di Giampiero Valoti
Pare che la televisione di Stato abbia distrutto (o smarrito o disperso) le bobine con le immagini della manifestazioni studentesche e popolari del biennio 68-69.
Mi sembra giusto. E’ opportuno certo archiviare e catalogare con la massima cura tutte le partite di calcio-spettacolo o i vaniloqui dei varietà settimanali, non i documenti visivi e sonori di quegli anni da esorcizzare.
Ma dove sono i protagonisti veri di quegli anni? Non parlo dei “dirigenti”, ma delle centinaia, delle migliaia di militanti oscuri, senza nome, di quelli che davvero c’erano, di quelli che hanno vissuto quella straordinaria stagione che ha segnato profondamente la loro vita. Allora, in quegli anni memorabili, essi fecero una scommessa, una scommessa con una posta veramente grande. E quella scommessa l’hanno persa.
Gli antefatti
Quando noi andavamo a scuola, alla scuola media (e anche alla scuola superiore, per la verità), il ‘68 non c’era. Né si poteva inventarlo. C’era per contro l’esame di ammissione, che molti ricorderanno. Era un esame severo che segnava allora lo spartiacque tra la scuola elementare obbligatoria e la scuola media inferiore, riservata, in barba all’Art. 34 della Costituzione, ai figli di “buone” famiglie. Oggi l’esame di ammissione non c’è più: la scuola media è obbligatoria ma la selezione è ritornata, altrettanto sommaria, nella scuola superiore. Ma questo è un altro discorso.
Con l’estate di studio forse non “matto e disperatissimo”, ma certo assiduo e solitario superammo quel primo ostacolo sulla strada per uscire da una condizione di arretratezza e minorità culturale.
Alle medie ci andavo ancora con i calzoni corti e mi vergognavo un po’. Ma crescevo bene e studiavo forte. In un banco poco lontano c’era il figlio di papà col nome antico e il palazzo dal gran portone scuro: lui interveniva durante le lezioni di religione e discuteva col prete; portava la giacchetta elegante, la camicia bianca e la cravatta. E i pantaloni lunghi, naturalmente. Poi è “arrivato” e ha presieduto un ente regionale.
Noi alle spalle avevamo solo i genitori mezzadri. Sì, mezzadri, perché la mezzadria, l’iniquo patto colonico triste retaggio della servitù feudale, non era ancora scomparsa dalle nostre valli. Mio nonno e mio padre lavoravano una trentina di pertiche di terreno avaro: era quasi tutto “ronco” con poco piano. Vi coltivavano vite, alberi da frutto e un po’ di frumento e di granoturco. Al proprietario spettava metà del raccolto, naturalmente, e le primizie dei frutti che venivano sistemate in bell’ordine nelle cestine di “sfèlere” di castagno con i pampini della vite sul fondo. Il Fattore vigilava. La grandine arrivava spesso, a giugno o a luglio, a spezzare i sogni di un buon raccolto.
Quando incominciai a frequentare la scuola superiore gli amici d’infanzia andavano già a lavorare in officina o sul cantiere. Nei campi non ci volevano più stare. Mi guardavano un po’ strano perché volevo continuare a studiare.
Mia madre, come tutte le operaie tessili della valle, partiva in bicicletta all’alba per essere sui “ring” alle sei. Era la sua busta paga che permetteva alla famiglia di tirare avanti e a me di studiare su libri di seconda o terza mano. Ricordo che il mio vocabolario di latino, un glorioso Campanini-Carboni, era il frutto di una mirabile opera di restauro del rilegatore: mancava tuttavia di una mezza pagina alle lettera I. Per quella non c’era stato rimedio.
A mezzogiorno andavamo a mangiare alla Bonomelli o alla mensa dei ferrovieri alla stazione. I ferrovieri facevano delle “svizzere” (oggi si chiamano hamburgers) formidabili; o così parevano a noi ragazzi di quindici-sedici anni affamati come lupi.
D’estate, dopo un mesetto sul cantiere, c’era il Servizio Civile Internazionale (S.C.I.), un’organizzazione laica che offriva in qualche modo uno sbocco concreto, pratico e ideale insieme, alla nostra voglia di fare, di agire, di intervenire sulla realtà che ci circondava. E inoltre ci permetteva per un mese di non gravare sui bilanci familiari. Il S.C.I raccoglieva giovani volontari di tutto il mondo e organizzava “campi di lavoro” in Italia e all’estero. Dopo l’alluvione di Firenze (4 novembre 1966) e il disastroso terremoto del Belice (14 gennaio 1968), così come in altre situazioni meno drammatiche, l’organizzazione fu presente con i suoi “campi”. E là, in quelle riunioni serali (le chiamavamo “house meetings”) dopo aver fatto il punto sulla situazione del lavoro e sulla sua conduzione, le discussioni si accendevano, si infiammavano, si frantumavano in molti rivoli dettati anche da affinità linguistiche: erano discussioni filosofiche, politiche, morali, utopistiche, furibonde, rabbiose, confuse, a volte incomprensibili per le troppe lingue parlate.
Con Terje, il simpatico norvegese grande generoso, ci si capiva in latino e ci si scambiava un franco “ad fundum” davanti alla coppa colma di vino. Lui, il globetrotter con l’abito buono nello zaino e le poesie di Bellman mandate a memoria. C’era Richard il giornalista inglese troppo anticonformista per il suo giornale perbene: era il nostro work-leader, saggio e ragionatore, marxista sognatore. E Phil, il vecchio anarchico kropotkiano, scozzese taciturno che aveva trascorso metà della sua vita nei campi di lavoro, di lunga durata in mezzo mondo. E poi Joseph, il capelluto ubriacone belga, e Chris, il “provo” olandese che organizzò la prima protesta a Santa Margherita Belice per chiedere efficienza e sollecitudine negli aiuti e perché tutto, dopo, non tornasse come prima. E Roger, parigino autentico, che sarà sulle barricate del maggio francese, e Franco, il futuro avvocato, attivo poi nel movimento di giurisprudenza romano. E Monique, e Bianca e Jacqueline… un mondo intero si apriva davanti ai nostri occhi: idee nuove, fatti “diversi”, concezioni e conoscenze per noi inedite.
Cominciavano intanto a diffondersi le notizie relative alle prime occupazioni universitarie e alle prime agitazioni studentesche.
Le Superiori
Già alle Superiori qualcosa si muoveva. In profondità ancora, allo stato embrionale, incerto e contraddittorio caratteristiche degli esordi di un grande movimento. C’era disagio nel sentire lontana, staccata, quella cultura (tutta crociana, tutta idealistica) che veniva somministrata. Questo disagio si trasformava in scontrosità, in recriminazione confusa sfogata nei temi di italiano o nelle discussioni sui massimi sistemi con gli insegnanti di religione o di lettere, in atteggiamenti spavaldi di ostentato anticonformismo. Alcuni insegnanti intelligenti e abili “dialettizzavano” con i loro studenti; altri reagivano con le note disciplinari e i richiami del preside. Circolavano alcuni giornali studenteschi sui quali cominciavano a farsi strada i temi del rapporto scuola-società e dell’autoritarismo che sarebbero diventati dominanti nei mesi successivi.
“Nella nostra scuola il termine autoritarismo assume significati ben precisi. Il governo della scuola… è il posto completamente al di fuori da qualsiasi controllo democratico da parte sia degli studenti, che delle assemblee elettive. Esso è detenuto interamente dalla burocrazia governativa, il che fa della scuola un corpo chiuso e distaccato dalla vita sociale”. Così recitava un documento del Comitato Studentesco di Agitazione delle scuole superiori di Bergamo.
Si metteva quindi in discussione l’insegnante quale mero “somministratore di idee già stabilite”, l’interrogazione “molto più simile ad un terzo grado che ad un colloquio”; gli esami “nei quali il professore giudica in pochi minuti uno studente, mai visto né conosciuto prima”.
Con questi metodi, concludeva il documento degli studenti, “si abitua lo studente all’obbedienza, all’autorità, all’accettazione del privilegio, al ragionamento meccanico ed alla logica formale”.
Il documento, della primavera 1968, riportava poi una cronaca delle lotte nelle scuole di Milano, Torino, Roma, Firenze, Napoli, Siena, Pavia, Trento…
Le notizie circolavano con rapidità incredibile, visti i tempi: il bisogno collettivo di contro-informazione era diffusissimo.
Le voci dell’America
Il primo esame che sostenni all’Università fu quello di italiano scritto: un tema, naturalmente. Ne ricordo ancora il titolo, anche se non alla lettera: un personaggio della letteratura contemporanea emblematico della condizione giovanile dei nostri giorni. Non ebbi alcun dubbio: c’era lì, pronto per me, Sal, il protagonista di “On the road”, il romanzo di Jack Kerouac da poco uscito in Italia negli Oscar a 500 lire (era un volume doppio). Sal dunque e naturalmente Dean Moriarty “l’intrepido e nobile” Dean, la cui “pazzia era sbocciata come un fiore misterioso” e le ragazze Marylou, Terry e la loro scatenata avventura da una costa all’altra degli States, le ubriacature solenni, la libertà sulle strade dell’America, “andare sempre, non importa dove”, il rifiuto del “sogno americano” che fu proprio della beat generation.
Ricordo che conclusi la composizione con un severo giudizio critico sulle successive opere di Kerouac, nelle quali mi pareva scomparso lo spirito ribelle e libertario di “Sulla strada”. Fu forse questa conclusione che mi procurò il primo ventisette di buon auspicio. Kerouac, studente irregolare e scrittore antiaccademico per eccellenza, mi aveva aiutato. Dall’America giungeva anche la voce arrochita e tagliente di Bob Dylan, il menestrello di Greenwich Village, la chitarra a tracolla e l’armonica a bocca del folk-singers.
In Italia eravamo ancora a Nilla Pizzi e cuore faceva inevitabilmente rima con amore.
Dylan era allora per pochi cultori appassionati: traducevamo i suoi testi, inediti in Italiano e introvabili in inglese, da un prezioso (per noi) “Song book”, stampato in Inghilterra ed acquistato a Ginevra, raggiunta in un avventuroso viaggio in autostop.
Con pazienza certosina affrontavamo stupefatti i suoi termini slang, gli americanismi, il linguaggio immaginifico ed ellittico. “Venite avanti voi, signori della guerra / voi che costruite i cannoni / voi che costruite gli aereoplani di morte /vi nascondete dietro le pareti e le scrivanie /voglio solo che sappiate / che posso vedere attraverso le vostre maschere /… non avete mai fatto altro che costruire per distruggere / voi giocate col mio mondo /come fosse un vostro giocattolo / mi mettete in mano un fucile e poi vi nascondete / e scappate via quando volano rapide le pallottole /… come Giuda del passato voi mentite e ingannate…”.
Era “Masters of war”. E poi “Blowing in the wind”, il canto delle manifestazioni per i diritti civili: la profetica “I tempi stanno cambiando” (1964); l’ispirata “Chimes of freedom” con le sue “campane di libertà” che lampeggiavano “per i rifugiati sull’inerme via della fuga /per ognuno e per tutti gli sfruttati /… che suonavano per il ribelle /suonavano per il miserabile / suonavano per lo sfortunato / l’abbandonato, il rifiutato / suonavano per l’escluso / sempre briciato sul rogo /… che rintoccavano per il mite, rintoccavano per il gentile, rintoccavano per i custodi e i protettori della mente…”.
Con Dylan si ascoltavano Phil Ochs, Pete Seeger, Peter Paul and Mary…
Con Kerouac si leggeva naturalmente l’”Urlo” di Ginsberg (l’attacco della canzone di Guccini “Dio è morto” è preso da lì), Gregory Corso con il poema “Bomb”, Lawrence Ferlinghetti…
Era la “Beat generation”, era l’altra America in polemica e opposizione a quella ufficiale benpensante e “inquadrata”.
“Che fare”
Ci fu una rivista in quegli anni densi di pubblicazioni periodiche, di giornali e di fogli volanti (che facevano i salti mortali per evitare i lacci e laccioli delle leggi sulla stampa…) che sintetizzò in modo per così dire emblematico l’evoluzione, lo sviluppo del disagio dei giovani: disagio che allora si chiamava rabbia, ribellione, contestazione globale. Si intitolava “Che fare” senza il punto di domanda della celebre opera di Lenin… Era una pubblicazione per pochi iniziati, naturalmente, ma conosciuta nelle librerie “giuste” delle città. Appariva a volte sui tavoli delle occupazioni delle Università, tra un numero di “Vento dell’Est” e uno dei “Quaderni Piacentini”, uno di “Nuovo impegno” e uno di “Giovane critica”.
La rivista percorse, insieme ai suoi redattori, l’itinerario che fu di molti giovani di allora: nell’arco di un relativamente breve periodo di tempo passò dalla presentazione e diffusione di testi e commenti sulla “Beat generation” e sulle minoranze politico-culturali nere negli USA (Malcom X, Le Roi Jones) all’analisi delle contraddizioni interpersonali e culturali della vecchia Europa, allo studio dei rapporti sociali nel nostro paese riprendendo i temi della contestazione studentesca inseriti in un discorso con forti accenni teorici e ideologici che disvelava la discriminazione sociale ed economica alla base del sistema di produzione delle merci e del sapere. I richiami al marxismo, specialmente al Marx delle opere giovanili, divennero sempre più frequenti.
Più tardi “Che fare”, che era diretta da Francesco Leonetti, approdò sulle sponde di un gruppo extraparlamentare “maoista”, alquanto settario e dogmatico.
Sull’onda del movimento studentesco infatti i “gruppi” più o meno “selvaggi”, più o meno organizzati, stavano nascendo ed estendevano la loro influenza tra i giovani in modo rapidissimo.
I genitori del resto avevano parlato chiaro: sì, alla scuola, alle superiori (e d’estate a fare il “bocia” di muratore…), ma poi, all’Università, se ci vorrai andare, dovrai arrangiarti da solo.
Insofferenza
Già, il ‘68 non c’era ancora. C’era però insofferenza, rabbia per lo stato delle cose, confuso senso di opposizione, forte ansia di ricerca di impegno umano e sociale. C’era insoddisfazione per un certo tipo di educazione soffocante e asfittica, in cui nulla si scostava da schemi rigidi prefissati, un’educazione ben sintetizzata ad esempio dal professore di filosofia che giunto al capitolo dedicato a Marx sul manuale diceva: “Questo fatelo voi a casa”. E così il barbone di Treviri era bell’e sistemato.
C’era la ricerca di qualcosa, ricerca ingenua e confusa, ma candida, franca, aperta, fiduciosa. Così nacque il ‘68.