Ermanno Olmi, il poeta di una civiltà sepolta

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di Piero Bonicelli

E’ morto Ermanno Olmi. Si fa presto a dare notizie così. Per alcuni la cosa passa nell’indifferenza, ah, quello dell’albero degli zoccoli, dirà qualcuno di una certa età. Ma il mondo va di fretta, e quindi “Olmi chi?”. Sarà stato il 1962, forse il ’63. C’era un prete, Don Emilio Majer, appassionato di cinema. Un pomeriggio andammo, in fila come si usava a due a due come i frati minor vanno per via, a vedere un film intitolato “Il Posto”. Erano tempi in cui il cinema era un’attrazione di modernità, arte e sogno, passatempo e dibattito (noooo, il dibattito no!, avrebbe detto Nanni Moretti molti anni dopo). Il film era di un bergamasco, un… certo Ermanno Olmi.
Era un film di piccole cose (“pascoliano”, dissi saccentemente ai miei amici, sulla strada del ritorno), atmosfere di cucine contadine, treni, la grande città in cui ci si poteva perdere, alla ricerca di qualcosa che non era nella tradizione di famiglia, basta cascine con l’odore di piscio nel cortile, un grande stanzone in cui il protagonista “conquista” la sua scrivania, ma poi la macchina da presa arretra e si vede una marea di quelle scrivanie e il ragazzo è uno tra i tanti, forse già un numero, perduta l’identità forte della civiltà contadina, in cui tutti hanno un nome, un cognome e perfino un soprannome, a scanso di equivoci e omonimie.
Fummo conquistati dalla dolce e riservata bellezza della protagonista che, ce lo dissero molto dopo, Ermanno aveva poi sposato. Don Majer era un grande affabulatore, capace di parlare di cinema per un’ora filata.
Ci aveva parlato di Olmi come di una rivelazione tutta bergamasca nel mondo del cinema. Noi avevamo un po’ di puzza sotto il naso: nel Seminario, figlio di un Dio “Minore”, a Clusone, seguivamo settimane di cinematografia (una su Eisenstein con il ciclo di Ivan il Terribile e il bellissimo Aleksander Nevskij e comunque senza la “boiata pazzesca” de “La corazzata Potemkin”), con presentazioni e lunghe conferenze di commento. In seguito mi sono sorbito (e in parte goduto) tutti i film di Bergman. Ma andavamo anche ai cineforum dove ci gustammo “Quel treno per Yuma” ma anche il bellissimo “Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta (noi sapevamo solo di De Sica) e alla fine lì sì che ci doveva essere il dibattito. Masochismo di chi faticava ormai a godersi un film per puro passatempo: quello invece fu appunto il tempo in cui noi giovincelli, con atteggiamenti e ambizioni da intellettuali, ci esercitammo ad alzarci in platee di sconosciuti e dire la rava e la fava di quel che avevamo capito del film, dando per scontato, senza dirlo, che gli altri non avessero capito un tubo.
Don Majer un altro pomeriggio ci presentò “Il tempo si è fermato”, poco più di un documentario, pressoché muto, grandi distese di neve, il parlarsi nel silenzio, un altro ragazzo che scopre la montagna e… la medicina ruspante di latte e grappa per guarire dalle debolezze che ci si porta dietro dalla città ed esplodono a contatto con la natura.
Ancora quelle piccole cose, rumori di scodelle e cucchiai, di sedie scostate e usci accostati. Questo per me era Olmi, ero pascoliano e mi ci sono ritrovato. Non vedemmo “I fidanzati”, non so se per censura dei Superiori o altro.
Era il 1964, Papa Giovanni era morto da poco. La mia classe era la seconda liceo, avrebbe avuto la “vestizione” quell’anno. Al tempo la talare era ancora una divisa di identità. Il vicerettore ci convocò, arriva Ermanno Olmi, vi seguirà per qualche giorno, voi fate quello che vi dice, anzi, fate quello che fate sempre, anzi no, per carità, comportatevi come si deve perché poi magari vi mette nel cinema, quello che vuol girare sulla vita di Papa Giovanni. E così la macchina da presa entrò in classe, in chiesa, vicino al calciobalilla, per i corridoi, forse perfino nelle camerate che però non erano già più gli stanzoni d’antan, stavano costruendo il Seminario nuovo, sul Colle S. Giovanni, voluto da Papa Giovanni.
Ma mai ci saremmo aspettati che il giorno della vestizione la chiesetta fosse illuminata ben oltre l’illuminazione solare, riflettori accesi, un caldo boia e noi che avanzavamo tra i banchi con sulle braccia la veste talare che ci avrebbero messo e il regista dai capelli rossi che riprendeva tutto. Non eravamo attori, dovevamo recitare noi stessi.
“E venne un uomo” comprendeva alcune di quelle riprese. Ma quelle scene della vestizione non c’erano, si vede che come… attori non eravamo stati granché. E così, uscito dal Seminario in modo un po’ tempestoso (avevamo osato proporre addirittura un… Consiglio degli studenti pre-sessantotto) quelle scene sarebbero state imbarazzanti per alcuni di noi che avevano gettato quella talare alle ortiche. Sul film ero prevenuto: non si fa un film su uno che ho conosciuto, avevo paura di perdermi la verità, Papa Giovanni l’avevo incontrato, veniva in vacanza in casa di mio nonno a Vilminore, veniva a Tavernola da cardinale a trovare mio zio, mi aveva parlato, non volevo “rovinarmi” il ricordo. Non volli vedere il film per anni. Quando lo vidi mi ricredetti, Olmi era riuscito a ricreare il mondo contadino in cui eravamo cresciuti, in cui avevamo coltivato sogni più grandi di noi. Per quel bambino che da Papa si chiamerà Giovanni quel sogno si era avverato.
Andai a vedere “I Recuperanti” che mi ricordava quei manifesti sui muri della scuola elementare con le mine e le bombe e i bambini senza una gamba e naturalmente “L’albero degli zoccoli”, e quasi tutti gli altri film, compreso i “Centochiodi”.
In tutti ho trovato tracce di quelle antiche piccole cose di un mondo che aveva perduto lui (ma Olmi è andato a cercarselo altrove e forse l’aveva ritrovato) ma anch’io e con me intere generazioni di cani perduti senza collare. Ho sempre voluto incontrare Olmi e non per chiedergli cose banali come a cosa stesse lavorando, ma cose essenziali sulla vita e la morte, a uno che aveva intuito fin dal 1961, in pieno boom, il male che ci avrebbe portato alla spersonalizzazione del lavoro e alla tv dominante che ci omologa, ci appiattisce, ci costringe a una vita programmata da altri.
Le foto di Alberto Mariani che ringraziamo.

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