Piero Bonicelli
Quel 1965 fu un anno di orgogli delegati. La bici l’avevamo tutti, anche se al paese non c’era mai stata pianura. O si saliva o si girava la bici e si scendeva. Non c’era ancora stata la consacrazione musicale delle discese ardite e delle risalite, ma le si praticava ogni giorno, perfino nei girelli di sabbia con le biglie dove ognuno sceglieva di interpretare il suo campione preferito. E su una “Bianchi” col manubrio corto cercammo di imitare lo stile di corsa del ragazzo di Sedrina che non muoveva le spalle nemmeno sotto fatica, non si alzava sui pedali nemmeno in salita. Si chiamava Felice Gimondi, quel ragazzo, uno delle valli bergamasche. Al Giro era arrivato terzo, senza fare davvero il gregario di Adorni. Nessuno di noi sognava di fare il gregario, quello, lo si sentiva alla radio, era quello che si fermava alle fontane a riempire la borraccia del suo capitano e faceva fatica doppia senza gloria. Noi si sognava di battere tutti in salita e chi restava indietro si rifaceva in discesa e uno di noi andò per le terre in curva strisciando sulla ghiaia di quelle strade montane tracciate per i carretti anche se in paese c’era già chi aveva comprato un’auto che era cosa da signori. La bici era il mulo dei poveri, tanto valeva cercare di trasformarlo in cavallo. Gimondi vinse quel Tour che anche per lui poteva valere la canzone di Paolo Conte sui francesi che s’incazzano, ma sanno farsene una ragione al punto che Gimondi fu adottato in Gimondì.
No, non fu Sergio Zanoli (col suo “Processo alla Tappa”) a cacciarlo dal palco dopo un arrivo di tappa piuttosto caotico. Fu Adriano De Zan che gli ficcò sotto il naso il microfono chiedendogli, come faceva sempre (e c’era una parodia di Raimondo Vianello stupenda) buttando lì una domanda generica e poi voltandosi dall’altra parte senza nemmeno ascoltare, aspettando il protagonista vero, non quel giovane “gregario” che stava facendo più di quello che ci si aspettava e per questo qualcuno glielo aveva spinto sul palco e De Zan non sapeva cosa chiedergli e aveva buttato lì “com’è andata la volata?” e il giovane Gimondi che avrebbe vinto il Tour un mese dopo rispose: “E’ stato un po’ un casino…”. De Zan non aveva fatto in tempo a… non ascoltare e gli tolse il microfono in malo modo.
Il ragazzo bergamasco era educato, non era spavaldo, mai sopra le righe, il vocabolo “casino” evidentemente gli sembrava sdoganato. De Zan lo dovette rimettere in onda qualche giorno dopo con qualche domanda più pertinente, visto che il ragazzo nel frattempo infilava vittorie su vittorie. Certo, c’era Merckx che nessuno di noi ragazzi adottava nemmeno al girello di sabbia che costruivamo giù al fiume, vinceva tutto ma non faceva sognare. Nemmeno era adatto a proporre l’epopea del figlio di una postina di Sedrina che aveva cominciato a pedalare per necessità più che per… sport come usavano dire i nostri vecchi quando cercavano un sinonimo di inutile fatica e sudore.
Sempre pulito, sempre con le spalle che non si muovevano nemmeno pedalando in salita (per questo era un cronomen) ma quel giorno della Parigi Roubaix arrivò al traguardo con la faccia sporca e conquistò anche quelli che mal sopportavano l’estetica, che volevano, sempre per delega, imprese da lacrime e fango, visto che di sangue ne avevano visto versato fin troppo e ne avevano ricordi ancora vivi nel dopoguerra.
La “Salvarani” era la marca di cucine diventata con lui la più famosa, quella sì la più amata dagli italiani. Le cucine delle nostre mamme erano ancora quelle stufe con caldaietta incorporata con sopra i panni stesi ad asciugare che diffondevano un vago odore che non si capiva se era minestrone o puzza di piscio. Non comprò nessuno del paese una cucina della marca che Gimondi aveva sulla maglia, ma anche quella si trasformò in oggetto del desiderio, come le bici che ci fu un anno in cui Gimondi corse con una bici “Chiorda”, una sottomarca della “Bianchi” che costruivano in Val Cavallina e noi passando ancora in corriera vedendo l’insegna la includemmo nella nostra lista dei desideri inconfessati che se fossimo andati a dirlo ai nostri ci sarebbe stata una reazione a dir poco scomposta, altro che le spalle immobili del nostro idolo nella fatica del pedalare.
Diventò campione del mondo, certo, in volata. In volata? Nessuno di noi suoi emuli amava vincere in volata, ci sembrava un controsenso fisiologico, a noi restavano in memoria le poche immagini che avevamo visto in Tv della scalata solitaria del Puy-de-Dome nel ’67, quella era fatica vera, quella era vittoria vera. Gimondi non era uno scalatore. Nessuno di noi lo era davvero pur avendo solo strade in salita o voltandoci… in discesa. Per questo avevamo amato in passato gli scalatori, Gaul e Massignan, ma questo bergamasco riusciva a farci sperare che si potesse scalare anche senza essere scalatori, con eleganza da “Passisti”: il termine l’avevamo imparato dalla radio anche se non sapevamo bene cosa volesse dire, un po’ tutto insomma, forse perfino la mediocrità che si somma e produce un prodotto di eccellenza complessiva.
Poi la bici l’abbiamo appesa al chiodo anche noi, travolti dal progresso con un ciclismo di cui non abbiamo più capito i confini tra somari dopati e cavalli di razza. Anche Felice fu coinvolto in qualche sporadico sospetto e qualcosa di più come il suo irraggiungibile rivale Merckx. Ma per quanto lo dopi, un somaro non sarà mai un cavallo, anche se lo batte per un giorno.
E Felice Gimondi era nato cavallo di razza, in una delle nostre valli che sembrano ingiustamente solo adatte alla retorica sgobbonadei muli.
Felice Gimondi, nato tra le montagne, è andato a morire un giorno d’estate lontano da casa, in mare. Ci aveva regalato un mare di sogni, vissuti su delega. Che si erano spenti ed erano stati messi nella cassapanca delle nostalgie. Perché quella delega era stata ben riposta e poteva starci in quella cassapanca, tra le cose che non si devono dimenticare e non devono ammuffire.