto fortuna, da bravi bergamaschi, costruendo e ricostruendo case.

    La zia Faustina mandava ogni anno grandi sacchi di biancheria e di indumenti che andavamo a prendere alla stazioncina di Ponte Selva; spesso vi aggiungeva qualche tavoletta di cioccolata che diventava il companatico per tante nostre merende, mentre la carta stagnola in cui erano avvolte, conservata fino a Natale, diventava l’acqua dei ruscelli per il presepe. Mia madre poi, nelle grandi occasioni, tirava fuori dal cassetto del comodino una graziosa boccetta di vetro azzurro: – Sentite com’è buono – ci diceva – è profumo francese! – e noi l’annusavamo a turno, deliziate da quell’esotica fragranza.

    Anche gli altri zii erano generosi di regali quando tornavano in paese, di solito per Natale, quando il loro lavoro era fermo a causa del gelo. Ci portavano a fare un giro per il paese  con la loro Citroen comoda come un salotto, e giocando coi cugini imparavamo sempre nuove parole, in un linguaggio gentile e misterioso che non smetteva di affascinarci e che più tardi avrei studiato con passione a scuola, scoprendone anche la straordinaria ricchezza letteraria.

    Il primo viaggio a Parigi lo feci a 18 anni: zii e cugini vollero giustamente portarmi in giro per chiese e musei e monumenti, ma mi rimase impressa soprattutto quell’atmosfera cosmopolita, di leggerezza, di bellezza, di gioia di vivere, che si respirava un po’ ovunque, sui larghi boulevards come nelle stradine più fuori mano. Il 14 luglio – anniversario della presa della Bastiglia – i cugini mi portarono in Place de la Contrescarpe, uno dei quartieri più popolari della città: musica di valse musette in ogni angolo e gente che ballava dappertutto, una bellissima festa che subito mi coinvolse tanto che mi ritrovai a danser passando da un “cavaliere” all’altro, tra brindisi ripetuti e grandi risate.

    Anche da adulta ci sono tornata più volte, nella Ville Lumière, sempre respirandovi quell’aria di cordialità sincera, di gioioso cosmopolitismo, di raffinatezza senza sdolcinature, di gentilezza, di accoglienza senza pregiudizi che me l’avevano resa cara. Un’aria che però non riuscii a respirare quando, nel 2000, decidemmo di vedere anche un po’ di banlieu (periferia), approdando dalle parti di rue Jean Jaurès: una dimensione che mi sembrò completamente diversa dalla Parigi  che conoscevo ed amavo: un’impressione di abbandono e di trascuratezza, e anche di cupezza sui volti delle persone…

    Impressione confermata durante l’ultimo viaggio, nel 2013, con mia figlia. Già l’aria di quiete e di pace della Grande Moschea mi era sembrata un po’ falsa, un po’ inquietante, anche perché l’accesso era libero solo per la biblioteca e i giardini e tutte le altre parti dell’edificio erano proibite al pubblico: impenetrabili, come gli occhi della guida araba che ci guardava con aria diffidente. Mi ero sentita, per la prima volta a Parigi, straniera, spaesata, e non era il solito spaesamento che, da vecchia “nóna de la baita”, provo sempre quando abbandono l’orizzonte tranquillizzante delle mie montagne: era qualcosa di più profondo, di più doloroso, anche.

    Poi, spinte dalla curiosità, decidemmo di fare una camminata lungo Boulevard Barbès e limitrofi, dove constatammo con sgomento che eravamo le uniche due donne bianche, e a capo scoperto, immerse in un pezzo di Africa /Medio Oriente letteralmente trapiantato alle pendici di Montmatre.

    Inutile negare che avvertimmo, nettissimo, il timore della diversità: il contatto diretto con qualcosa che era “altro” rispetto a tutto quanto gli stava intorno ci lasciò addosso un bel po’ di inquietudine e parecchie domande. Ci chiedevamo se Parigi sarebbe stata in grado di assorbire queste differenze; se, da città cosmopolita com’era, sarebbe stata capace di farle uscire dalla dimensione separata e ghettizzata in cui si trovavano….

    Inquietudine, stato d’animo e domande che mi sono tornate prepotentemente alla coscienza la notte del 13 novembre scorso, davanti alle immagini atroci dei massacri dei terroristi. Domenico Quirico ha scritto in proposito su La Stampa che “l’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese (la Francia) può assopire qualsiasi Jihad”. Vorrei tanto credergli, mi sforzo di farlo, ma faccio fatica. Lo sgomento continua a prevalere.