Fabrizio De André, parole d’amore e d’anarchia: “Quando morì Stalin vidi il lutto vestito di rosso”

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    Il ricordo di Fabrizio de Andrè, il poeta cantautore morto l’11 gennaio 1999, scritto per Araberara da Fernanda Pivano e pubblicato sul numero di 27 gennaio 2006.

    FERNANDA PIVANO

    A un’ora di macchina dall’Agnata, dove gli ospiti affollano la tenuta agrituristica di Tempio Pausania cara a Fabrizio De André, si apre una baia più bella e più tenera di quelle che ho visto nelle Isole Felici dei Mari del Sud.

    Sul pendio di quella baia il poeta aveva acquistato la casa di un’amica e lì si riposava con la moglie Dori dalla fatica delle tournée. La mattina usciva tardi dalla sua camera dove leggeva, scriveva, lavorava; poi siedeva alla tavola patriarcale dove si alternavano adolescenti ansiosi, figli di complicate parentele e parenti complicati, tutti raccolti con un po’ di soggezione intorno al dolce menestrello della nostra giovinezza che ha osato denunciare morti innocenti tra i mortali “papaveri rossi” e conformismi crudeli accaniti contro il sorriso dell’amore.

    Si divertiva agli scherzi dei ragazzi, rideva con un amico che gli truccava i punti di una partita di scopa, rispondeva col telefonino di Dori agli impresari del suo prossimo concerto. Quando calava il sole andava a nuotare o in pattino nell’acqua limpida come un cristallo, in un fondale basso con lunghi, lenti frangenti che accoglievano ragazzi felici immersi nell’acqua fino alle spalle senza toccare il fondo, davanti a due isole, la Municca (che vuol dire scimmia) e la Municchedda (che vuol dire scimmietta).

    Parlava volentieri della sua fazenda famosa di Tempio Pausania, che in realtà si chiamava l’Agnata, comperata una trentina di anni fa quando era soltanto uno stazzu”, un appezzamento dieci anni produce il suo sughero in un piccolo pascolo irriguo, che si può innaffiare; Donna Maria è un pascolo asciutto, che non si può irrigare, si può usare solo a primavera e ha un suo rustico e un laghetto, resi maestosi da magnifiche rocce di granito di fronte al monte Limbara, il secondo monte sardo più alto dopo il Gennargentu.

    Fabrizio aveva scelto l’Agnata per realizzare il suo sogno di bambino cominciato quando aveva cinque anni e la famiglia (la sua “grande” famiglia) lo aveva rifugiato dalla guerra nella tenuta della nonna a Revignano d’Asti e lì aveva imparato ad amare la terra e le piante e le erbe, fino a decidere che “da grande” avrebbe avuto una tenuta come quella tutta per sé.

    Così una trentina di anni fa era entrato a vivere con Dori nel palazzotto dell’Agnata, a lume di candela perché non c’era la luce, senza telefono, in un terreno abbandonato, completamente incolto, in un’asprezza da western americano, con una tenacia da pioniere sardo, e quando è riuscito a ristrutturare la stalla aveva cominciato ad allevare i vitellini da carne, e poi maialini, e poi a seminare gli orti, e poi a produrre uova, e poi a coltivare ulivo e vite e tutto quello che poteva alimentare un ristorante agrituristico, e intanto ha alzato il solaio e ne aveva ricavato una mansarda, e aveva restaurato un’altra stalla diroccata attrezzandola come dispensa e cella frigorifera.

    Dopo tre anni il palazzotto era diventato quasi abitabile e Fabrizio caparbiamente era andato a viverci con Dori tra una tournée e l’altra. In un altro piccolo rudere aveva sistemato una cucina e ne aveva anche ricavato una camera per i custodi cuochi Agostino e Tonina. Così aveva potuto fondare il ristorante subito diventato famoso.

    Fabrizio si divertiva a giocare con quella terra, e ha giocato anche col rio Caprineddu che attraversa la tenuta, lo ha sbarrato e ne aveva ricavato un lago per l’irrigazione ma anche per accogliere una decina di trote trovate in una pozza d’acqua, che hanno attirato anatre e gallinelle d’acqua e uccelli acquatici.

    Quando arrivai io stava costruendo con Dori sulla costa della collina un edificio di otto stanze e una piscina ricavata nella roccia, e un campo per le bocce, e un campo da tennis.

    Mi disse Dori: “Finiremo per cercare le palline da tennis nel bosco” e rideva; ma c’era poco da ridere se si pensa che senza interventi pubblicitari, senza telefono, solo attraverso il tam tam degli ospiti la storia di questa fazenda è finita sul Financial Times.

    Non ho capito se Fabrizio avesse avuto voglia di essere considerato un contadino, come faceva Faulkner quando aveva una campagna a una trentina di chilometri da Oxford, Mississippi, coltivata in realtà da un fratello e da quattro braccianti neri, che lo scrittore andava a trovare nella loro baracca di tronchi per ubriacarsi con loro e farsi raccontare storie di caccia o schiavitù. In realtà con Fabrizio si parlava più di poesia che di agricoltura, nonostante le centinaia di volumi che aveva studiato per far coltivare la sua terra, e non sempre i suoi ospiti illustri sanno la storia di quella Agnata che lo ha ammaliato; ma per lo più quando era in Sardegna i suoi ospiti erano legati alla storia sarda, come Salvatore Sechi di Tempio Pausania, alto funzionario di Stato molto vicino alla presidenza della Repubblica, per Fabrizio soprattutto musicista concentrato sullo studio del fagotto per ricreare con uno strumento “colto” il suono etnico pastorale delle “Ianneddas”, le zampogne sarde senza mantice. Per giocare a scopa si sceglieva Alberto Santini, un amico che vive a Viterbo ma da una quindicina d’anni lo aiutava nei lavori dell’Agnata, con abbastanza fanatismo da costruire a Soriano nel Cimino, vicino a Viterbo, una villa sua chiamandola Agnatina.

    Le loro partite a scopa erano molto serie: guai a chi li disturbava. Ma se Fabrizio si allontanava un momento Alberto gli truccava l’elenco dei punti e quando ritornava e non se ne accorgeva ridevano tutti come ragazzi.

    Si rideva davvero, non soltanto come ragazzi, quando arrivava Beppe Grillo, amico d’infanzia e di famiglia, caro a Fabrizio come un fratello. Con lui era come se uscisse dallo spesso involucro di autodifesa che si era costruito addosso per schivare difficoltà fastidiose create dall’invadenza dei curiosi: i suoi problemi somigliavano a quelli di Beppe e fra loro si capivano anche soltanto con uno sguardo.

    Ma a volte, quando il rosso mandala del sole calava nel mare, e nel crepuscolo dorato il miracolo della baia si preparava alla notte, Fabrizio cedeva ai suoi fan e parlava della sua voce incantatora, di quel timbro ricco di armonici, diceva: Se faccio un do, lo faccio con la terza e la sua quinta, e questo è un dono naturale”; ma, diceva: “Da giovane non ero intonatissimo e solo col tempo e leducazione sono riuscito a intonarmi. Quando dicono che ho creato la mia voce non posso negarlo”.

    L’ha educata cantando, quella voce maliarda, con l’aiuto d Alexandro Jiraldo, un maestro di chitarra colombiano che gli aveva trovato la madre dopo il disastro delle lezioni di violino, quando Fabrizio invece di suonare il violino mangiava i famosi “cavolini alla panna genovesi e pagava il maestro perché suonasse al suo posto”: un trucco durato fino a che la mamma, sentendo suonare il difficilissimo ‘Trillo del diavolo’ di Tartini si era insospettita, aveva spalancato la porta dello studio e aveva scoperto il tranello.

    Con Alexandro Jirlado non c’erano più stati tranelli. Fabrizio aveva quattordici anni e il maestro gli faceva cantare canzoni sudamericane, senza dirgli niente di didattico: da sé il giovane allievo, che sapeva cos’era l’intonazione ma non sapeva ancora usare la voce, aveva imparato a dominarla, o se si vuole a domarla.

    Il punto di partenza di Fabrizio è dunque sudamericano: l’influenza francese è venuta dopo, quando il padre gli portò i dischi di Brassens. Brassens a quattordici anni è diventato un suo maestro di vita, che confermava scelte già maturate: era anarchico, viveva su un barcone della Senna; ma non ha mai voluto incontrarlo per paura di restarne deluso.

    Così, quattordicenne, aveva cominciato a cantare le canzoni di Brassens, ma anche quelle di Aznavour, di Gilbert Bécaud, di Moulodji: solo a diciotto ne cantò una sua. Cantava tutte le sere in un locale in piazza De Ferrari e gli davano settantamila lire la settimana, il quadruplo di quello che prendeva un operaio. Già da adolescente era turbato dai problemi sociali suggeriti da Brassens, ma anche da quelli morali che contrastavano con quelli sociali.

    Ancora otto anni e Fabrizio, poco più che un ragazzo, avrebbe affrontato quello che sarebbe rimasto il suo problema fondamentale, la morale come complesso di leggi istituito dalla classe al potere: già allora ha fatto una critica dei dieci comandamenti della morale corrente contrari a qualsiasi senso sociale.

    Ancora alla fine Fabrizio si accendeva quando spiegava: Ecomodo dire non rubare o non desiderare la donna daltriquando si hanno soldi e concubine”. I suoi interlocutori, a diciassette anni, erano i compagni genovesi della Federazione Anarchica Italiana di Carrara, senza nessuno che si comportasse da leader.

    Brassens è stato per lui la conferma delle sue idee anarchiche, ma anche un esempio musicale che gli ha dato aperture tecniche sull’uso della chitarra. Si è ritrovato a inventare tarantelle non prendendo spunto dalla musica napoletana ma dalle canzoni di Brassens, scoprendo solo più tardi, che lo stesso Brassens aveva avuto una nonna e la mamma napoletane: cioè, imitando Brassens, imitava un italiano.

    Quando, osservando la realtà, si è staccato da lui e dalla famiglia, ha inventato il suo stile: ha inventato De André. Forse senza rendersene conto ha inventato il cantore delle più belle, struggenti, sofisticate poesie – non soltanto canzoni – del nostro tempo. Ha inventato un De André che ha dovuto fare i conti con la sua anarchia poetica che precedeva il Comunismo e i movimenti operai e sindacali: perché dal momento in cui negli anni Cinquanta aveva preso piede il marxismo, chi non faceva coincidere la Sinistra col marxismo era considerato di Destra alla maniera sovietica; mentre, diceva Fabrizio, la differenza tra comunisti e anarchici era che i comunisti si basavano soltanto su Marx e gli anarchici si basavano su Bakunin e Stirner e la critica a Hegel. I comunisti, diceva Fabrizio, non sapevano che la guerra civile spagnola era stata perduta dai Repubblicani perché nelle trincee gli anarchici (che costituivano il maggior numero di combattenti) si trovavano a combattere due guerre: quella fuori delle trincee contro i franchisti e quella dentro le trincee con i compagni delle Brigate Internazionali che seguivano Stalin: questo, commentava Fabrizio, un anno e mezzo prima che Stalin, chissà perché, firmasse attraverso Molotov e Ribbentrop il patto di non aggressione con la Germania.

    Così nei primi mesi del 1936 le armi sovietiche avevano smesso di arrivare al fronte, il che voleva dire che Stalin malgrado tutti i suoi proclami, aveva maggiore convenienza a veder instaurato in Spagna l’ordine di Francisco Franco. Le torve, orribili immagini della guerra, le perverse, funeste immagini della politica avevano invaso la dolce baia col sole ormai tramontato.

    I papaveri rossi della canzone di Piero erano ingigantiti nella mia memoria e forse anche in quella di Fabrizio. Mentre si alzava per rispondere al richiamo della dolcissima Dori, mi disse: Quando è morto Stalin nelle strade della Foce dove abitavo allora cerano mazzi di fiori con la sua fotografia. Ela prima volta che ho visto il lutto vestito di rosso”.

    Chi è Fabrizio De Andrè

    Fabrizio De André era nato a Genova Pegli il 18 febbraio 1940. I primi anni di vita li trascorre a Revignano d’Asti dove la famiglia era sfollata, mentre il padre era braccato dai fascisti. A cinque anni torna (di malavoglia) a Genova, con il rimpianto per la campagna e il sogno di avere un’azienda agricola, sogno che realizzerà appunto in Sardegna, come racconta l’articolo di Fernanda Pivano.

    A scuola è insofferente, non è uno studente modello, gli bastava la sufficienza”, raccontò la madre. La vera passione è la musica. Nel 1956 sente un disco di Georges Brassens: è una folgorazione, ha trovato il filone per le sue storie ma anche l’impegno sociale, con le letture dei testi degli anarchici (Bakunin, Kropotkin e Stirner). Dopo il liceo classico frequenta l’Università, ma senza laurearsi. Legge Villon e Dostoevskij ed entra nella cerchia di nuovi amici, Gino Paoli, Luigi Tenco, Paolo Villaggio. Compone le sue prime canzoni: è del 1960 la ballata del Michè”: ha 20 anni, e la canzone è già un capolavoro. Si sposa nel 1962 con Enrica Rignon (e nello stesso anno nasce Cristiano). Nel 1965 la svolta: Mina, già cantante affermata, canta La canzone di Marinella”.

    E’ un successo e arrivano i primi soldi. L’anno dopo, 1966, esce il primo LP con tutte le prime canzoni tra cui La guerra di Piero, La città vecchia, Carlo Martello, La canzone dellamore perduto, La canzone di Marinella, La ballata del Miché”. Nel 1967 esce un nuovo 33 giri, con Via del campo, Bocca di rosa, Preghiera in gennaio” dedicata a Luigi Tenco, che si è suicidato il 27 gennaio di quell’anno a Sanremo. Nel 1968 esce Tutto morimmo a stento”, nel 1970 La buona novella”, nel 1971 Non al denaro non allamore né al cielo”, nel 1973 Storia di un impiegato”, nel 1974 un album di Canzoni” e nel 1975 Volume VIII”. E proprio in quell’anno fa il suo primo concerto dal vivo, a “La Bussola”, nonostante la sua ritrosia è un successo. Compra un’azienda agricola in Sardegna. Dal 1974 è legato sentimentalmente a Dori Ghezzi, dopo la separazione dalla moglie: nasce Luisa Vittoria (Luvi). Nel 1978 esce l’album Rimini” e l’anno successivo In concerto” con la PFM. Il 27 agosto del 1979 Fabrizio e Dori sono sequestrati dall’Anonima Sequestri e restano prigionieri per 4 mesi. Nell’album LIndiano” c’è l’eco di questa esperienza con la canzone Hotel Supramonte”. E’ del 1984 Creuza de mä”, dedicato alla sua Genova. L’anno dopo muore suo padre a 72 anni e nel 1989 il fratello Mauro a soli 54 anni. A dicembre di quell’anno viene celebrato il matrimonio con Dori Ghezzi. Sono anni di… silenzio, rotto nel 1990 con l’album Le nuvole”. L’anno dopo torna ai concerti (da qui l’album dal vivo Concerti”). A gennaio del 1995 muore la mamma a 83 anni. Nel 1996 esce Anime salve” ma anche un romanzo, Un destino ridicolo” (Einaudi). Nel 1997 in un album (Mi innamoravo di tutto”) sono raccolte molte vecchie canzoni, reinterpretate o riprodotte nella loro versione originale.

    E’ l’estate 1998: il 25 agosto gli viene diagnosticato il tumore ai polmoni. L’11 gennaio 1999, Fabrizio De André muore all’Istituto Tumori di Milano.

    Chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tuttaltra tendenza. Esuccesso tra il 37 e il 41: quando questo ha significato coraggio”. (Fabrizio De Andrè)

    Chi è Fernanda Pivano

    Fernanda Pivano è una figura di rilievo nella scena culturale italiana soprattutto per il suo contributo alla divulgazione della letteratura americana in Italia. Ha iniziato l’attività letteraria sotto la guida di Cesare Pavese nel 1943 con la traduzione dell’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters. Da allora ha tradotto molti romanzieri americani (fra gli altri Faulkner, Hemingway, Fitzgerald, Anderson, Gertrude Stein) e a quasi tutte le traduzioni ha preposto lunghi saggi bio-socio-critici. Come talent scout editoriale ha suggerito la pubblicazione degli scrittori contemporanei più significativi d’America, da quelli citati degli Anni Venti e a quelli del dissenso negro (come Richard Wright) ai protagonisti del dissenso non violento degli anni Sessanta (quali Ginsberg, Kerouac, Burroughs, Ferlinghetti, Corso) agli autori ora giovanissimi quali Leavitt, McInerney, Ellis (per il quale ha scritto un lungo saggio che costituisce una breve storia del minimalismo letterario americano). Si è presto affermata come saggista confermando in Italia un metodo critico basato sulla testimonianza diretta, sulla storia del costume e sull’indagine storico-sociale degli scrittori e dei fenomeni letterari.