Ma i giornalisti sono liberi di raccontare quello che vedono? La domanda giusta sarebbe: ma siamo liberi noi di poter sapere cosa succede? Abbiamo a disposizione una valanga di informazioni. Ma una valanga trascina di tutto, spacca e travolge, in questo caso anche la verità. C’è di tutto, affermazioni apocalittiche, critiche di principio, falsità, calunnie, sospetti, offese, denunce, giudizi trancianti e spesso gratuiti. E’ il (o lo) web, bellezza. Per cui, ascoltando tutto e tutti, non si sa praticamente niente. Sospettando di tutti non crediamo più a nessuno, se non a chi riporta esattamente le cose come noi pensiamo siano andate, e se la realtà è un’altra tanto peggio per la realtà. Ed ecco che i giornali annaspano, tutti giornalisti fai da te. L’illusione di trovare tutto gratis ha portato alla crisi del sistema dei mass media tradizionali. Cominciando dal cartaceo. Che, dato per morto, tuttavia resiste, si trasforma, si rilancia. Soprattutto nel piccolo, nel locale (per questo sorprende la crisi de L’Eco). I media sono diversi e hanno esigenze diverse: la televisione deve far vedere, la radio deve far parlare, i giornali devono raccontare. In più aggiungete i nuovi mezzi, quelli dei siti, dei blog, di facebook in cui le testimonianze, le critiche, le opinioni, le proposte, gli appelli si frantumano in mille rivoli. Nella ricerca di specifcità, di nicchie di mercato (già, il mercato) i quotidiani si “settimanalizzano” (vale a dire aumentano articoli di approfondimento e introducono rubriche di ogni genere). Nell’era del tutto subito e gratis, si cerca di caratterizzarli. Anche la Tv va verso offerte a pagamento, ma ha dalla sua le “esclusive” delle immagini. Non ci sono “esclusive” per le notizie. Le esclusive dei giornali sono i commenti. Il vecchio modo di dire, “c’è scritto sul giornale” (sottinteso: quindi è vero), è stato sostituito da “l’hanno detto alla Tv”. Quale Tv è troppo faticoso precisarlo, mentre per i giornali si è ancora in qualche modo attrezzati nel defnirli, per la Tv siamo all’anno zero, per la maggior parte della gente un Tg vale l’altro. Non è vero, come dimostra il boom di ascolti non appena è apparso un Tg “equilibrato” ma non ossequioso e non fazioso come quello de La 7. Ma in generale, anche per il fatto che gli editori devono ossequiare i potenti, come succede anche nei rapporti personali, si è quasi “obbligati” a schierarsi, tu da che parte stai? E’ la ricaduta di un malinteso bipolarismo che in natura non esiste ma è ben radicato nella storia italiana, un eterno derby politico e sportivo. L’autorevolezza un giornale l’acquista e la conserva con minori errori possibili (errori ce ne saranno sempre, la fretta è una componente devastante). Ma la scelta più gettonata è quella di mandare al diavolo l’autorevolezza e buttarsi nella mischia. Nella confusione del ruolo, gli editori, e di conseguenza i giornalisti, ritengono legittimo e giusto schierarsi, cercando lettori-elettori e propinando loro versioni compiacenti delle opinioni correnti, che si piegano ma non si spezzano anche di fronte all’evidenza. Parlavo di giornalismo una sera di giugno in un paese della Collina. Da facebook, dove c’era un collegamento diretto, arriva una domanda secca: “Se lo scenario giornalistico è questo, a chi devo credere, qual è la verità?”. Ho risposto che i giornali non sono il Nuovo Testamento, non devono essere oggetto di fede (“credere”). Ai giornalisti non si deve “credere” ma si deve “chiedere” che raccontino quello che hanno visto e sentito, senza omissioni e aggiustamenti (o addirittura stravolgimenti) dettati dalla linea editoriale schierata. E l’autorevolezza la acquistano man mano che i lettori hanno i riscontri che quello che hanno letto è vero. Riscontri che richiedono tuttavia intelligenza ma soprattutto fatica. E allora uno dice, le immagini sono neutre, viva la Tv. In realtà si può far vedere quello che si ritiene conveniente, i rifuti di Napoli “devono” sparire? Basta inquadrare l’unico angolo pulito della piazza. I rifuti “devono” esserci? Basta inquadrare il punto di maggiore ammassamento. E così la storia delle macerie del terremoto in Abruzzo… Le immagini piegate a sostenere la tesi della testata, dell’editore, quindi del giornalista. La democrazia è faticosa, come la ricerca della verità, la conoscenza. C’era un flm del 1950 (badate all’anno, pieno di “certezze” e di fedi inattaccabili che, direbbe Brecht, furono attaccate) di Akira Kurosawa, Rashomon (poi rifatto nel 1964 col titolo L’oltraggio con Paul Newman) in cui tre testimoni raccontano… quattro versioni dello stesso fatto di sangue (un uomo ucciso, la moglie violentata). Qual è la verità? Ognuno è testimone di una parte di verità, quella che riesce a vedere, quella che gli fanno vedere. I giornali non sono portatori sani di tutta la verità, solo di una parte. Ma se da osservatori diventano attori, parteggiano, sono faziosi, non cercano la verità, per parziale che sia, ma cercano la verità di comodo, praticamente raccontano false verità (l’ossimoro è di moda). Questi giornali vendono, relativamente poco, ma vendono. Vendono a chi evidentemente non cerca la verità ma la conferma delle proprie opinioni, in economia, in politica, perfno nello sport (da qui lo sbracamento dei titoli di Tuttosport, ad esempio, verso le squadre che non siano la Juve). Chi cerca di raccontare da vari punti di vista quello che succede, viene accusato di cerchiobottismo, ci sono più surrogati di “fedi” in questo periodo di quante ce ne fossero ai tempi dei grandi partiti che si rifacevano a robuste (intellettualmente) dottrine sociali. Sono fedi nei condottieri. A pranzo parliamo con gli amici. Uno sbotta: “Il centrosinistra? Non vincerà mai senza un leader”. Perché mai, chi l’ha detto che sia inevitabile? La democrazia è faticosa, già detto. Come già detto è che l’era dei condottieri di partito sta per fnire e non solo per questioni anagrafche. Che c’entra con l’informazione, col giornalismo? Tutto c’entra, il giornalismo è il racconto di quello che è successo, con l’aggiunta di commenti e interpretazioni (in alcuni casi di possibili scenari futuri). Aiutano a capire. Aiutano chi vuole sapere, chi vuole capire. Non sono la bocca della verità, ma aiutano a cercarla.
L’INCHISTA Le vendite continuano a calare. Non per tutti però, il giornalismo cambia, i giornali anche. Il valzer dei direttori è frenetico e l’accoppiata giornali-politica torna di moda. Sino a qualche anno fa il fuggi fuggi dalle testate schierate pagava, civicizzarsi in ogni modo, cerchiobottismo esasperato e fuori dai giochi, per molti però solo uffcialmente. Adesso, in un momento di crisi nera anche per l’editoria si scopre che i giornali che vendono di più sono quelli… schierati, Il Fatto quotidiano notoriamente non proprio vicino a Berlusconi in un anno ha raddoppiato le vendite e il sito online ha sorpassato quello de Il Giornale e de La Stampa. L’andirivieni di Feltri Tempi duri anche per (l’ex?) re Mida della carta stampata, quel Vittorio Feltri che ha traslocato nuovamente ed è ritornato a Il Giornale. Dopo soli sei mesi dall’inizio della sua avventura come direttore editoriale di Libero e con Maurizio Belpietro (che qualcuno, qui in redazione, defnisce la brutta copia di Feltri), il Vittorioso è tornato a casa, al quotidiano di Berlusconi, dove, per ora, rimane anche Alessandro Sallusti, l’attuale direttore responsabile, che non ha fatto certo i salti di gioia. Vittorio Feltri era stato direttore de Il Giornale dopo Indro Montanelli dal 1994 al 1997, poi nel 2000 aveva fondato Libero, che ha diretto per nove anni. Quindi un nuovo passaggio nel 2009 con il ritorno a Il Giornale seguito dal rientro a Libero a dicembre dell’anno scorso. Ora un nuovo cambio. Insomma il Diretùr bergamasco lascia Libero per la seconda volta ed è tornato a Il Giornale per la terza volta. Secondo le indiscrezioni tutto comincia il 30 maggio, il famoso lunedì nero post elezioni, il giorno della sconftta del centro destra a Milano e Napoli. Al terzo piano della redazione del Giornale a Milano arrivano gli operai per ricavare un uffcio in più. Fino a quel giorno nella stanza di Montanelli c’era Sallusti con la segreteria, poi i vice De Bellis e Porro e poi la sala riunione. Gli operai lavorano lì, arriva un inquilino in più. Perché? Secondo indiscrezioni Libero è in cattive acque, il boom di vendita non c’è stato e proprio quel giorno circola la voce che il deputato berlusconiano Antonio Angelucci che è il patriarca della famiglia che controlla Libero lascia. E arriva anche la sentenza dell’Agcom che impone a Libero di restituire 12 milioni di euro di soldi pubblici e gliene fa perdere altri 6 non incassati ma che a bilancio c’erano già. Il 3 giugno Feltri si dimette da Libero, batte a macchina la lettera di dimissioni e se ne va senza salutare nessuno, nemmeno Belpietro, di cui Feltri, si dice, non abbia molta stima. Lunedì 6 giugno Feltri è già al Giornale e guida la riunione del mattino, decide cosa pubblicare e cosa scartare. E Sallusti? Incassa, nemmeno poi tanto a denti stretti (Sallusti è una creatura di Feltri, il direttore che ”porta pena”, insomma “responsabile”, mentre il direttore vero fa e disfa). Comunque Sallusti cede la stanza a Feltri e trasloca nel nuovo uffcetto. Concita anima persa Sul fronte giornali centro sinistra non si sta meglio. Concita De Gregorio non è più il direttore de L’Unità e Pierluigi Bersani è accusato di averla fatta fuori, troppo veltroniana. Concita sembra prossima a tornare a La Repubblica. Al suo posto tocca a Claudio Sardo. Chi era costui?, verrebbe da dire. In mezzo fnanziamenti, fdejussioni, l’ultima da un milione di euro sollecitata proprio da Bersani e correnti e correntine che hanno diviso la redazione. Lei, Concita, ci ha provato ma niente da fare, si torna a casa, a Repubblica dove Ezio Mauro ha già detto che la riprende a braccia aperte. Intanto i numeri sono impietosi anche per L’Unità, anche qui crollo di copie.