Non ci sono più i partiti di una volta, come le stagioni, il tempo passa come le passioni. E’ un pomeriggio d’estate, sotto una pergola, un moscato fresco e qualcosa da mandarci dietro e ricordi tanti. Ma ci avete creduto davvero alla rivoluzione? Guerino Surini è sulla soglia dei settant’anni, potrebbe aver ceduto allo sconforto di quelli che hanno lottato una vita per un sogno sbagliato. “Faremo come la Russia”, si cantava, si andava in giro per i paesi a fare le tessere, a vendere il giornale del partito L’Unità, a fare i bastian contrari in mezzo alla maggioranza che votava “dall’altra parte”, per la Democrazia Cristiana. Perché la lotta era a due, col Partito Socialista a fare da terzo incomodo, prima alleato e poi, con la nascita del centrosinistra, alleato di “quegli altri”, i nemici. Che poi nemici non si aveva modo d’esserlo, nei paesi, ci si conosceva tutti, spesso si era parenti addirittura di quelli del Fascio, che anche nel ventennio dovevano tener conto delle parentele e dopo si portarono dietro le loro nostalgie di reduci di una guerra persa e fatta perdere anche a chi non era allineato e anzi detestava il Fascismo e Mussolini. “Ma certe cose non si dimenticano. Come mi raccontava mio padre, eravamo sul fnire della guerra, passava in bici davanti alle scuole. C’erano due ragazzi soldati, fascisti, avranno avuto 15-16 anni, lo hanno fermato e gli hanno chiesto i documenti. Poi gli hanno dato due calci nel sedere e l’hanno fatto passare. ‘Li avrei uccisi’, diceva e lo poteva fare perché era grande grosso. Ma quei due calci presi da due ragazzini non li dimenticavano, gli bruciavano ancora”. E’ il 1924 quando il primo della famiglia Surini di Castello di Rogno prende la tessera del neonato Partito Comunista Italiano. Si chiama Giuseppe Surini. Da quell’anno nessuno che portasse il cognome di Surini venne più assunto negli stabilimenti della Dalmine di Costa Volpino o all’Ilva di Lovere. Furono considerati come degli appestati, dei “sovversivi”. Tranne uno, Enrico, 16 anni, fglio di quel precursore della militanza estrema (allora) di sinistra. L’eccezione si impose sul fnire della seconda guerra mondiale. C’era stata una retata di tedeschi e fascisti nella zona di Castello di Rogno. Nel fuggi fuggi generale Enrico riuscì a scappare ai “rastrellatori” ma fece poca strada, dopo mezzo chilometro fu preso e massacrato di botte che lo segnarono nel corpo per sempre. Non era un partigiano ma certe ferite erano considerate da “battaglia” e così lo assunsero, appena fnita la guerra, all’Ilva, nonostante quel cognome compromettente. Ma “era stato dalla parte giusta” e i comunisti erano stati artefci della Resistenza, a Lovere c’era stata la gloriosa formazione partigiana la “Garibaldi” comandata da “Montagna” (Giovanni Brasi). Insomma all’Ilva evidentemente qualcuno voleva rifarsi una verginità politica e così un Surini poté rientrare in fabbrica dopo l’ostracismo durato quasi 25 anni. Ben più tragica la retata nella frazione di S. Vigilio, dove vennero catturati e fucilati, il 18 marzo 1945, due giovani partigiani, Valerio Balzarini e Domenico Fantoni, cui venne intitolata la sezione del PCI di Rogno. Guerino Surini racconta la storia di come si viveva da “comunisti” in un paese, Rogno, dove bisognerà aspettare il 1995 per vedere in maggioranza (lista civica) uno dei loro, ma a babbo morto, nel senso che il Pci non c’era più come non c’era più la Dc, i due partiti che avevano fatto la lunga storia di passioni e ideali nel dopoguerra. Guerino ha preso tutte le tessere dal 1970 ad oggi, anche se la tessera portava nomi diversi, prima il glorioso Pci, poi Pds, poi Ds e infne Pd. Le vicine Castro e Lovere erano eccezioni rosse in una provincia tutta bianca. Guerino è nato il 22 giugno 1943, Giuseppe Surini, il precursore della militanza nel partito comunista era lo zio del papà, Narciso Surini, che aveva cominciato a lavorare giovanissimo, nel 1913, alla Franchi-Gregorini di Lovere, 12 ore al giorno, partendo da Castello di Rogno, ogni giorno andata e ritorno a piedi, portandosi dietro “ol parulì” per fare polenta. Non era iscritto al Pci ovviamente (non era ancora stato fondato). In fabbrica erano in tre di Castello, due fratelli e un cognato. E facevano politica, a modo loro, anche in pieno regime fascista. Furono chiamati in Direzione: non risultavano iscritti al partito fascista. In direzione erano comprensivi, “se ne iscriva almeno uno” e loro a rispondere, “adesso ci pensiamo”. Ci pensarono per vent’anni, non si iscrissero mai. Narciso ebbe 5 fgli: “In casa non si parlava che di due cose, lavoro e politica”. Finito il ventennio, si respirava aria di libertà. E i comunisti uscirono allo scoperto. A Castello c’era il Circolo Enal, il loro bar. Ricordate Don Camillo e Peppone e la loro amicizia confittuale? Le passioni sono forti, ma i sentimenti ancora di più. Così si poteva convivere pacifcamente. Fino a un certo punto. “La campagna elettorale del ’48 fu una battaglia anche di manifesti. La Dc aveva i suoi e noi i nostri. E le nostre donne di notte prendevano le scope, andavano in strada, le immergevano nello sterco di vacca che non mancava mai per strada e imbrattavano i manifesti della Dc. Quelli della Dc strappavano i nostri”. Era il tempo in cui i “Don Camillo” non avevano il ruolo che nei libri di Guareschi ha il protagonista. Là era Brescello, là erano in maggioranza i rossi. Ma da noi era il contrario, comandavano i bianchi e in genere li guidavano i parroci. Avrete avuto le vostre grane dal pulpito. “Non tutti i preti la pensavano allo stesso modo. E’ successo ad esempio che alcuni parrocchiani, democristiani, volevano mandar via il parroco di Castello, Don Ferrari”. Perché, stava dalla vostra parte? “Macché, non si sa perché, fatto sta che si erano messi a raccogliere frme da mandare al vescovo. Abbiamo saputo che avevano lasciato per ultimo quelli del nostro bar, perché tanto, dicevano, quelli frmano di sicuro. Si presentano un giorno al Bar Enal e spiegano a quelli che c’erano che dovevano frmare per mandare via il parroco. C’erano tra gli altri mio padre, il cognato di mio padre, il papà dei Fardelli, uno zio del sindaco attuale di Rogno, tutti comunisti. Mio padre gli risponde che non frmano, se non a una condizione: che mandato via questo parroco non ne facciano arrivare un altro. ‘A noi questo parroco non dà nessun fastidio, non siamo andati a prenderlo con la musica e nemmeno abbiamo suonato le campane quando è arrivato, per noi può stare qui altri cento anni’, gli dice. E quelli se ne vanno con le pive nel sacco. Qualche giorno dopo Don Ferrari vede mio padre passare vicino alla canonica e gli dice, ‘Narciso, vieni a bere un bicchiere di vino?’. Mio padre non rifutava mai un bicchiere di vino, in canonica c’era anche il nipote del parroco, quel don Pierino che a Clusane poi fece un sacco di opere. Don Ferrari venne poi due volte a salvarmi in collegio…”. Guerino le scuole le aveva fatte al Patronato S. Vincenzo di Clusone e poi nel Collegio Vescovile di Celana, corso per geometri. Insomma scuole cattoliche per un comunista. La prova che i preti erano più tolleranti degli imprenditori cattolici che non assumevano i Surini? “Per essere assunti dovevi avere il certifcato di buona condotta del parroco. Magari don Ferrari ce lo avrebbe anche fatto, ma non glielo abbiamo mai chiesto. A Celana mi presero perché avevo i certifcati di battesimo e di cresima. Ma quando frequentavo la terza geometri un assistente si accorse che non facevo mai la Comunione. Mi volevano espellere. Venne Don Ferrari a parlare con i superiori e gli disse: anche a Guerino ho messo il sale sulla lingua come agli altri fratelli, intendendo dire che mi aveva battezzato. Insomma mi difese e io presi a fare la comunione. Ma l’anno dopo si accorsero che facevo la Comunione ma non mi confessavo mai. Venne un’altra volta don Ferrari a salvarmi e da quel giorno cominciai a confessarmi, ma confessavo solo le cose che volevo. Un mio compagno di scuola ogni tanto veniva chiamato nell’uffcio dei vicerettore e ci diceva che quello lo prendeva a schiaff. Dopo un po’ gli chiedo: ma vai a confessarti? Avevo indovinato. E gli dici che quando vai con la tua ragazza le tocchi il… sedere? Per forza dopo quello ti mena. Lui non confessò più niente e non prese più schiaffoni”. Ma vi interessavate di politica? “Certo, anzi, facevamo delle votazioni tra studenti. Mi ricordo che nella mia classe eravamo in 31, ed eravamo in 7 di sinistra, c’erano 8 o 9 del Msi e gli altri della Dc”. Ma vi menavate? “Andavamo d’accordo, si scherzava e ancora adesso, quando ci si ritrova, ci si dà del fascista o del comunista per scherzare”. Già, gli anni erano quelli tra il 1963 e il 1965, non era ancora scoppiato il ’68. “Il ’68 io non l’ho fatto, era a lavorare in Trentino”. Lavoro da geometra? “No, avevamo un’impresa di famiglia e facevo l’autista dei camion e degli scavatori. Mai fatto il geometra”. Immagino che non abbiate avuto molti lavori dagli enti pubblici. “Ne abbiamo avuto due, a quel che ricordo, uno dal Comune di Rogno per la strada RondineraCastello ma avevamo fatto un ribasso pauroso, il 30%. Era il 1961 ma era successo un casino in Comune, nella Dc avevano litigato e il sindaco designato Giovanni Giudici era stato silurato dai ‘giovani Dc’ che in Consiglio – il sindaco allora lo eleggeva il Consiglio comunale – avevano eletto un altro, uno più giovane. Forse quel lavoro l’abbiamo preso in quel momento di sbandamento della Dc. Per il resto non si vinceva mai un appalto. Ne abbiamo vinto un altro per la Castello-S. Vigilio ma il committente era il BIM (Bacino Imbrifero dell’Oglio) non il Comune”. Ma quanti erano i comunisti a Rogno? “Abbiamo avuto anche 490 voti, una volta, su duemila abitanti non erano pochi”. E in famiglia eravate tutti comunisti? “No, un fratello era socialista e uno… beh, gli piaceva solo suonare, fsarmonica e tromba, erano le sue passioni. Ma a me l’avevano giurata. La Dc delle volte presentava anche un’altra lista per escludere noi. Una volta ero candidato e la Dc mise in campo le ‘tre Marie’ che andarono casa per casa per far fare le preferenze a un altro, spostarono 150 voti democristiani pur di non farmi eleggere”. Guerino la sua rivincita se la prese dieci anni fa, quando fu eletto sindaco. Ma da militanti, tuo padre, i parenti… davvero credevano che si sarebbe fatta la rivoluzione? “Mah, non so, so solo che quando è morto Stalin, nel ’53, a mio padre una lacrima gli è caduta di sicuro. Ricordo che leggeva sempre L’Unità, si faceva la barba sul poggiolo e un giorno, parlando della guerra di Corea, 1950, avevo sette anni, disse: ‘Adesso li uccidono tutti, gli americani’. Non andò così, ma tanto per dire da che parte si stava”. Ci fu un giorno in cui il Pci fu primo partito in Italia, proprio l’anno della morte di Enrico Berlinguer, alle elezioni europee del 1984. Ma fu il canto del cigno. Illusioni e delusioni: “Ho sempre preso la tessera, ma mi ricordo uno che un giorno disse: ma ci credete voi che 15 mila dipendenti il partito li mantiene con le salamele della festa dell’Unità? Si parlava di fnanziamenti che arrivavano dalla Russia. Ma i vecchi li facevano stare zitti, quelli che dicevano queste cose. Adesso sono critico anch’io ma mi rassegno al fatto che si fa quello che si può, non c’è alternativa”. Ma c’è ancora una “sezione” del partito, insomma del Pd a Rogno? “Certo che c’è ancora, anche se non abbiamo più la sede”. Un tempo le sedi delle sezioni di partito segnavano il territorio ed erano il bersaglio degli avversari. Oggi con la scomparsa delle passioni sono scomparsi anche gli avversari. “Siamo una trentina…”. Tutti vecchi? “No, c’è qualche giovane”. E di cosa parlate? “Delle elezioni. Quando dicono ‘largo ai giovani’ bisogna anche che i giovani si facciano avanti”. Forse bisognerebbe dargli un sogno. Ma i vecchi sogni sono svaniti. Niente più rivoluzioni, solo elezioni.
QUANDO LA POLITICA PERDE LA PASSIONE
Le passioni politiche sono svaporate. La politica provoca solo repulsione. Si invoca l’impegno dei giovani e poi gli apparati, quando ne arriva uno, lo mortifcano relegandolo a galoppino del presunto leader locale che a sua volta è il terminale del leader di zona che a sua volta eccetera. I vertici sono quelli che compaiono in tv. Desolante. Troppe illusioni, troppe disillusioni, zero passioni. Il vecchio Pci era il portatore (sano?) addirittura di un progetto di rivoluzione sociale. Se è vero che si nasce incendiari, era ovvio che i giovani aderissero a quella prospettiva di buttare in aria il mondo. Ma non solo, i giovani sono quelli che vanno sulle barricate, ma dietro ci vogliono cervelli. E il Pci arruolò for di intellettuali a supporto di un progetto globale e scientifco, ma anche poetico, di un diverso modo di stare al mondo, secondo principi di giustizia e libertà. Parole grosse, soprattutto se coniugate con la politica del confronto e dello scontro parlamentare, fatto accettare alla base inquieta (compresa quella che nell’immediato dopoguerra aveva seppellito le armi della Resistenza che sarebbero servite per la… rivoluzione), come un passaggio “democratico” da sopportare in attesa della palingenesi fnale. Era il tempo in cui la “classe operaia” voleva andare in paradiso, come nel celebre flm, ma hic et nunc, sulla madre terra. Quel composito mix (intellettuali, giovani, classe operaia) produsse il più grande Partito Comunista dell’occidente. Cui si contrappose il più grande partito centrista, quello democristiano. Ambedue con il sostegno esterno dei due blocchi contrapposti, Usa e Urss che li fnanziavano e sostenevano. Con un risvolto ignorato dalle masse: quello che l’Urss non aveva alcun interesse a che si installasse davvero in Italia un regime comunista. Il mondo era stato già diviso in due parti e l’Italia “doveva” stare con l’occidente, la rottura del patto di Yalta sarebbe stato dirompente. In questo equivoco (rivoluzione solo annunciata) è vissuto il Pci che nel tempo ha visto crescere il dissenso interno per le scelte sovietiche (Ungheria e poi Cecoslovacchia), favorendo scelte riformiste che hanno creato alla sua sinistra movimenti (il ’68) e partitini di esplicito dissenso radicale. Ma se il distacco dall’Urss era stato sempre più evidente perché il Pci andò in dissoluzione dopo la caduta del muro di Berlino? In teoria giustifcava a posteriori quel distacco. Quella caduta del muro era come la voce del bambino de “Il re è nudo”, certifcava il grande inganno di un falso obiettivo, il Pci diventava uffcialmente un partito “socialista” e riformista, dando indirettamente ragione ai dirigenti del Psi e del Psdi. Ma ammetterlo sarebbe stato come confessare di aver sbagliato, chiedendo scusa per le invettive contro i socialisti “traditori” che si erano alleati con la Dc nel centrosinistra. Quell’ammissione e quelle scuse non ci sono mai state. Ma la “base” ha preso atto di quell’errore, si è leccata le ferite ed è andata a cercarsi altri sogni, e non trovandoli, si è accontentata di surrogati, rassegnandosi a sopravvivere ai sogni infranti.