IL COMPLEANNO – Il secolo di Mons. Gaetano Bonicelli. Il 13 dicembre compie 100 anni. Il racconto (in sintesi) di una vita

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La storia che si fa Storia, quando il lungo racconto è di un uomo, un prete, un vescovo che ha attraversato il secolo che non è stato affatto “breve”, come viene solitamente definito, un lungo stravolgimento della vita, dalla civiltà contadina a quella industriale, dai difficili anni della povertà a quelli del benessere, da una Chiesa trionfante a una Chiesa che sta tornando ad essere missionaria, non nel terzo mondo ma nello stesso mondo occidentale, cercando un nuovo linguaggio, per fronteggiare l’illusione diffusa di poter fare a meno di Dio.  

Mons. Gaetano Bonicelli ha avuto il dono della parola. E perfino quel periodo in cui è stato “afono” (era Curato ad Almenno) è stato un segno per poter poi riprendere a far sentire la sua “nuova” voce in modo più maturo e incisivo, dopo gli studi a Milano e alla Sorbona di Parigi.

Non è mai stato banale, nessuno si addormentava durante le sue omelie, spiazzando anche l’uditorio con una parlata che arrivava su due piani, quello più colloquiale e popolare e quello più profondo per cultura e conoscenza teologica.

Per questo da Vescovo ha messo l’accento più volte sulla capacità (o incapacità) dei suoi preti di trasmettere il messaggio forte del Vangelo nelle omelie domenicali. E anche sulla “domenica” ci sono stati suoi interventi in tempi in cui nessuno avvertiva ancora lo sfaldarsi della sacralità della festa del “dies Domini”, che a mano a mano veniva riempito di eventi e appuntamenti extra religiosi, dal calcio al dilagare delle nuove “cattedrali”, i centri commerciali.

Solitamente in vecchiaia ognuno di noi tende a camminare con la testa rivolta al passato.

Don Tano continua da “vecchio” a guardare avanti, le sue analisi sono lucide, non rimpiange nulla, guarda al futuro come un giovane prete appena piombato sul campo minato di un mondo che perfino nella pandemia non ha alzato gli occhi al Cielo, ma sta dividendosi e azzuffandosi come i classici capponi di Renzo nei Promessi Sposi.

Abbiamo condensato in un libro la sua storia (“Quel tredici dicembre – Mons. Gaetano Bonicelli si racconta”), che non è una celebrazione e nemmeno una biografia scontata. Ha vissuto gli eventi, è stato protagonista e testimone di episodi e perfino retroscena curiosi e inediti. Ed è anche un ripasso di storia, raccontato da uno che quella storia l’ha vissuta accanto ai grandi Papi e ai grandi personaggi, anche laici, che hanno lasciato un segno nelle vicende del mondo, non solo italiano, visto che Don Tano ha viaggiato e seguito i problemi degli emigranti nel mondo, le vicende del lavoro con le Acli e quelle della comunicazione con i suoi articoli e interventi settimanali su vari giornali e riviste (compreso nel suo piccolo Araberara su cui ha tenuto per anni, appunto, una rubrica).

Molti ricordi sono condivisi da prospettive temporali diverse: essergli cugino, ma con 21 anni di differenza, consente di allargare l’orizzonte, riaggiustando il “binocolo” del giudizio su persone e avvenimenti. E così, come il suonatore Jones di Spoon River, “sorpreso dai suoi novant’anni”, Don Tano, con i suoi 100 anni, continua a far sentire la sua voce. E sia chiaro, “ricordi tanti ma nemmeno un rimpianto”.

Qui sotto alcuni passaggi del suo racconto.

*  *  *

13 dicembre 1924

Vilminore sapeva di ovatta, di neve fresca e soffice dove depositare sogni e lasciarli evaporare nel cielo. C’erano ancora le grandi ferite di un anno prima, l’anno del disastro, la diga che si era spaccata e l’ondata che aveva travolto i paesi, spazzando via centinaia di persone con le loro case, le loro storie. In casa Bonicelli veniva al mondo Gaetano, che poi per tutti sarebbe stato Tano, il miglior regalo di Santa Lucia per mamma Cristina e papà Francesco. Tano nasce in casa, come tutti a quei tempi; adesso lì dove c’era la casa di Tano c’è una banca, nella piazza che poi sarà dedicata a un grande Papa, Giovanni XXIII, con la cui storia il Tano, ordinato prete, si incrocerà più volte. Tano è il secondo di tre fratelli, prima c’è Vittorio, che poi si farà frate, e poi arriverà Matilde, che per tutti sarà Tilde. “Io e Tilde ci chiamiamo così perché prima di noi erano morti due zii che si chiamavano Gaetano e Matilde e così abbiamo preso i loro nomi, erano morti di tifo”. Papà Francesco a casa si ferma poco; nel 1926, a settembre parte: “Tilde era nata a Gennaio, noi allora abitavano al Cantù, l’ultima casa della contrada”. Tano il papà lo incontrerà e conoscerà già ventenne.

“In principio la scelta del papà di sposare mia mamma non era stata ben vista dai miei nonni, ma non si sono opposti, rispettando la volontà del figlio. Forse volevano far pesare la loro posizione privilegiata, rafforzata anche dal fatto che abitavano al centro del paese, mentre i familiari della mamma a Méto (una contrada sopra l’abitato di Vilminore – n.d.r.) erano tutti contadini. Alla fine, da gentiluomo qual era, il nonno Ernesto si recò personalmente, come si conveniva fare allora, nella casa dei futuri consuoceri per chiedere in sposa quella ragazza innamorata del figlio. La mamma era al corrente di queste difficoltà e, quando ha saputo che il nonno sarebbe salito sino a Méto dai suoi genitori per chiederla in sposa, decise di ascoltare quello che si dicevano. Così rimase ad ascoltare in cima alle scale, di nascosto, il cordiale colloquio dei due anziani. L’hanno presa veramente alla larga e hanno incominciato a parlare della campagna, delle vacche e di una montagna di altre cose. Mia mamma incominciava a preoccuparsi: – Quando arrivano al dunque? Cosa aspettano a parlare del matrimonio?… – si diceva un po’ preoccupata.

Alla fine, dopo una lunga conversazione, il nonno si era già alzato per andare via e, solo un attimo prima di uscire dalla casa, fingendo di essersene dimenticato prima, disse: – Ah,… s’ére pò gnìt a dömandàf se ol me tus ol’ pöl tö la òsa tusa… (che tradotto significa: “Ah, ero venuto a chiedervi se mio figlio può sposare la vostra figlia”). In poche battute finali, sancite da una cordiale stretta di ma no, avevano stabilito l’accordo per il matrimonio che si preannunciava imminente.

Il nonno paterno era Ufficiale giudiziario presso la pretura di Clusone, ma contemporaneamente, come avveniva per tutte le nostre famiglie, teneva la campagna, allevava le mucche e svolgeva molte attività per il sostentamento della numerosa famiglia. Francesco, mio papà, invece, quando si è sposato, faceva il panettiere in una bottega al centro del paese. (…)

Dopo il matrimonio, per un paio d’anni la mamma ha vissuto nella famiglia del nonno, tant’è che, quando Monsignor Roncalli (futuro Papa Giovanni XXIII) è venuto in villeggiatura un po’ di giorni a Vilminore, ospite della famiglia Bonicelli, gli faceva un po’ da cameriera. Roncalli era amico fraterno dello zio prete, Don Piero Bonicelli (prevosto di Tavernola per 27 anni, fino alla morte nel 1959)”.

Parentesi: il legame tra la famiglia Bonicelli e il futuro Papa Giovanni XXIII. Mons. Angelo Roncalli si rafforza, veniva a Vilminore in vacanza dalla famiglia di Ernesto Bonicelli, il nonno di Mons. Gaetano. La casa era di fronte alla grande scalinata che porta alla chiesa arcipresbiterale.

Fino alla quinta

“Mamma Cristina era rimasta sola con tre bambini; per fortuna c’era la famiglia di mia madre, molto unita, e tutti ci hanno dato una mano. (…) La fame non l’abbiamo mai patita ma è stata davvero dura per lei: polenta e latte e tanti sacrifici. Ricordo il giorno della mia Prima Comunione, nel 1931, per pranzo a me hanno dato una michetta, un panino, invece per gli altri ancora polenta, io ero il festeggiato e quindi avevo la michetta come… premio. Ricordo un vestito da marinaretto. (…) Ho frequentato la prima, la seconda e la terza in paese, la scuola era in convento, per un anno ho avuto una suora come maestra. La quarta l’ho frequentata dove adesso c’è il Comune, io abitavo proprio lì vicino, il maestro era bravissimo, un rimpatriato dall’Istria, a Vilminore la scuola arrivava appena fino alla quarta. Il maestro istriano era molto buono, era l’epoca del fascismo ma lui non ha mai mischiato la politica con l’insegnamento e la classe era già mista, ragazze e ragazzi. Eravamo 16 ragazzi e 4 ragazze per una sola classe.

Non c’era nessuna previsione di seminario e allora ho fatto la quinta, insieme ad altri 4 o 5, privatamente e poi ho fatto gli esami a Schilpario”. (…) Quinta Elementare, poi la vocazione.

“Entro in seminario a Clusone nel 1937, entro in seconda ginnasio perché la prima l’avevo fatta a casa, grazie al Curato di Vilminore, Don Daina e al parroco di Sant’Andrea, Don Giovan Maria Duci (parroco dal 1936 al 1946, poi parroco di Sala di Calolziocorte dal 1958 al 1987 – n.d.r.).

Don Daina muore in moto sulla “Via Mala”. (…)

 “Ed è la prima volta che sono uscito dalla Val di Scalve, con un pulmino siamo andati al funerale in Val Imagna e che fosse nel cuore della gente basta pensare quanti ragazzi allora sono stati chiamati Virginio. Come lui. Lui è morto e per me è finita, pensavo di chiudere lì con gli studi. E invece il prevosto di Sant’Andrea, compagno di classe di Don Daina, era di Bueggio e poi era stato molto a Calolzio, si chiamava Don Duci. Un giorno mi dice: ‘Non preoccuparti, ti aiuto io con la scuola’. Detto fatto: sul sentiero di Campione, scendevo in inverno con il ‘lisì’. Ho ancora nelle orecchie il rumore del suo pennino quando sottolineava gli errori. Con lui ho fatto la prima ginnasio, ho iniziato a masticare il latino e poi sono andato a Clusone a fare gli esami insieme a mio cugino Antonio Capitanio (che sarebbe poi diventato prete), che mi ha accompagnato a piedi fino a Clusone, al seminario”. (…)

“Mia mamma veniva in seminario a trovarmi una volta l’anno, se ricordo bene l’8 Dicembre, che era la festa della mamma, ma il clima della guerra si sentiva molto. Cosa poteva portarmi dalla Val di Scalve, più che bu nèle?”. (Le bunèle sono le pigne – n.d.r.) “Mi ricordo, al liceo, che il vicerettore Don Tengattini mi faceva trovare sotto la tovaglia, un panino che prendeva dalla mensa dei superiori”. (…)

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